La lectio divina, docile obbedienza a Dio che parla (I)

Intervista a padre Bruno Secondin

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di Mirko Testa

ROMA, mercoledì, 20 agosto 2008 (ZENIT.org).- La Parola di Dio deve essere sì scavata e filtrata attraverso una corretta preparazione, ma non ha bisogno delle nostre riflessioni o attualizzazioni per avere nuova efficacia perché ha già in sé una forza dinamica di rivelazione e liberazione.

A sostenerlo è padre Bruno Secondin, O. Carm., che in questa intervista concessa a ZENIT ripercorre la storia di questa antica prassi che risale alla spiritualità premonastica e di cui era andato perduto persino il nome dal 1500 in poi, dopo aver costituito il nucleo tipico della vita spirituale e il metodo che ha originato innumerevoli sermones e commentari biblici.

Ordinario di Teologia spirituale e Spiritualità moderna alla Pontificia Università Gregoriana, il sacerdote carmelitano ha studiato a Roma, in Germania e a Gerusalemme.

Riguardo all’atteggiamento diffidente di alcuni esegeti di fronte al dilagare di esperienze popolari di lectio divina, padre Secondin spiega che “è vero che ci vuole una risonanza vitale, ma è ugualmente vero che non si può lasciare l’emozione a briglia sciolta. Ci vuole anche una base di serietà”.

Nella cornice della Chiesa di Santa Maria in Traspontina, in via della Conciliazione (nei pressi del Vaticano), padre Bruno Secondin guida dal 1996 degli incontri di lectio divina che si tengono due volte al mese (2° e 4° venerdì: ore 18,30-19,45).

Alla lectio divina ha inoltre dedicato già una decina di pubblicazioni fra cui “Ascoltate e voi vivrete”, “Lettura orante della Parola” e “La Parola di Dio non è incatenata” (www.lectiodivina.it).

Il tracciato storico della lectio divina assomiglia a qualcosa come ad un percorso carsico che dalle origini, e dopo aver attraversato molti devozionalismi ed essere stata rimpiazzata in alcuni periodi dalla meditazione o dall’orazione mentale, riemerge con il Concilio Vaticano II, quando venne gettata una fondazione teologica per la centralità della Parola nella vita della Chiesa.

Padre Secondin: Il devozionalismo è qualcosa che viene prima e anzi la Bibbia era ridotta a cava di pietra di fantasie personali anche dal punto di vista della riflessione teologica, perché era andato perduto il senso dominante della Parola di Dio. Se ne faceva soltanto una specie di supporto alla spiegazione filosofica e teorico-cognitiva. La riscoperta della lectio avviene in coda a tutta una serie di movimenti che ne hanno tirato la volata. Sono stati i protestanti a riprendere in mano la Sacra Scrittura e a farne una passione con le Società Bibliche. In seguito, questo tipo di sensibilità ha contagiato anche il mondo cattolico, sia magari per difendersi da alcune ricostruzioni bibliche, sia per esigenza di riprendere seriamente in mano questa fonte d’identità.

Gli inizi del ‘900 conoscono quindi questo incoraggiamento, sostenuto anche da parte dei Papi che spinse a rimettere al centro la Scrittura; ma anche la fatica, la resistenza, la paura di protestantizzare affermazioni che a volte, seppure fondate, erano sconcertanti rispetto a una coscienza collettiva, pacificamente data, secondo cui, per fare un esempio, il libro di Isaia è un’opera unica e non tre. Prima di questo movimento e poi in concomitanza vi è il movimento liturgico che, nel prendere coscienza delle banalizzazioni della Scrittura e dell’uso delle fonti bibliche, ha voluto spingere verso un utilizzo più ricco, più ampio, più significativo, più di valore della Parola di Dio, portando come conseguenza al fatto materiale della presenza di una Scrittura maggiormente filtrata, ma anche all’apporto esperienziale tipico della liturgia.

Nel movimento ecclesiologico e nel recupero della Chiesa come Popolo, come coscienza collettiva che risponde a un rapporto vitale con il Signore e non semplicemente a una struttura organizzativa che controlla i doveri, c’è tutta una teologia che porta avanti i concetti di “communio”, “fraternitas”, “mysterium”.

C’è poi il movimento cristocentrico che recupera in Cristo una varietà di aspetti, di ricchezze, di ripensamenti, meno tipici della teologica neoscolastica e meno “sbavati” in forme popolari, per dare allora attraverso la ricerca storica su Gesù una collocazione testuale più autentica.

