Papa Francesco e Card. Pietro Parolin- Foto (archivio) © PHOTO.VA - OSSERVATORE ROMANO

"La legge deve essere sempre e solo a servizio dell’umanità!"

Omelia del Segretario di Stato alla Messa d’apertura della Riunione dei Rappresentanti Pontifici in Vaticano

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Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Segretario di Stato, Em.mo Card. Pietro Parolin, ha pronunciato questa mattina nella Basilica Vaticana in occasione della Messa di apertura della Riunione dei Rappresentanti Pontifici, che si svolge in Vaticano dal 12 al 15 giugno 2019:
Omelia Card. Pietro Parolin
Cari fratelli,
Le letture dell’odierna liturgia, che oggi vengono proclamate in ogni piccola o grande comunità cristiana sparsa per il mondo intero, riecheggiano ora per noi in questa Basilica di San Pietro. Sono testi assai densi, che ripropongono alcune questioni dottrinali, dibattute nelle comunità cristiane primitive, riconducibili al ruolo riconosciuto al grande mediatore tra Dio e Israele, Mosè, e alla funzione svolta dalla Legge mosaica. Riprendiamo solo alcuni spunti che possono illuminare direttamente il nostro incontro che inizia con la preghiera intorno all’altare del Signore e, più in generale, il servizio di Rappresentanti Pontifici.
Nel Vangelo sentiamo che Gesù non intende abolire la Legge, anche se alcuni suoi gesti – ad esempio alcuni miracoli compiuti provocatoriamente in giorno di sabato – potevano suscitare dubbi e reazioni molto vivaci. Gesù, invece, è totalmente obbediente al Padre e ne osserva la Legge, fin nei dettagli più infimi (lo «iota» e il «trattino» costituiscono dettagli grafici di influenza minima): perché è proprio nelle realtà più piccole che si vivono le fedeltà più grandi! (cf. Lc 16,10). Allo stesso tempo, però, egli si pone come interprete autorevole dei comandi di Mosè. Basti pensare alle antitesi: «Avete inteso che fu detto, ma io vi dico». Gesù non rigetta, anzi, interpreta in modo sovrano la legislazione mosaica, intensificandone la radicalità. Egli pone, così, tutta la questione sul livello della giustizia più alta: quella dell’amore. Al riguardo Paolo dirà: «Pieno compimento della Legge è l’amore» (Rm 13,10). In questo senso potremmo definire Gesù come un “pio trasgressore”: «pio», in quanto fedele osservante della Legge mosaica, «trasgressore» (dal latino transgredior: «superare», «oltrepassare»), in quanto la supera in meglio, riconducendola al suo cuore pulsante[1]: il comandamento dell’amore.
La Legge è rimasta mummificata, fissa, immobile, pur dilatandosi oltre misura. Gesù le restituisce il movimento, la leggerezza, ne rivela le possibilità. La Legge imprigionata nelle forme, che ha raggiunto dimensioni spropositate, è una Legge de-formata, che non manifesta più le intenzioni di Dio, il piano del suo amore. Gesù la libera da queste ingessature sclerotizzanti, da queste armature esteriori, ne fa esplodere le contraddizioni, ne fa avvertire il senso, l’anima, la logica di fondo, ne rivela le conseguenze, la ricchezza e le potenzialità per il presente. Insomma, le restituisce il dinamismo rimasto congelato[2] . Questa osservazione ci permette, fra le altre, almeno due ricadute.
La prima: siamo costantemente invitati a vigilare sul nostro rapporto con la legge. Intendo qui soprattutto la legge canonica, senza escludere anche la legge civile. Da una parte ne dobbiamo essere i primi custodi e osservanti: il nostro operato di Rappresentanti della Santa Sede deve essere sempre esemplare e la nostra condotta cristallina. Dall’altra non va dimenticato che lo stesso Codice di Diritto Canonico ci insegna che «suprema lex salus animarum» (can. 1752; cf. can. 747, § 2), in obbedienza a quanto sosteneva Gesù: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27). Il nostro servizio e tutti i sistemi giuridici presenti nel mondo sono (o dovrebbero essere) indirizzati al bene dell’uomo e di ogni uomo: al rispetto dei suoi diritti, alla costruzione di una società più giusta, ad una convivenza nella pace. Questo, tra l’altro è l’ambito dell’azione diplomatica della Santa Sede. La legge deve essere sempre e solo a servizio dell’umanità!
La seconda: se il vertice della legge è l’amore, di quanta amorevolezza deve essere dotato il nostro servizio! Possono mutare le condizioni in cui ci troviamo: favorevoli in alcune Nazioni o avverse in altre. L’azione della Chiesa potrà essere favorita in qualche parte, oppure fortemente contrastata in altre. Ma niente e nessuno potrà impedirci di amare. Un amore appassionato per Cristo e per la sua Chiesa, un amore generoso per gli uomini, per le popolazioni presso cui siamo inviati e, soprattutto, per i poveri. Il riferimento a Mosè, poi, si ritrova, sotto altra forma, anche nella prima lettura. Paolo, infatti, scrivendo ai Corinti, stabilisce precisamente un confronto tra l’antico e il nuovo Patto. Il primo ministero Paolo lo definisce «glorioso», ma di una gloria transitoria, mentre del secondo afferma che è avvolto di una gloria di gran lunga sovrabbondante e duratura. L’idea sottesa al ragionamento è sottile: non c’è nessun intento di sminuire o liquidare il ministero di Mosè, che comunque è “glorioso”. Piuttosto, c’è il desiderio in Paolo di sottolineare la sovraeminenza del ministero della nuova Alleanza affidato alla sua persona. Egli ha piena consapevolezza della grandezza del proprio compito: il suo servizio apostolico è nientemeno che il ministero della Nuova Alleanza, dal quale promana una «gloria incomparabile» (2Cor 3,10), perché realizzata da Dio stesso nel mistero pasquale di morte e risurrezione di Gesù.
