La crisi di una visione cristiana della famiglia

Riflessioni in margine al recente intervento dell’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller

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È noto che la stragrande maggioranza delle recenti pubblicazioni sul sacramento del matrimonio e sulla famiglia è stato sollecitato dall’emergenza pastorale la quale, ormai da diversi decenni, constata una profonda crisi di questo sacramento. Affermare, di conseguenza, che la visione cristiana dell’amore e della famiglia al giorno d’oggi sia in difficoltà è talmente solare che non c’è bisogno di rimarcarlo ulteriormente, e altrettanto evidente è il fatto che la famiglia cristiana mostri tutta la sua fragilità specialmente quando in gioco c’è il tema della fedeltà dell’amore coniugale e, conseguentemente, quello dell’indissolubilità del sacramento del matrimonio: il numero delle separazioni e dei divorzi sta talmente aumentando che non ci sarebbe da meravigliarsi se nel giro di pochi decenni molte comunità dovessero constatare che i battezzati divorziati ormai sono diventati la maggioranza dei fedeli [1].

In reazione a questo dato di fatto, si è assistito e si assiste ad un impegno della comunità cristiana in favore dell’amore e della famiglia che ha puntato in modo particolare sulla necessità di un’adeguata preparazione quale soluzione pastorale idonea a fronteggiare lo squilibrio traumatico tra i valori cristiani e gli stili di vita contemporanei. Se, da una parte, questo sforzo ormai pluridecennale è riuscito in modo brillante a mettere in evidenza le ragioni socio-culturali della crisi, dall’altra, occorre riconoscere che non è riuscito né ad invertire né a rallentare la tendenza.

La ragione (forse) è semplice: deprecare l’imporsi sempre crescente di un modello culturale che nega all’essere umano la capacità di legarsi in una relazione che dura tutta la vita, seppur sia una sacrosanta verità, non è sufficiente a contrastare il fenomeno in questione, dal momento che, più o meno esplicitamente, sospende la soluzione del problema al momento in cui i modelli culturali cambieranno nel senso auspicato dalla Chiesa.

La modalità di uscita da questa impasse, tuttavia, non è quella di sbarazzarsi semplicisticamente del doveroso confronto culturale col mondo odierno, tanto meno quella di pensare di aggiustare la verità di Cristo sull’amore coniugale all’epoca attuale. Semmai la risorsa su cui puntare è quella di partire dal fatto che oggi la Chiesa vive questa emergenza pastorale e di conseguenza riconoscere la priorità pastorale della sua azione. In altri termini, probabilmente è venuto il momento in cui i problemi della pastorale non appaiano più solo come “problemi pastorali” e, dunque, è venuto alla luce quanto di fronte alla crisi in atto sia impossibile pensare che ci possa essere solamente una risposta pastorale, vale a dire una riposta che si limiti a pensare ed immaginare possibili vie di uscita che non interpellino direttamente anche chi nella Chiesa non è impegnato in prima persona nella pastorale.

Pertanto, il venir meno del valore della fedeltà coniugale non è un problema solamente dei pastori d’anime che a vario titolo si confrontano quotidianamente con esso, semmai è da riconoscere come un interrogativo che coinvolge l’intera compagine ecclesiale, la quale, confrontandosi con essa, è chiamata ad interrogarsi e a ricercare nel tesoro della sua tradizione quanto può risultare utile a fronteggiare pastoralmente l’evenienza in atto.

Da questo punto di vista, uno stimolo decisivo in questa direzione – a parere dello scrivente – è venuto dal recente contributo “La forza della grazia” del Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’Arcivescovo Gerhard Ludwig Müller (pubblicato su L’Osservatore Romano il 23 ottobre u.s.), il quale ha posto con decisione – coerentemente con la scelta pastorale del Concilio Vaticano II – la questione di quanto l’incalzante flessione della visione cristiana del matrimonio solleciti interrogativi pastorali che vale la pena prendere di petto e affrontare, estendendone la problematica anche all’ambito teologico e, in parte, canonico. Mi riferisco in particolare alla modalità con la quale il Prefetto da una parte ha ripreso la problematica teologica che sta alla base dell’attuale prassi ecclesiastica sul problema dei divorziati risposati, dall’altra ha suggerito nuovi possibili sviluppi.

