La dignità nel vivere e nel morire

La riflessione del Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna

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BOLOGNA, domenica, 23 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica il discorso pronunciato dal Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, nell’intervenire il 15 novembre a Bologna durante il convegno organizzato dall’Associazione Medici Cattolici Italiani.

 

 

* * *

Articolerò la mia riflessione nel modo seguente. Dapprima cercherò di elaborare una rigorizzazione concettuale della categoria di dignità della persona umana: cosa assolutamente necessaria oggi dal momento che questa espressione è divenuta equivoca, veicolando significati contrari. Poi cercherò di dire il contenuto, il significato di vita umana degna: sarà una riflessione, questa, breve. Mi fermerò più a lungo sulla terza parte, la dignità della persona umana nel morire.

1. Dignità della persona umana

Vorrei partire da un fatto che molti di noi compiono ogni mattina: andare all’edicola e comperare il giornale. Se non lo sa già, noi diciamo semplicemente all’edicolante il nome del giornale. Se avuto il giornale in mano dicessimo che vogliamo, per esempio, il Resto del Carlino, ma non precisamente quella copia effettivamente consegnatami, ma un’altra, l’edicolante avrebbe il diritto di pensare che non siamo completamente sani di mente. Ogni copia dello stesso giornale è la copia esatta dello stesso modello; l’una è perfettamente uguale all’altra; c’è solo una differenza numerica, nel senso che ciascuna copia è nella serie dei numeri del Resto di quel giorno.

La condizione di ogni copia del giornale ci aiuta a percepire per contrarium la persona. Questa non è la pura concretizzazione della natura umana indifferente alle sue concretizzazioni. Al riguardo scrive R. Spaemann: “La natura rationalis esiste, in quanto essere se stesso [selfst sein]. Questo però significa che l’individuo che sussiste in tal modo non può essere descritto adeguatamente da nessuna descrizione possibile. Detto in altri termini: la sua denominazione non può essere sostituita da nessuna descrizione” [in Persone. Sulla differenza tra “qualcosa” e “qualcuno”, Laterza, Bari 2005, pag. 31]. Detto in altri termini. Il modo di essere proprio delle persone è singolare; non è seriale; e quindi non può essere denominato come un “essere-così e così”. La denominazione di una persona non può essere sostituita da nessuna descrizione.

Per denominazione intendo “quell’operazione della mente che conosciuta una cosa le dà il nome che serve a farne conoscere la natura o l’uso cui è destinata” [Enciclopedia filosofica, art. Denominazione, 3, Bompiani, Milano 2006].

Resto del parere che la più rigorosa determinazione concettuale di persona sia quella di Tommaso d’Aquino, che ovviamente riprende e ripensa tutta la tradizione del pensiero cristiano al riguardo. Vorrei ora richiamare alcuni elementi di questa riflessione tommasiana, particolarmente illuminanti nella nostra situazione attuale.

Dicendo “persona” non indico un individuo rispetto alla sua natura, così come se dico “cane” indico un essere vivente che posso descrivere attraverso proprietà precise [cane = animale che …]. Dicendo “persona” indico invece il modo di essere degli individui nella natura umana [nomen personae – dice Tommaso – non est impositum ad significandum individuum ex parte naturae, sed ad significandum rem subsistentem in tali natura (1, q.30, a4)].

Questa osservazione ci conduce all’individuazione decisiva del concetto di persona: quale è il modo di essere nella natura umana che è proprio della persona? Possiamo connotarlo come l’essere in se stessi e per se stessi, e quindi di se stessi [sui juris]. La persona esiste in modo tale nella sua natura – diciamo pure: possiede la natura umana – che di essa natura è “padrona”. Non nel senso che le persone non hanno alcuna natura e sono esse stesse che la costituiscono e la determinano. Ma nel senso che le persone sono ontologicamente capaci di decidere il loro modo di essere nella natura: il loro modo di essere conformemente o difformemente da essa. Anche se l’uso di questa capacità è condizionato da vari fattori, quali per esempio l’età, lo sviluppo neuronale o altre condizioni di salute.

