La figura del prete nell'"epoca delle passioni tristi"

Intervento della sociologa Chiara Giaccardi, dell’Università Cattolica Milano, al Convegno Nazionale assistenti di Azione Cattolica

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La riflessione si sviluppa in tre momenti.

– Il primo riguarda la figura del prete, che anche etimologicamente (presbitero=il più adulto) rimanda all’idea di maturità, autorevolezza, saggezza.

Da un lato questo ruolo sembra in crisi in un contesto in cui l’adultità non è più un valore. Dall’altro è proprio di questo ruolo lo sforzo continuo di ascoltare il proprio tempo per poter pronunciare quindi una parola appropriata. Il prete è infatti uomo di chiesa, e chiesa viene da ek-kalèo, che significa invitare, chiamare. È nella chiesa dunque una natura intrinsecamente relazionale, e un invitare che fa appello alla libertà. Dunque il prete è uomo di dialogo, di relazione, di invito. Come scriveva Paolo VI nella Ecclesiam suam,

“Noi daremo a questo impulso interiore di carità, che diventa dono di carità, il nome del dialogo. La Chiesa deve diventare dialogo, dialogo col mondo in cui si trova a vivere. Per questo la Chiesa di fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa colloquio, la Chiesa si fa dialogo. Ancor prima di convertire il mondo bisogna ascoltare il mondo, parlare al mondo. L’origine del dialogo si trova nell’intenzione stessa di Dio, che è venuto tra di noi in Gesù Cristo. Il dialogo deve ricominciare ogni giorno e da noi, prima che da quelli a cui rivolgiamo il dialogo… “

Ascolto, discernimento e profezia, testimonianza sono le forme di questo dialogo. Ma ascoltare quale mondo?

– Il secondo punto riguarda appunto il contesto in cui il prete oggi si trova a svolgere la sua missione. Un mondo secolarizzato, dove la religione ha perso la sua evidenza sociale, e profondamente individualista, come le analisi di molti acuti pensatori contemporanei hanno messo in evidenza.

Un mondo dove l’atteggiamento religioso e il bisogno di trascendenza sono stati trasferiti sul piano dell’orizzontalità e dell’immanenza: così l’infinitazione (la moltiplicazione, l’accumulo, la ricarica ossessiva del nuovo) diventa surrogato dell’infinito e l’innumerevole (l’espansione illimitata) dell’innumerabile (ciò che non può essere contato né posseduto).

L’individualismo non accetta vicoli né limiti, entrambi visti come preclusione di possibilità e quindi ostacolò alla libertà. Le persone però non sembrano vivere bene questa condizione: da una parte schiacciate dalla fretta e dall’incalzare delle urgenze, senza interrogarsi sul senso, dall’altra angosciate dall’idea di non saper sfruttare tutte le possibilità.

La rivendicazione dei diritti (sempre declinati sul piano individuale) non si combina mai con la disponibilità ad assumerai doveri. La società appare sovraeccitata e sempre più inclina alle diverse dipendenze da cui che le consente di mantenere una euforia artificiale, funzionale al mercato più che alla promozione umana.

Gli adulti oggi sembrano fragili e le vulnerabilità sono evidenti: chi rifiuta di riconoscere il passaggio degli anni e cerca di bloccare il tempo in un’eterna adolescenza che diventa sterile e grottesca, chi sviluppa forme di dipendenza, stordimento, evasione grazie ai media vecchi e nuovi, chi sfugge alle proprie responsabilità di genitore non salendo come porsi e non trovando nel contesto modelli e sostegno.

In generale, come ha scritto lo psicanalista Luigi Zoja, gli adulti sono come ‘lattanti psichici’, che hanno interrotto il circolo virtuoso tra ricevere e donare, prendere e lasciar andare. Non a caso la nostra è stata definita un'”epoca dalle passioni tristi”.

Uno degli aspetti più tristi è la riduzione di ogni cosa a opzione equivalente alle altre e disponibile per scelte basate esclusivamente sulla soggettività. Apparentemente liberante, il ‘tritacarne delle equivalenze’ finisce per rendere tutto insipido e incolore. Per ritrovare un po’ di sapore, allora, proliferano il gusto dell’estremo e la perversione distruttiva.   