Il movimento patristico, imperniato sul recupero della sapienza dei Padri, ha portato anche al recupero della metodologia, della struttura del ragionamento teologico, che era il commento biblico, in fondo anche una lectio sapientiae. Tutto questo ha fatto da humus molto ricco per tutta la Chiesa da cui il Concilio ha tratto delle grandi direttrici. E la lectio ne è emersa come una grande tradizione antica poi andata perduta oppure è stata trasformata in una lectio spiritualis, che voleva dire: letture bibliche di sentimenti, pie elucubrazioni, introspezione psicologica e meno l’esposizione alla verità della Parola, che è fatta dalla presenza di Dio, che parla ed elabora con te una vita e non si limita a proporti delle storielle.

La lectio emerge da questo contesto, dopo che si era perduta e aveva cominciato a diventare un fiume carsico nel 1200, nel suo punto più glorioso. Cioè quando il certosino Guigo II (+1188) ha composto quel gioiello che è la lettera all’amico monaco Gervasio, dal titolo Scala claustralium, che rappresenta un po’ la “Magna Charta”, perché i quattro gradi o tappe di questa esperienza (lectio, meditatio, oratio, contemplatio) in essa illustrati continuano ad essere ben accolti ancora oggi. Tuttavia, già allora la lectio divina aveva cominciato a cedere il posto alla lectio spiritualis, cioè a qualsiasi cosa buona.

Perciò la vita dei santi, privilegiando l’individualismo e l’approccio meditativo, di conseguenza dava un forte apporto; importante per la formazione individualistica della pietà dava un impulso ancora maggiore a tutta quella filosofia aristotelica che ha scalzato i ragionamenti dei monaci, dei Padri, in favore dei principi logico-cognitivi.

Quindi ha inferto un colpo mortale ed ha spinto il povero popolo a nutrirsi come poteva tanto che la stessa liturgia si è trasformata in grandi funzioni, in grandi fenomeni celebrativi oppure in spazi usufruiti dal popolo semplicemente per categorie emotive, per salvarsi l’anima o per precetti.

Quella che si fa avanti è la spiritualità individualistica delle devozioni, delle emozioni, in cui la Parola anche è continuata ad esserci, in cui di tanto in tanto emergono degli autori che attestano l’importanza del riflettere, del meditare la Parola. Ma dietro tutto questo c’è la meditatio psicologica.

Invece, la ripresa si è avuta soltanto attorno al 1950. Prima c’è stato qualche pioniere come San Girolamo o Benedetto ma anche dei Papi. Infatti, nel centenario di San Girolamo Papa Pio XI ha ricordato la lectio e l’importanza di dedicarsi ad essa, ma poi anche Pio XII nella Divinu afflante Spiritu (1943) ha invitato ugualmente a riprendere questa ricchezza sapienzale. Non c’è stato però un colpo di fiamma che ha incendiato tutto.

Certamente il recupero dei Padri e la teologia monastica hanno scoperchiato una ricchezza sepolta. Successivamente, la Bibbia è divenuta familiare a tutti e ad un certo punto il Concilio Vaticano II si è trovato a confermare il grande bisogno di nutrirsi della Parola, come afferma il cap. VI della Dei Verbum, dove al numero 25 chiede a tutti i credenti, specie ai preti e ai catechisti, la “pia lectio”, la “assidua sacra lectio”, accompagnandola con la “oratio” e la”praedicatio”. Dopo il Concilio comincia a comparire frequentemente grazie ad alcuni pionieri come monsignor Andrea M. Magrassi, Vescovo di Bari, ed Enzo Bianchi, Priore della Comunità di Bose, e poi ad alcuni maestri come monsignor Carlo M. Martini, ancora prima di diventare Cardina
le. In pratica è negli anni ’80 che la Parola si impone a livello democratico, a livello pandemico.

Gli ordini religiosi e le congregazioni alla fine del Concilio avevano già cominciato a introdurre queste parole quasi in sostituzione della meditazione mentale, per amore della Scrittura ma non con la coscienza che abbiamo noi oggi. Mancava il principio teologico della lectio divina che è una pratica in cui tu non metti del tuo ma è Dio che ti offre la possibilità di ricevere la luce, di farti trasformare. L’attore principale non sei tu come nella meditatio e nell’orazione mentale, dove metti la testa, il cuore, la volontà, i propositi.

[Giovedì, la seconda parte dell’intervista]

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ZENIT Staff

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