Più precisamente colpisce (e rinfranca) come l’Arcivescovo, nel ripercorrere la testimonianza della Scrittura, della Tradizione della Chiesa e del Magistero, metta bene in evidenza il fondamento cristologico del sacramento del matrimonio e, pertanto, configuri l’indissolubilità dello stesso nel riferimento esplicito alla Rivelazione di Dio attuata in Cristo. Detto diversamente, fa estremamente piacere leggere – a conclusione di questa sezione – che «È possibile comprendere e vivere il matrimonio come sacramento solo nell’ambito del mistero di Cristo. Se si secolarizza il matrimonio o se lo si considera come realtà puramente naturale rimane come impedito l’accesso alla sua sacramentalità», dal momento che simile affermazione impedisce di pensare che l’identità del sacramento possa essere totalmente ed esclusivamente descritta dalla realtà naturale della coniugalità. Di conseguenza, nelle parole dell’Arcivescovo riecheggia con singolare efficacia la perpetua convinzione della Chiesa, la quale – fedele all’assunto di Tertulliano, secondo cui «cristiani non si nasce, ma si diventa»[2] – ha sempre respinto l’idea di un uomo naturaliter cristiano e, quindi, anche di un matrimonio naturaliter cristiano.

La questione, come si vede è particolarmente importante, considerato che evoca una riprecisazione della relazione antropologia/teologia che è indispensabile al chiarimento dei presupposti teologici dell’identità del matrimonio cristiano. In particolare,  la provocazione derivante dal testo del Prefetto, chiarisce come il matrimonio cristiano sia il “caso serio” dove verificare se si possa dare per scontato che tale relazione sia pensabile sul presupposto di una concezione dell’uomo come “natura”, cioè di un essere la cui definizione può prescindere dal rapporto storico-salvifico con il piano di Dio rivelato in Cristo.

È chiaro che in questo modo «l’originalità della rivelazione cristiana sull’uomo viene privata della sua centralità, cosicché il contenuto dell’evento di Gesù Cristo non è più il punto sorgivo della risposta della teologia cristiana alla domanda sull’uomo ma viene accostato, spesso in modo estrinseco, ad un uomo che attinge ad altro la sua esauriente definizione (natura)» [3]. Le conseguenze sul piano teologico (e, soprattutto, canonico) sono numerose e, in questo contesto, neppure tutte elencabili. Ciò nonostante, vale la pena sottolinearne almeno una che permette di meglio evidenziare la suggestione pastorale proposta dall’Arcivescovo.

Rinvenire nell’identità del sacramento (e non nella realtà naturale della coniugalità) il fondamento dell’indissolubilità del matrimonio cristiano porta inesorabilmente in primo piano il nesso fede/sacramento, dal momento che è immediatamente evidente che in questo modo una fede cristiana in senso proprio (e dunque cristologicamente caratterizzata, non una generica apertura antropologica al divino) si renderebbe necessaria per scegliere di sposarsi (e di vivere) nel Signore: «Laddove si sono smarrite le ragioni fondamentali della fede cristiana, una mera appartenenza convenzionale alla Chiesa non è più in grado di guidare a scelte di vita importanti e di offrire alcun supporto nelle crisi dello stato matrimoniale …».

Per questo, coerentemente alle premesse teologiche, l’Arcivescovo può ulteriormente suggerire un’estensione della verifica di nullità di matrimonio «… i matrimoni sono probabilmente più spesso invalidi ai nostri giorni di quanto non lo fossero in passato, perché è mancante la volontà di sposarsi secondo il senso della dottrina matrimoniale cattolica […] Pertanto, una verifi
ca della validità del matrimonio è importante e può portare a una soluzione dei problemi».