Ci sono ragioni profonde di questo stato di cose: una malintesa nozione di individuo; una pretesa del soggetto di essere autosufficiente, dunque all’origine di se stesso. L’altro diventa così un limite, un ostacolo, uno scacco alla possibilità di essere ‘tutto’. Non è un caso che l’epoca dell’individualismo sia anche l’epoca della crisi dell’alterità, a dispetto di tutte le retoriche della differenza.

Per voler essere assolutamente libero il soggetto si trova in realtà intrappolato: prigioniero dello ‘splendore degli inizi’, che sono un tentativo di sentirsi all’origine di qualcosa (ma inizio e origine non sono sinonimi) e incapace di far durare ciò a cui ha dato inizio (dare inizio e far durare sono i due caratteri dell’azione adulta, secondo H. Arendt).

Volerai porre come origine nega il ‘debito simbolico’ che ci lega agli altri, e produce le tante forme di narcisismo patologico che incontriamo quotidianamente e alle quali tutti siamo esposti. La ‘tentazione del tutto’ è la tentazione per eccellenza, è il peccato originale. Il serpente astuto ci pone davanti una falsa alternativa, che separa (dià-ballo, da cui diavolo) ciò che in principio era unito: ‘o sei tutto, o non sei niente’.

La via è invece quella del simbolo: non siamo tutto ma 1) siamo un tutto, un intero e 2) siamo in relazione col tutto. Possiamo essere abitati dal tutto, se riconosciamo che c’è Altro da noi.

Una vita ‘nel simbolo’ è una vita nel ‘coltivare’ (dare inizio, far essere) e insieme ‘custodire’ (ciò di cui non siamo origine). È una vita ‘poetica’ (anche la tecnica, in questa prospettiva, può esserlo).

– in questo contesto, e secondo un atteggiamento di ascolto e dialogo, come si pone il prete? Quali le sfide da raccogliere?

Il rischio è quello di un difetto di riconoscimento bilaterale. Dalla parte dei laici che ritengono il prete lontano, fuori dal mondo, membro di un’istituzione di cui si fatica a capire il senso. Certamente ha perso l’autorità d’ufficio, e l’eventuale autorevolezza deve conquistarsela ‘sul campo’.

Ma anche i preti spesso faticano a riconoscere i laici come interlocutori adulti, come fratelli  e non semplicemente come figli mai cresciuti abbastanza.

Nell’era digitale ‘orizzontale’ questo atteggiamento, già di per sé inadeguato, diventa insostenibile. L’alternativa non è perdere l’autorevolezza cancellando le differenze, ma rafforzare la reciprocità mantenendo le specificità. Una ‘reciprocità asimmetrica’, fatta di vincoli e assunzioni di responsabilità, pur nella non equivalenza dei ruoli e nel dispetto dei diversi ambiti di competenza ed esperienza.

L’era digitale, come dimostrano tanti casi di comunicazione riuscita e come si auspica per altri ancora in stato nascente, sollecita a ripensare l’educazione come coeducazione, a valorizzare la partecipazione, a trovare con creatività nuovi modi si coinvolgimento e annuncio.

Proprio nell’era digitale, il prete può riscoprire la bellezza di un ruolo che parla al proprio tempo con una parola di speranza, riscoprendo e rigenerando una serie di tratti che, radicati nella tradizione, sono preziosi rispetto alle domande, alle fatiche, ai bisogni del presente.

Come Gesù parlava in parabole, occorre trovare delle immagini efficaci, che passino dalla vita e non dai concetti, che parlino alla persona tutta intera e non solo alla mente. Per questo si può parlare del prete come di un ‘ostetrico’ del senso (non lo ‘immette’ negli altri, ma aiuta ciascuno a tirare fuori il senso che è iscritto dentro di sé), o ‘fuochista dell’assoluto’, che aiuta a mantenere accesa la scintilla di  infinito che è in ciascuno, o telaio che con pazienza aiuta a ritessere gli strappi tra le persone…

Molti preti usano la rete con saggezza. È un modo per ridurre le distanze e accompagnare la vita delle persone. Niente sostituisce l’incontro, ma l’ascolto e il dialogo hanno tante vie.

La condivisione che ha a disposizione nuove strade nell’era digitale è uno dei modi per realizzare quella unione nella differenza, quell’unità del molteplice che è la chiesa, cattolica perché appunto ‘relativa all’intero’:
‘tutto l’uomo e tutti gli uomini’ (Caritas in Veritate 55).

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ZENIT Staff

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