La diagnosi prenatale: un business molto sviluppato in Italia

Intervista al professor Alessandro Caruso, ginecologo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

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In occasione del convegno organizzato dall’Università di Tor Vergata, alla vigilia della Giornata della Vita, il professor Alessandro Caruso, ginecologo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha risposto per ZENIT ad alcune domande dopo aver effettuato un intervento su Epidemiologia riproduttiva in Italia e suoi rapporti con lo Stato Sociale.

Per quale motivo in Italia si assiste ad un boom delle diagnostiche prenatali invasive? I dati sono forse indice di una mania di perfezione e di salutismo?

Prof. Caruso: Sono due i fattori che si incrociano: da un lato il fatto che la gente pensa di poter avere il figlio perfetto, e la diagnosi prenatale invasiva certamente fa diagnosi anche di brutte malattie, ma soprattutto la gente si aspetta che questa possa far diagnosi di tutto, quindi vi si rivolge come ad un metodo per avere sicurezza. Dall’altro lato i medici incoraggiano quest’attitudine poiché loro stessi hanno paura che se la gravidanza andrà male possano essere incolpati di qualcosa. Di qui nasce anche il business della diagnosi prenatale invasiva, che in Italia è molto sviluppato.

Moltissime donne si rivolgono al servizio di consulenza del Telefono rosso dell’Università del Sacro Cuore di Roma e l’84% decide poi di proseguire la gravidanza. Questo servizio, insieme a quello dei Centri di ascolto per la Vita, che cosa mette in luce nel tipo di azione svolta?

Prof. Caruso: Basta che i cattolici facciano un’azione impegnata e di grande qualità dal punto di vista professionale per ottenere ottimi risultati in maniera abbastanza semplice.

Si è parlato dell’enorme numero di tagli cesarei inutili: a livello nazionale questa “cultura del taglio cesareo” non lascia pensare a ordini di controllo demografico o comunque di convenienza economica?

Prof. Caruso: La convenienza economica è in questo: un travaglio di parto dura tra le dieci e le quattordici ore, il taglio cesareo si risolve in sessanta-novanta minuti di lavoro. Questa è la reale convenienza economica, cioè minor lavoro per lo stesso apparente risultato. In realtà il grande aumento dei tagli cesarei è a macchia di leopardo su tutto il territorio nazionale ed è legato ad un fenomeno – anche qui antropologico e medico-sanitario – di una falsa sicurezza che sia le pazienti che i medici hanno nel ricorrere a questo parto chirurgico; deriva però anche dal fatto che, sempre più, le sottospecialità ostetrico-ginecologiche, considerate più remunerative sono l’endocrinologia, la sterilità, l’oncologia, la chirurgia endoscopica, mentre la classica ostetricia è vista come una sorella povera all’interno di queste sotto specialità: se un oncologo o un ginecologo o endocrinologo devono assistere ad un parto, ovviamente la strada che essi scelgono è quella del taglio cesareo, che è l’unica che riescono a percorrere con sicurezza. Per contenere questo fenomeno occorre restituire la sala parto ad una classe di specialisti che siano dediti all’assistenza al parto.

Esiste un rapporto tra tutela della vita e aborto?

Prof. Caruso: In realtà se noi andiamo al momento in cui fu concepita la legge sull’aborto, ci trovavamo in un’epoca molto difficile dal punto di vista politico e sociale, in cui veniva posta la grande questione della autodeterminazione della persona: i grandi movimenti radicali dicevano ‘ognuno può fare quello che vuole’; di qui la libertà della donna ha avuto una prevalenza rispetto alla libertà dell’embrione a sopravvivere. Qui la bioetica cattolica è stata incisiva ma forse non sufficientemente forte per impedire quell’atto in quel momento.

A che punto siamo per quanto riguarda l’assistenza alle donne che in stato di malattia fisica si trovano ad affrontare una gravidanza?

Prof. Caruso: Vi è un tema specifico che è la patologia ostetrica e i centri per le gravidanze ad alto rischio. Negli anni ’80 essi erano addirittura oggetto di cura del Ministero della Salute, oggi tutto questo è un po’ dimenticato; allora si spendevano tanti soldi, furono fondati tanti centri per la gravidanza ad alto rischio e tanti ginecologi si dedicavano a questa attività; oggi purtroppo la politica sanitaria e lo Stato Sociale si dedica ad altro, magari alla cura della sterilità incentivando la fecondazione assistita. Si è un po’ appannato l’interesse dello Stato Sociale sulle gravidanze ad alto rischio, però è ancora forte in molti centri questa cultura. Per questo siamo in grado di far portare avanti le gravidanze anche a molte donne malate, senza necessariamente che esse si sacrifichino.

Quali dati esistono riguardo ai nati da fecondazione assistita?

Prof. Caruso: Questo è un nuovo fenomeno antropologico: molti di essi rischiano alcune anomalie, prematurità, eccetera. Però non posso dire che noi non siamo affezionati a questa tecnica solo per l’esito, ma per la scelta che c’è a monte: anche quando si tratta di ‘normali’ gravidanze in realtà è la scelta a monte di cercare il figlio a tutti i costi, anche attraverso la manipolazione dei gameti e dei sistemi riproduttivi, che va al di là dell’etica che noi riconosciamo.

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Maria Gabriella Filippi

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