La fuga dei Caldei da una grande culla di cristianesimo

Editoriale di mons. Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, pubblicato su “Il Sole 24 Ore” di domenica 15 agosto

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Era il 24 gennaio del 2009. Ricevendo i Vescovi della Chiesa caldea – maggioritaria fra le comunità cristiane in Iraq – venuti a Roma in visita “ad limina Apostolorum”, Benedetto XVI si rivolgeva loro con parole accorate, ricordando le vittime della violenza in quel Paese, che aveva colpito a morte tra gli altri l’Arcivescovo di Mossul, Monsignor Paul Faraj Rahho, e tanti sacerdoti e fedeli di quella antichissima comunità patriarcale.

Il Papa aggiungeva: “La Chiesa caldea, le cui origini risalgono ai primi secoli dell’era cristiana, ha una lunga e venerabile tradizione che esprime il suo radicamento nelle regioni d’Oriente, in cui è presente fin dalle sue origini, e anche il suo insostituibile contributo alla Chiesa universale, in particolare con i suoi teologi e i suoi maestri spirituali. La sua storia mostra anche quanto ha sempre partecipato in modo attivo e fecondo alla vita delle vostre nazioni”.

In questo contesto, lo stesso Pontefice volle che si tenesse un “Sinodo spirituale”, con lo scopo di sostenere e incoraggiare quei Presuli tanto provati. Fu così che venni incaricato di tenere loro alcune meditazioni, in un breve tempo di profonda comunione spirituale. Come sempre avviene in questi casi, ben al di là di ciò che potei offrire, fui io a ricevere una straordinaria testimonianza di fede e di fedeltà da questi uomini di Dio. Fra loro, oltre il Patriarca Emmanuel III Delly, morto negli Stati Uniti nell’aprile di quest’anno, c’era quello che sarebbe stato il suo successore, l’attuale Patriarca Louis Raphaël I Sako, col quale nacque un rapporto di fraterna amicizia, nel cui contesto egli promosse la pubblicazione in arabo del libro degli esercizi spirituali da me tenuti a Giovanni Paolo II nel 2004.

Questa premessa spiega con quale intensa partecipazione io stia seguendo le notizie che arrivano dal martoriato Iraq, ed in particolare quelle degli ultimi giorni, segnate dalla tragedia dei massacri di cristiani e musulmani innocenti da parte delle milizie fondamentaliste dello Stato Islamico (Isis) e dall’esodo di decine di migliaia di persone da quelle terre, in cui da secoli la convivenza fra fedi diverse, pur non facile, era tuttavia una realtà di fatto. Risuonano perciò oggi ancor più attuali le parole pronunciate da Papa Francesco all’Angelus dello scorso 20 luglio: “I nostri fratelli sono perseguitati, sono cacciati via, devono lasciare le loro case senza avere la possibilità di portare niente con loro. A queste famiglie e a queste persone voglio esprimere la mia vicinanza e la mia costante preghiera. Carissimi fratelli e sorelle tanto perseguitati, io so quanto soffrite, io so che siete spogliati di tutto. Sono con voi nella fede in Colui che ha vinto il male!”.

Mons. Sako, uomo di grande moderazione, non ha esitato a parlare di un vero e proprio “disastro umanitario”: in particolare, ha affermato, dopo che i Jihadisti hanno preso il controllo di Qaraqosh e di altre località vicine, dove vivono gran parte dei cristiani del Paese, questi sono stati costretti a fuggire “con nient’altro che i loro vestiti addosso, alcuni a piedi, per raggiungere la regione del Kurdistan”. I fondamentalisti dello Stato Islamico hanno avviato l’attacco dopo il ritiro dei Peshmerga curdi, venutisi a trovare sotto pressione su diversi fronti iracheni. “Apprendo ora che le città di Qaraqosh, Tal Kayf, Bartella e Karamlesh, si sono svuotate della popolazione e ora sono sotto il controllo dei miliziani”, ha riferito Joseph Thomas, arcivescovo caldeo di Kirkuk e Sulaimaniyah. È in questo contesto, allargato alle altre situazioni in cui i cristiani sono attualmente perseguitati, che la Conferenza episcopale italiana ha indetto una Giornata di preghiera per il 15 agosto, solennità dell’Assunzione di Maria.

Nella nota, diffusa dalla Presidenza CEI, tutte le comunità ecclesiali sono invitate “ad unirsi in preghiera quale segno concreto di partecipazione con quanti sono provati dalla dura repressione”. Il comunicato – dal titolo significativo “Noi non possiamo tacere” – afferma: “A fronte di un simile attacco alle fondamenta della civiltà, della dignità umana e dei suoi diritti, noi non possiamo tacere”. E aggiunge poi: “L’Occidente non può continuare a volgere lo sguardo altrove, illudendosi di poter ignorare una tragedia umanitaria che distrugge i valori che l’hanno forgiato, e nella quale i cristiani pagano il pregiudizio che li confonde in modo indiscriminato con un preciso modello di sviluppo”. Segue l’invito a che “la preoccupazione per il futuro di tanti fratelli e sorelle si traduca in impegno a informarci sul dramma che stanno vivendo, puntualmente denunciato dal Papa: ‘Ci sono più cristiani perseguitati oggi che nei primi secoli’”.

Due riflessioni mi sembra si impongano a partire da questi dati: la prima riguarda il rischio di violenza che ogni fondamentalismo porta con sé. La Chiesa – in particolare in occasione del grande Giubileo del 2000 col documento “Memoria e riconciliazione” – ha chiesto perdono di tutte le volte in cui in nome di Dio i cristiani hanno fatto scelte di guerra e di odio e ha decisamente condannato ogni forma di violenza.

Papa Francesco non ha esitato a ribadirlo in un twitter: “La violenza non si sconfigge con altra violenza!”, affermando poi all’Angelus di domenica 9 agosto: “Ci lasciano increduli e sgomenti le notizie giunte dall’Iraq: migliaia di persone, tra cui tanti cristiani, cacciati dalle loro case in maniera brutale; bambini morti di sete e di fame durante la fuga; donne sequestrate; persone massacrate; violenze di ogni tipo; distruzione dappertutto; distruzione di case, di patrimoni religiosi, storici e culturali. Tutto questo offende gravemente Dio e offende gravemente l’umanità. Non si porta l’odio in nome di Dio! Non si fa la guerra in nome di Dio!”.  

Non poche voci si sono levate dal mondo dell’Islam per un’analoga condanna della violenza falsamente ispirata alla religione ed è auspicabile che altre se ne aggiungano in Occidente come in Oriente. È più che mai l’ora di far fronte comune da parte di tutti i credenti, quale che sia la loro appartenenza, per rifiutare ogni integralismo e fanatismo, e promuovere in tutti i contesti possibili vie di dialogo e di comune servizio alla giustizia e alla pace.

L’altra riflessione riguarda il dovere di solidarietà e di accoglienza verso coloro che fuggono dalle atrocità del fondamentalismo: a tutti i livelli, le porte delle nazioni, delle famiglie e dei cuori non possono restare chiuse a chi chiede sostegno, rifugio, rispetto della propria vita, della propria fede e della propria dignità. Anche l’Italia deve fare la sua parte, come la sta facendo a tanti livelli l’azione della Chiesa attraverso le Caritas di molti Paesi. È l’ora in cui la fraternità umana va affermata più che mai per debellare con l’eloquenza dei gesti la follia omicida dei nuovi barbari, che bestemmiano il nome di Dio pretendendo di onorarlo con la loro violenza.

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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