La luce della fede per superare la "notte europea"

L’ottimismo cristiano per superare le paure diffuse dai profeti di sventura

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di Carmine Tabarro

ROMA, martedì, 3 luglio 2012 (ZENIT.org) – Come ho sostenuto in precedenti interventi “la notte dell’Europa” oltre alle motivazioni pratiche (la divisione tra i leader europei, gli egoismi nazionali, la mancanza di regole condivise, il turbocapitalismo, ecc.) ha origine anche in una diversa lettura di antropologica teologica.

Sembra sempre più è evidente che le attuali divisioni in Europa nel governare la crisi trovano le loro fondamenta nell’eterogeneità di lettura dell’antropologia teologica antecedente alla creazione dell’Europa unita e della moneta unica e che riflettono anche i diversi percorsi teologici, culturali, politici e storici dei Paesi europei. Una prima riflessione: i PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna) sono tutti Paesi di matrice teologica cattolica (la Grecia essendo ortodossa ha comunque un antropologia teologica cristiana). Discorso diverso riguarda la Germania è i Paesi del Nord Europa dove l’elemento centrale di matrice protestante in particolare in quella tedesca in cui la stessa etimologia della parola debito e peccato è identica “sünde”; quindi la lettura di antropologia teologica che fa del debito un peccato.

Questo particolare non è sfuggito all’osservatore britannico del The Economist (1 ottobre 2011), secondo il quale a sentire il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, “sembra quasi di sentire un’eco di Martin Lutero che denuncia la vendita delle indulgenze”.

“La risposta giusta al peccato finanziario non è comprare indulgenze, ma il pentimento, la fede nella dottrina della stabilità finanziaria e delle opere: paga il debito, sii virtuoso nelle finanze pubbliche, frena il desiderio di alti salari e l’avidità dei prestatori di denaro. Solo così l’Europa si può salvare dalla perdizione”.   

I tedeschi chiamano i PIIGS –  “Defizitsünder”, i “peccatori del deficit”, o gli “Schuldenstaaten”, gli stati dei debiti.

Un’altra diversità la notiamo tra l’ora et labora di benedettina memoria e il laborare est orare di calvinistica memoria.

Tutte queste osservazioni dimostrano come esista una differente lettura di antropologia teologica sull’uomo, sulla società, che di conseguenza genera una diversa lettura dell’attuale crisi.

Circa il rapporto tra la visione economica protestante e quella cattolica il politico cattolico tedesco Heiner Geissler, nel mese di marzo 2012 ha affermato in una intervista: “Constato che nel confronto globale finalizzato alla costituzione di un nuovo ordine sociale ed economico in grado di sostituire il capitalismo di matrice protestante la chiesa cattolica e la sua teologia ufficiale non giocano alcun ruolo”.

Una critica al radicalismo protestante della Angela Merkel viene anche dal cattolico Helmut Kohl che lo scorso 19 luglio dopo anni di silenzio, rivolse aspre critiche alla sua pupilla Angela Merkel dicendo che: “Sta rovinando la mia Europa”. 

Pressato da Barack Obama che gli chiedeva di convincere la Merkel ad aprirsi a politiche keynesiane di sostegno alla crescita, il presidente del consiglio italiano Mario Monti, ha spiegato al Presidente degli Stati Uniti che in Germania l’economia è (ancora) parte della teologia morale, per cui la crescita non è il frutto delle politiche keynesiane di sostegno alla domanda ma il premio a comportamenti virtuosi. Di seguito la risposta letterale di Monti ad Obama: “Può darsi che con il tempo ci riusciremo, ma ci vuole una traduzione concettuale”.

Da tempo sostengo che le difficoltà della classe dirigente europea dinanzi alla crisi europea, e in particolare la cultura politica della Germania, sono il risultato di profonde differenze culturali e di antropologiche convinzioni che regolano i rapporti tra le persone in Germania (e nel Nord Europa) rispetto a quanto vige nei PIIGS.