La persona designa un essere originariamente proprio, che non troviamo in nessun altro individuo [quodam specialiori et perfectiori modo invenitur particulare et individuum in substantiis rationabilibus – scrive Tommaso – quae habent dominium sui actus, et non solum aguntur, sicut alia, sed per se agunt (1, q.29, a.1)].

Ora possiamo dire che cosa significa dignità della persona. Dignità indica il modo di essere proprio della persona in quanto dotato di una posizione eminente nei gradi dell’essere. Essere – persona è essere più che essere – non persona; essere qualcuno è più che essere qualcosa: questo dico quando dico “dignità della persona. È di questo “più che” parlo quando parlo di “dignità della persona”. Connoto un’eccellenza e superiorità nell’essere.

Ma non solo. Dignità indica anche, e di conseguenza, esigenza di essere riconosciuta nella sua eccellenza e superiorità. L’etica e il diritto sono le scienze di questo riconoscimento: di ciò che esso implica e comporta.

E siamo già entrati nel secondo e terzo punto della riflessione: che cosa significa per la persona vivere secondo la dignità del suo essere persona? Che cosa significa per la persona morire secondo la dignità del suo essere persona?

Prima però di rispondere a queste due grandi domande devo fare ancora due riflessioni che, purtroppo per ragioni di tempo, devo ridurre al massimo.

La prima risponde alla domanda: ogni individuo umano è persona? Già Aristotele disse che viventibus vivere est esse. Nel vivente non si può separare l’essere dal vivere. Là dove vive un uomo, c’è una persona umana. “L’essere della persona è la vita di un uomo” [R. Spaemann, Persone … cit. pag. 241].

Non solo, ma qualsiasi altro criterio per discernere fra gli individui umani chi è persona e chi non che non sia la pura e semplice appartenenza alla specie umana, è inevitabilmente l’attribuzione di un potere di giudizio su altri che non potrebbero mai prendere parte alla discussione sui criteri scriminanti della personalità.

La seconda riflessione è di non minore importanza. Il modo di esser proprio della persona è costitutivamente relazionato alle altre persone: nessuna persona è senza porte e senza finestre. Dire persona irrelata è dire un non-senso. E la relazione si costituisce pienamente nel riconoscimento dell’altro come persona: non fare all’altro ciò che non vorresti fosse fatto a te – ama il prossimo come te stesso. Quando dunque parlo di umanità non denoto come quando parlo di animalità, una specie vivente, ma – come giustamente pensava Kant – denoto e la famiglia umana e ciò che fa di ogni uomo una persona. Umanità denota non un insieme di tanti individui che realizzano la stessa specie, ma una comunità di persone legate dal vincolo del riconoscimento.

Ora possiamo tentare una risposta vera alle due grandi domande: quale vita? quale morte?

2. Quale vita? dignità nel vivere

L’uomo desidera non semplicemente vivere, ma vivere una vita buona, che sia cioè adeguata alla dignità propria della persona: che sia una vita degna della persona.

Donde la domanda fondamentale: in che cosa consiste la dignità della vita di una persona? È a questa domanda che cercherò di rispondere in questa seconda parte della mia riflessione.

Una prima risposta potrebbe essere la seguente. Non esiste un criterio universalmente condivisibile per scriminare una vita degna da una vita indegna, che non sia pu
ramente formale, privo di qualsiasi contenuto. Infatti la dignità/indegnità del proprio vivere dipende esclusivamente dal giudizio di chi vive: ciascuno giudica se la propria vita è degna, se è una buona vita. L’unico criterio è la soggettiva auto-determinazione del singolo.

Questa risposta nasconde un grave errore, ma anche una verità. L’errore consiste nel fatto che nega l’esistenza di forme, di stili di vita che siano obiettivamente indegni di una persona umana, prescindendo dal fatto che in esso la persona si senta o non si senta realizzata. È sempre stato un grave scandalo per la ragione, prima che per la fede in un Dio provvidente, il vedere unite nella stessa persona una condizione di benessere e comportamenti disonesti. La ragione, ancor prima che la fede, intuisce che parlare di vita degna significa affermare l’esistenza di condizioni, forme, stili di vita obiettivamente indegni dell’uomo.