Questa convinzione di Paolo ha due dirette implicazioni: l’altezza smisurata del ministero e, contemporaneamente, la relativizzazione del ministro. La missione che gli è stata affidata è di origine divina, quindi è investita dell’autorevolezza stessa di Dio: «La nostra capacità viene da Dio» (2Cor 3,5b). Ma, al tempo stesso, la possibilità di svolgere questo incarico non poggia su doti o abilità personali dell’Apostolo: «Da noi stessi non siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi» (2Cor 3,5a). La gloria che in precedenza risplendeva sul volto di Mosè, ora non brilla sul volto di Paolo!
Ogni ministero nella Chiesa, compreso quello della rappresentanza pontificia, non gode di una gloria propria, ma deve riflettere unicamente quella della Nuova Alleanza in Cristo. Ogni giorno nella Santa Messa celebriamo il memoriale eucaristico con le parole stesse di Paolo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue» (1Cor 11,25), cercando costantemente di costruire con tutti rapporti di stima e fraternità, servendo alla «diplomazia del Vangelo». Sempre l’Apostolo afferma: Dio ha affidato a noi «la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta» (2Cor 5,19-20).
Il nostro ministero è altissimo, rivestito anch’esso di gloria divina, ma la nostra persona di ministri rimane segnata dalla povertà e dal limite. Si può essere Rappresentanti Pontifici solo nella stima del compito affidato e, contemporaneamente, nell’umiltà sincera circa la propria persona. Paolo, poi, sa che la sua esistenza è totalmente coinvolta nel ministero che egli svolge: il messaggero è pienamente implicato nel messaggio che reca. Infatti, nei versetti successivi alla nostra pericope (che ascolteremo domani), sostiene una progressiva trasformazione dei ministri nel Vangelo che annunciano: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18). Il verbo utilizzato (metamorfoúmetha) – lo sappiamo – è il medesimo che si presenta nell’episodio della Trasfigurazione di Gesù. Lasciamoci, dunque, trasformare dal nostro compito: se i messaggeri devono fare corpo unico col messaggio che annunciano, anche i Rappresentanti Pontifici sono chiamati in qualche modo a lasciarsi trasfigurare dall’annuncio che recano.
Nell’antichità gli ambasciatori godevano di uno statuto straordinario: in qualità di rappresentanti, rendevano presente la persona stessa del re. Se si accoglieva o, al contrario, si respingeva l’ambasciatore, era come se questo gesto lo si fosse fatto direttamente al monarca rappresentato: nell’inviato c’era qualcosa dell’inviante. Ecco. Non solo deve rendersi presente in noi lo stile pastorale del Santo Padre, che rappresentiamo e negli Stati presso i quali siamo accreditati, ma il nostro cuore di pastori e di vescovi deve immedesimarsi sempre più con il Vangelo stesso e con la Nuova Alleanza di Gesù. Questo farà di noi uomini di grande fede, di umiltà autentica, di amore appassionato per il Signore e per gli uomini e di dedizione incondizionata per la Chiesa, sposa di Cristo. Saranno queste le credenziali più belle che renderanno “glorioso” il vostro ministero!
Desidero, infine, affidare la conclusione di questi miei pensieri allo stesso Paolo: «E pregate anche per me, affinché, quando apro la bocca, mi sia data la parola, per far conoscere con franchezza il mistero del Vangelo, per il quale sono ambasciatore in catene, e affinché io possa annunciarlo con quel coraggio con il quale devo parlare» (Ef 6,19-20). Preghiamo, dunque, fratelli, perché il nostro servizio di Rappresentati Pontifici, ci tenga “incatenati” al Vangelo di Gesù in modo irreversibile, così da diventare anche noi gioiosi e coraggiosi “ambasciatori in catene”, “prigionieri” per sempre della legge dell’amore. Mettiamoci nelle mani e nel cuore di Maria, nostra Madre, Madre della Chiesa e Regina degli Apostoli. E cosí sia.
___________________
[1] Cf. A. Martin, «Un “pio trasgressore”. Il rapporto di Gesù con la dimensione rituale-cultuale del suo tempo», CredereOggi 4(2015), 40.
[2] A. Pronzato, Il Vangelo in casa. L’“oggi della Parola di Dio”, Gribaudi, Torino 1992, 183.

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ZENIT Staff

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