In Germania è fortemente radicata la cultura della cooperazione e della punizione sociale che richiede ai cittadini di contribuire al bene comune e di punire chi non vi contribuisce. Nei PIIGS prevale  -fatte le dovute eccezioni – una cultura in cui i rigoristi vengono appellati in maniera dispregiativa come moralisti.

Non deve sorprendere che culture così diverse abbiano difficoltà a dialogare. Il grande problema è che questo radicalismo punitivo non coinvolge solo la Merkel; la sua politica estera gode di un consenso strepitoso con oltre l’80% dei tedeschi che vi si riconoscono perché interpreta i loro sentimenti profondi.

Che fare per convincere i tedeschi da una parte e i Paesi PIIGS dall’altra? Una cultura che esalti se stessa può essere molto pericolosa è la storia in questo è maestra.

Purtroppo, il vuoto di senso comunitario ingenera un clima di pessimismo. Così noi europei, rischiamo di rinunciare a fare la storia: “passare alla storia senza più farla” -scrive Jürgen Habermas- o come scrive Benedetto XVI “congedarsi dalla storia”.

Giustamente il filosofo francese, Alexandre Lacroix, s’interroga: “Siamo come i romani del tardo impero, arrivati all’ultimo capitolo della nostra gloriosa (e violenta) storia? Edonisti e cinici, incuranti delle leggi e di Dio, incapaci di prendere qualcosa sul serio tranne noi stessi, non in grado di proiettarsi nel futuro, impigriti dalle comodità, superficiali e viziati, ci meritiamo di essere superati da altri popoli, più giovani, più ambiziosi, più forti?”.

L’Europa è un continente in declino? Non più il centro del mondo in una società liquida e senza centro. In Europa sembra affermarsi un radicalismo senza compassione che ha come fine quello di rassicurarci, di recuperare i confini. E’ un’illusione. Tutti i paesi europei (anche se in misura diversa), non potranno affrontare da soli le sfide globali, la crisi economica, il confronto con i giganti asiatici. Nessuno s’illuda. Se trionferanno i radicalismi i nostri valori si diluiranno nelle correnti della globalizzazione: sarà una perdita per il pianeta in civiltà, libertà e umanesimo. La nostra fede c’impone a non rassegnarci alla notte europea.

In tal senso il Vaticano II è la via per superare i radicalismi e guardare con speranza al  futuro. L’11 ottobre 1962, aprendo il Vaticano II, il beato Giovanni XXIII ebbe a dire: “Spesso ci vengono riferite voci che… non sono capaci di vedere altro che rovine e guai. Che vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con il passato, sono peggiori. Ci sembra di dover dissentire da questi profeti di sventura. Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose…”  

Anche noi, cinquant’anni dopo, dissentiamo dai profeti di sventura: riguardo al declino europeo e riguardo al fatto che la cultura individualistica debba inesorabilmente prevalere. Tra il Concilio Vaticano II e l’Unione Europea c’è uno stretto legame. Il Vaticano II fu nel dopoguerra, il primo evento globale,  che riunì anche i vescovi delle due parti, nonostante la guerra fredda. Inoltre proiettò – ben prima che si parlasse di globalizzazione- i cristiani europei nel mondo e diede una spinta decisiva al tentativo di superare gli scismi cristiani.

Il Vaticano II è una memoria di speranza.

La speranza nell’azione dello Spirito Santo non negozia con il pessimismo. Come cristiani non possiamo condividere la logica “si salvi chi può”. Scrive San Paolo nella Lettera agli Ebrei:  che chi crede è chiamato ad “afferrarsi saldamente alla speranza che ci è proposta (…) come un’ancora sicura (…) per la nostra vita” –

I cristiani sono il popolo dell’unità e della speranza e attraverso l’unità e la speranza devono vincere tutti i radicalismi che uccidono il bene comune. 

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ZENIT Staff

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