La fuga delle quarantenni. Il difficile rapporto delle donne con la Chiesa

Dall’autore di «La prima generazione incredula»

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di Francesco Cosentino</em>

ROMA, martedì, 9 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Ha già esplorato con puntualità e precisione la crisi della fede cristiana nel mondo giovanile lanciando l’allarme di una “prima generazione incredula” dinanzi a cui fermarsi e riflettere. Ora, Armando Matteo, teologo e docente presso la Pontificia Università Urbaniana e già Assistente Nazionale della Fuci, si concentra su una variante di questa crisi: il mondo giovanile femminile. Precisamente, a partire dall’esperienza personale corredata di precisi dati statistici, la sua preoccupazione riguarda l’assenza delle donne quarantenni: Dove sono andate a finire?

Da questo interrogativo prende il via il volume “La fuga delle quarantenni. Il difficile rapporto delle donne con la Chiesa”, edito da Rubbettino e già in libreria da qualche mese. La denuncia è chiara ed è di quelle che non possono lasciarci indifferenti: le donne nate dopo il 1970, secondo molti dati, sono da annoverare sembra che abbiano smarrito un fecondo e regolare rapporto con la fede e, soprattutto, con la pratica ecclesiale. Da questa data in poi, la crisi della frequenza ecclesiale e in generale del rapporto con la Chiesa, infatti, non conosce più “differenze di genere”: si dileguano tanto i maschi quanto le donne. Le nate in questione sono le figlie di un mutamento sociale e culturale sgorgato dal fenomeno Sessantotto che gli uomini di Chiesa fanno fatica ad assimilare e decifrare. Rispetto alle loro madri, queste giovani donne “vanno di meno in Chiesa, credono meno, hanno meno fiducia della Chiesa, si definiscono meno come cattoliche” (p. 19) ma, soprattutto, si autoconcepiscono come soggetti adulti, indipendenti, affrancate da un cliché sociale e culturale che le ha spesso relegate a ruoli di passività e docilità. Dunque, svincolate da legami col passato e con un certo diffuso immaginario sull’idea di donna, esse fanno fatica a trovare nella Chiesa cattolica un serio alleato per la loro emancipazione esistenziale, rompendo cosi un’alleanza durata secoli. La prima conseguenza negativa riguarda la trasmissione della fede, da sempre dovuta soprattutto all’influenza positiva delle donne anche in ambito familiare, tema peraltro molto caro a Benedetto XVI e di grande rilevanza per la nuova evangelizzazione dell’Occidente.

Culto mariano e potere maschilista

L’autore pone la questione urgente di una “rottura secolare” che avviene per la prima volta tra le donne e la Chiesa. La visione di Matteo non si presta a facili riduzionismi ideologici e, per questo, egli non teme di avanzare una critica sia verso alcuni eccessi del cambiamento culturale sessantottino e sia alla visone e alla prassi ecclesiale che, specie in questi ultimi decenni, appare stanca e su molti fronti immobile. Servendosi delle severe analisi della scrittrice sarda Michela Murgia, infatti, Matteo mette a nudo un certo travisamento del culto mariano che avrebbe provocato la nascita di un’immagine di donna addomesticata, obbediente, docile, dedita sempre e solo al servizio dell’altro, disposta al sacrificio e perfino sottomessa. Immagine che, l’emancipata donna degli anni ’70 non può più accettare e in cui fa fatica a ritrovarsi. A ciò, si aggiunga un secondo punto nevralgico della crisi di questa relazione donna-Chiesa: la logica tutta maschilista di spartizione del potere ecclesiale che avrebbe avallato l’idea secondo cui all’uomo spetta l’amministrazione delle cose e alla donna il semplice servizio di cura delle cose intime. Chiosa cosi Armando Matteo: “Stando così le cose, non è difficile comprendere le ragioni della fuga delle quarantenni dalle nostre Chiese: è una protesta silenziosa al silenzio cui le vorrebbe costrette, per natura, la Chiesa stessa. La Chiesa dei maschi, si intende” (p. 36).

“I conti non tornano”. La rottura di un’antica alleanza

Il viaggio continua attraverso una suggestiva lettura di ciò che succede a partire da Gesù: se il Messia di Nazareth ha inaugurato una visione liberante e promovente nel suo rapporto con le donne, le cose hanno subito una certa alterazione già dai primissimi secoli: dall’interpretazione misogina di alcuni passi biblici alla crescita della cultura maschilista, dalla svalutazione della sessualità e del corpo che toccherà soprattutto l’universo femminile fino ad alcune visioni medievali che sottolineano una certa imperfezione della donna. Tuttavia, l’autore mostra che la storia è molto più varia e, in realtà, la Chiesa ha nel tempo valorizzato molte donne e molti loro carismi (un esempio sono le grandi donne sante). Perfino nei mutamenti dell’era moderna, ancora troppo marcatamente maschilista, la donna si sente difesa dalla Chiesa e stringe con essa un’alleanza. Che cosa si è rotto dunque? E perché? Proprio negli anni ’70, le donne vivono le loro battaglie di emancipazione con più determinazione, spesso incanalandole nei movimenti femministi e rivoluzionari. Esse si liberano della subordinazione maschile, si scoprono consapevoli del diritto di poter scegliere e decidere, entrano in ogni ambito della vita culturale e sociale con la loro voce. In questo stesso momento, il magistero e la prassi della Chiesa scavano inevitabilmente un solco con l’universo femminile soprattutto attraverso le direttive in ambito sessuale, provocando la reazione della donna che si sente poco compresa, interpretata in modo riduttivo, strumentalmente legata alla sola funzione biologica e riproduttiva. Se a questo si aggiunge un certo consolidamento del potere ecclesiale nelle mani dei maschi e la definitiva chiusura circa l’ordinazione presbiterale delle donne, si comprende bene perché tra le donne e la Chiesa “i conti non tornano”.