La risposta tuttavia ha una sua verità. La persona umana in forza della sua soggettività spirituale non è solo mossa ad un fine, ma muove se stessa verso un fine. Parlare di “vita degna” … all’insaputa di chi la vive, è un non senso.

Da questa riflessione deriva una conseguenza importante. “Dignità della vita” denota simultaneamente e una condizione di bene-essere – di benessere – condivisibile da ogni soggetto ragionevole è una condizione di bene-essere – di benessere – in cui il singolo possa dire: “come è bello vivere!”. Il punto merita di essere approfondito un poco.

Quando si opera questa sintesi fra una condizione obiettiva di vita degna ed una condizione soggettiva di intima soddisfazione per la qualità della propria esistenza? Quando i nostri bisogni, le nostre esigenze naturali sono ragionevolmente soddisfatte. Faccio un esempio, per spiegarmi meglio.

È un’esigenza naturale di ogni persona vivere in società: una vita asociale è indegna dell’uomo. Tuttavia ci sono modi e modi, forme e forme di vivere associati. Vivere in una società emarginati non è una vita degna dell’uomo. La ragione umana è chiamata quindi a scoprire, interpretando con verità la natura sociale dell’uomo, la forma buona – degna della persona – della vita associata.

Chiamiamo le risposte ragionevoli alle esigenze naturali dell’uomo beni umani operabili [operabili perché devono essere realizzati dall’agire umano secondo la retta ragione], cioè beni morali.

Siamo giunti dunque al seguente risultato colla nostra riflessione: è una vita umana degna quella della persona che viene in possesso dei beni morali, dei beni umani operabili. In due parole: vita umana degna è uguale a vita moralmente buona [nel senso suddetto].

Prima di procedere, vorrei fare due osservazioni su cui non c’è tempo purtroppo di fermarci.

La prima. Esistono beni morali che possono essere realizzati non semplicemente operando, ma solo co-operando. Sono i beni che si compiono mediante la virtù della giustizia.

La seconda. I beni morali operabili non si collocano tutti sullo stesso piano, ma esiste fra essi una gerarchia: il martire rinuncia alla vita, che è un bene, pur di non spezzare la sua alleanza con Cristo, che è il bene più grande.

Entro ora, più brevemente, nel nostro tema. Non c’è dubbio che la salute sia un bene umano, un bene morale. Una vita sana è più degna dell’uomo che una vita ammalata. Da questa basilare intuizione è nata la medicina come scienza ed arte tesa a conservare o restituire alla persona e nella persona il bene della salute. Faccio due riflessioni al riguardo, e concluso questa seconda parte.

La prima. La salute diventa sempre più un bene co-operabile. Cioè: il bene della salute oggi non si opera solo nel rapporto medico-paziente, ma esso è il frutto anche di un’organizzazione pubblica.

Questo fatto, indubbiamente positivo, non deve farci dimenticare una verità assai importante. La salute appartiene a quei beni umani che rispondono a bisogni umani che non sono “solvibili”: che cioè non possono essere trattati solo colla logica del mercato.

La salute è un bene che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità.

La seconda. La salute non è un bene sommo. La riflessione etica cristiana ha da sempre formulato il principio seguente, a voi ben noto: la persona ha il dovere/diritto di fare uso di mezzi terapeutici proporzionati/ ordinari, non sproporzionati/ straordinari.

Alla base di questo principio sta precisamente l’intuizione che la salute non è il bene sommo, e che essa può anche essere sacrificata per i beni ad essa superiori. E con questo siamo già entrati nella terza ed ultima parte della nostra riflessione.

