La cultura dello scarto nasce dalla paura

I “rifiuti umani” sono vittime della “perdita del contatto”

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Il giorno 26 maggio presso l’accademia San Luca a Roma, ha preso il via un ciclo di lezioni dal titolo Arti visive e architettura nella Società del Consumismo, coordinato dal Presidente dell’accademia, il prof. paolo Portoghesi. Riportiamo qui stralci della relazione tenuta dal prof. Carlo Bellieni, in occasione della giornata iniziale, intitolata La cultura dello Scarto.

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A lato dei rifiuti urbani, nasce il concetto di rifiuti umani, che si ritrovano in quelle periferie esistenziali, quelle situazioni, quelle patologie, quelle emarginazioni che non sono previste dalla società, che la società non sa o non può o non vuole integrare. Dalle folle degli immigrati al bambino disabile, dall’embrione “sovrannumerario” al demente. E l’integrazione sembra meno facile di quanto ci si aspettasse forse perché la società postmoderna che non basa più le sue regole su una razionalità modernista, ma sull’estetica postmoderna appunto, sa integrare solo quello che vede utile, in una visione limitante del concetto di utilità che – per forza di cose  le si rivolgerà contro perché chi non sa guardare con la prospettiva secolare il futuro non può azzardarsi a proporre cosa sia bene o male per la società. Tanto che arriva a lasciar che molti filosofi tolgano il titolo di “persona” a chi non sa autodeterminarsi, a chi non ha un livello accettabile (da chi?) di autocoscienza.

Lo scarto nasce dalla paura

La cultura dello scarto nasce dalla paura, da una vaga idea di sé che non sa orientarsi nel tempo e nello spazio e che crea un’arte debole e un pensiero debole. Dovremmo perciò piuttosto chiamarla cultura del rifiuto, perché il rifiuto viene un momento prima dello scarto;  lo scarto agisce dopo l’esperienza, mentre il rifiuto nemmeno accetta l’esperienza, è il simbolo del pregiudizio, della paura. E il pensiero moderno è basato sulla paura. Paura della disabilità, paura cosmica del terrorismo, paura delle catastrofi o catastrofismo, paura dei propri difetti che ci si ingegna in tutti i modi a nascondere, paura di invecchiare e di essere fuori moda.

E si mostra con costruzioni che non hanno futuro, con chiese orrende, con case fatte per contenere e non per far vivere.

Lo scarto nasce dalla perdita di contatto

“Le mie mani cosa sono? La distanza infinita che mi separa dall’altro”, scriveva Sartre. E da allora, dalla nascita di una cultura oculocentrica si è andato perdendo una cultura basata sul contatto. Non si stringono più mani né si danno baci; gli strumenti fatti per avvicinare (telefono, cellulari, automobili…) in realtà allontanano. La vita è sempre più solitaria, e si crea su misura un mondo virtuale da godere in solitudine. Perché la realtà non interessa, o perché fa paura. E il contatto scompare dalla vita, l’arte diventa soggettivismo, difficile da compartire con chi si sta vicino perché si pensa che la mia e la tua libertà non possano mai coincidere (“La libertà è quella che finisce dove inizia la libertà altrui”). Perché l’altro, dopo decenni di critica consumistica e di consumismo artistico è diventato un distante inarrivabile. Il medico diventa il fornitore di un servizio; così come l’artista; e il paziente o la persona diventano “utenza” dell’arte. Perché l’altro è un distante inarrivabile e incomunicabile. Uno scarto.

Alla cultura del rifiuto si oppone una cultura del costruire

Costruire è la massima opera di fiducia nel mondo e nella vita, è la risposta più forte alla paura, alla paura del mare che corrode con la salsedine, del vento, del terremoto. E costruire non scarta, non rifiuta. Accetta il territorio, accetta la terra, accetta la povertà. E con territorio, terra e povertà o ricchezza mette strato dopo strato, costruisce.

Perché costruire, di derivazione dal latino STRUO, è l’opera di mettere per strati in atto un opera, e per farlo usa lo strumento – sempre di derivazione dalla stessa parola STRUO – cioè, a differenza degli animali, usa l’intelligenza.

Ma per costruire bisogna prima abitare. Sembrerebbe il contrario, cioè che si costruisca per poi abitare, e questo in un certo senso è vero ma non si costruisce se prima non si possiede il luogo e l’ambiente, cioè se non lo si guarda con uno sguardo che lo sorvoli come l’aquila dal cielo che vede non il particolare a due centimetri ma tutto l’insieme del territorio, e se non si guarda con uno sguardo che trapassi il tempo futuro e colga il tempo passato in quel luogo. Abitare significa AVERE, anzi è avere all’ennesima potenza, perché habito è il modo iterativo del verbo habeo. Per abitare bisogna possedere col cure, e con lo sguardo dell’aquila. Per poi costruire.

La cultura dello scarto trova qui la sua morte. Nella costruzione che non teme la ruota del tempo.

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Carlo Bellieni

Carlo Bellieni è neonatologo, dirigente medico presso l'Unità Operativa di Terapia Intensiva Neonatale Policlinico Universitario di Siena e consigliere nazionale Associazione Scienza & Vita

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