Uno spazio per la “fatica” delle quarantenni

Come si può ricreare uno spazio per la fatica delle quarantenni? Analizzando l’incrinatura del rapporto tra le donne e la Chiesa e focalizzandosi su alcuni motivi principali, la tentazione ideologica sarebbe alle porte; si potrebbe pensare, infatti, che basterebbe solo rovesciare le parti e “dare più potere alle donne”. In realtà, troviamo qui il punto più originale e de-stabilizzante dell’analisi di Matteo: non si tratta semplicemente di rovesciare le parti restando cosi in una logica di potere e competizione al contrario; l’emancipazione femminile è stata una lotta contro il potere maschilista in nome della libertà e dell’uguaglianza e sarebbe davvero una lotta perdente se conducesse a sposare la stessa logica di potere al contrario. Bisogna leggere questa storia, invece, come la fatica delle donne per conquistare uno spazio di uguaglianza e di libertà e, in tal senso, esse possono aiutare una rinascita di tutte le relazioni intra-ecclesiali: favorire che nella comunità, le visioni, i servizi e le relazioni, siano finalmente liberi dalle logiche del potere e imparino uguaglianza e libertà. Ovviamente, questo passa anche attraverso una maggiore responsabilità decisionale delle donne se è vero che “nella Chiesa sono responsabili di tutto ma non decidono praticamente di niente” (p. 72); ma una simile svolta, invece che essere condotta con spirito di competizione femminista, dovrebbe serenamente incoraggiare un coinvolgimento più diretto e più incisivo delle donne e, magari, rompere il nesso tra potere, maschilismo e clericalismo.

Cinque proposte

Su questa strada, l’autore conclude con “cinque modeste proposte” che meriterebbero certamente spazi di riflessione più ampi: “Riequilibrare l’immagine pubblica della Chiesa italiana. La quale appare oggi troppo in mano ai maschi…Per questo appare urgente creare spazi per le donne nei livelli più alti dell’amministrazione del governo della Chiesa, in particolare in tutti quegli uffici non legati al ministero sacerdotale” (p. 83). Qui, l’autore non risparmia critiche a quell’impianto clericale che relega a settori di secondo ord
ine anche lo stesso ministero delle suore. Di seguito: correre il rischio di dare voce ai laici e quindi soprattutto alle donne; organizzare orari e modelli della pastorale tenendo conto dei ritmi e dei modelli di vita attuali delle donne quarantenni e, inoltre, organizzare una pastorale in cui possa essere offerto loro un solido nutrimento culturale che si intoni con il loro sviluppo degli ultimi decenni; favorire una nuova cultura dell’identità dell’essere uomo e donna a partire dalla rivelazione d’amore di Dio e stanando, cosi, sia l’eventuale femminismo improntato anch’esso sulla logica del dominio e sia il narcisismo ferito dei maschi e le loro subdole vendette nei confronti delle donne. Infine, l’autore afferma che “è tempo di uscire dai discorsi autoreferenziali che caratterizzano asfitticamente il mondo clerico-ecclesiale” (p. 85), per entrare nel terreno di quelle sfide che oggi pesano negativamente soprattutto sulle donne quarantenni e, soprattutto, la “dittatura della giovinezza” e il “terrorismo della bellezza”. Si tratterebbe di offrire un diverso profilo dell’essere adulto.

Non c’è dubbio. Il testo di Armando Matteo è, come d’altronde i suoi libri precedenti, provocatore senza mai essere troppo spigoloso. Pone l’accento su una ferita aperta che sembra essere fin troppo tacitata non solo nelle sacrestie ma anche nella riflessione spirituale e teologica e lo fa con una certa chiarezza di stile, con ironia e arguzia, attraverso l’apertura di finestre che invitano a guardare lontano. Certo, il tema ha una sua ampiezza e complessità che meriterebbe di essere approfondita e che, probabilmente, non può essere racchiusa nella forma snella di questo libretto. Tuttavia, lo scritto suona per tutta la Chiesa una sveglia importante: sul terreno della crisi tra Chiesa e donna non si debba perdere un attimo in più. Ne va del futuro della Chiesa. Un futuro che, grazie alla passione e all’arguzia del quarantenne teologo, siamo tutti noi invitati a pensare e sognare. 

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ZENIT Staff

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