3. Quale morte? dignità del morire

Parlare di una “dignità nel morire” è diventato oggi nella cultura post-moderna un non-senso. Esiste una bellissima poesia di Rilke, che dice: “Dà, o Signore, a ciascuno la sua morte./ La morte che fiorì da quella vita/ in cui ciascuno amò, pensò, sofferse”. Ma oggi nel sentire comune, morire è semplicemente cessare di vivere: è crepare.

Si potrebbero fare molte riflessioni al riguardo, ma il tempo che abbiamo a disposizione è poco.

Si va facendo strada oggi l’idea che l’unica nobilitazione della morte è di attribuirla pienamente all’autodeterminazione del singolo, sia attuale [suicidio puro e semplice] sia anticipata [suicidio assistito].

Questa nobilitazione è oggi inserita nel dibattito assai acceso circa un’eventuale legislazione – che oggi è diventata necessaria – sulla fine della vita. Proverò dunque a fare un poco di chiarezza, se ci riesco.

Il prudente discernimento fra interventi terapeutici che hanno il profilo dell’accanimento terapeutico o di terapie proporzionate, rientra nel diritto di ogni persona di vivere una vita degna, che non esclude anzi comprende l’accettazione della morte.

È necessario poi distinguere nettamente fra terapia e cura della persona [idratazione, alimentazione, pulizia …]. La seconda è sempre dovuta, e la sua omissione avrebbe eticamente il profilo dell’omicidio. La prima invece è dovuta fatte però le necessarie distinzioni.

Fatte queste chiarificazioni, possiamo parlare con verità di dignità nel morire? Quando la morte è degna di una persona umana?

Se guardiamo con sguardo fugace alla tradizione etica del nostro Occidente, constatiamo che indubbiamente il concetto di dignità della morte è presente. Sotto almeno tre figure.

– La figura della nobilitazione del suicidio. La morte del suicida acquista, secondo questa visione, una sua dignità come contestazione di un ordine delle cose umane ritenuto assolutamente assurdo.

– La figura del martire. Già presente nella tradizione giudaica [la grande epopea maccabaica], e non assente del tutto dalla grecità [morte di Socrate!], acquista una dignità incomparabile nel cristianesimo.

– È invece assolutamente originale la concezione cristiana della dignità della morte. La morte di Cristo è stato l’atto supremo del suo amore poiché in essa è avvenuta la totale donazione di Se stesso. La morte come dono di sé è l’originalità del cristiano. E la morte del cristiano è la partecipazione alla morte di Cristo: in questa partecipazione sta la sua eminente dignità.

Lasciando ora la pur fugace visita alla vicenda storica, vorrei finalmente esprimere chiaramente [lo spero] quale sia il contenuto vero dell’espressione “dignità nel morire”.

È una morte degna quella di chi ha assicurata la cura della propria persona e le terapie proporzionate.

È una morte degna quella di chi può godere delle cosiddette “cure palliative”, destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia. Anche mediante il ricorso
a tipi di analgesici e sedativi che hanno collateralmente l’effetto di abbreviare la vita e perdita di coscienza.

È una morte degna quella di chi è accompagnato dall’attenzione amorosa e costante di altre persone.

È una morte degna quella di chi “muore per il Signore”: vive la propria morte come atto di fiducioso abbandono nel Signore.

È una morte indegna quella di chi viene privato delle terapie proporzionate e della cura della sua persona o viene sottoposto ad accanimento terapeutico.

È una morte indegna quella di chi viene privato di cure palliative.

È una morte indegna quella di chi viene abbandonato nella sua solitudine di fronte alla morte.

È una morte indegna quella di chi credente nel Cristo, non unisce le sue sofferenze a quelle di Gesù per la salvezza dell’umanità.

Se, infine, una legislazione civile rinunciasse al principio che la vita umana è un bene che non è a disposizione di nessuno, legittimando il suicidio assistito o l’abbandono terapeutico, toglierebbe uno dei pilastri, anzi la colonna portante di tutto l’edificio spirituale costruito sulla base del riconoscimento della dignità della persona. Sarebbe questione di tempo, ma la rovina sarebbe totale.


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ZENIT Staff

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