Tutto sta nel capire (e nel decidere) se “il senso della dottrina matrimoniale cattolica” debba includere un riferimento alla fede cristiana: l’anelito pastorale che spinge il Prefetto ha sottolineare l’identità sacramentale (e, dunque, rivelata) del matrimonio cristiano e delle sue caratteristiche indirizza, salvo miglior giudizio, in direzione di un congruo ripensamento del rapporto fede/sacramento del matrimonio, rendendo evidente la necessità di privilegiare il semplice, ma profondo rilievo di Papa Benedetto XVI nella sua ultima Allocuzione alla Rota Romana – «“Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla” (Gv 15,5): così insegnava Gesù ai suoi discepoli, ricordando loro la sostanziale incapacità dell’essere umano di compiere da solo ciò che è necessario al conseguimento del vero bene […] La fede in Dio, sostenuta dalla grazia divina, è dunque un elemento molto importante per vivere la mutua dedizione e la fedeltà coniugale. Non si intende affermare con ciò che la fedeltà, come le altre proprietà, non siano possibili nel matrimonio naturale […] Certamente, però, la chiusura a Dio o il rifiuto della dimensione sacra dell’unione coniugale e del suo valore nell’ordine della grazia rende ardua l’incarnazione concreta del modello altissimo concepito dalla Chiesa secondo il disegno di Dio…» [4].

In gioco, pertanto, non c’è solamente un problema teorico, bensì la semplice constatazione che oggi, più di ieri (ma come ieri), senza fede non si può vivere il matrimonio cristiano e, di conseguenza, non si può neppure celebrarlo come tale. Pertanto, si rende evidente come il contributo dell’Arcivescovo non possa essere rubricato nell’infinita e, per certi versi stucchevole, discussione sulla revisione della prassi di ammissione dei divorziati risposati alla comunione eucaristica, ma chieda di essere letto come una provocazione rivolta alla totalità della comunità ecclesiale (teologi e canonisti inclusi) di rendere efficace anche oggi l’annuncio del Vangelo di Cristo, ritrovando nello stesso messaggio evangelico ciò che la Chiesa non può esimersi dal proclamare: «dall’apparire del Figlio nel mondo non c’è nessun’altra forma di amore, per noi, all’infuori della forma in cui Egli ci ha amato […] “Questo è il mio comandamento: amatevi l’un l’altro come io vi ho amati” (Gv. 15,12). Questo è dunque il canone per ogni amore cristiano, anche per l’amore e la fedeltà matrimoniale» [5].

Il Prof. Nicola Reali è docente di Teologia Pastorale del Matrimonio e della Famiglia presso il Pontificio Istituto “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense a Roma

*

NOTE

[1] Naturalmente ci si riferisce al cosiddetto mondo occidentale, anche se il fenomeno sta crescendo anche in zone finora considerate immuni dall’influsso culturale dell’occidente (es. India e Africa).

[2] Tertulliano, De testimonio animae, 1,7: CCL 1,176.

[3] A. Scola – G. Marengo – J. Prades Lopez, La persona umana. Antropologia teologica, Milano 2000, 200.

[4] Benedetto XVI, Allocuzione alla Rota Romana, 26 gennaio 2013, AAS 105 (2013), 169-170.

[5] H. von Balthasar, Gli stati di vita del cristiano, Milano 19962, 211.

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Nicola Reali

Nicola Reali si è formato inizialmente alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e successivamente alla Pontificia Università Lateranense, dove ha conseguito nel 2000 il dottorato in Teologia con una tesi sull'eucaristia nel pensiero del filosofo francese Jean-Luc Marion, del quale ha curato anche l’edizione italiana della sua principale opera Étant donné. Attualmente insegna teologia pastorale presso il Pontificio Istituto Pastorale Redemptor Hominis della Pontifica Università Lateranense Scegliere di essere scelti. Riflessioni sul sacramento del matrimonio, Cantagalli, Siena 2008. Fino all’abbandono. L'eucaristia nella fenomenologia di Jean-Luc Marion, (Prefazione di Jean-Luc Marion) Città Nuova, Roma 2001. La ragione e la forma. Il sacramento nella teologia di H. U. von Balthasar, PUL-Mursia, Roma 1999. N. Reali (ed.), L’amore tra filosofia e teologia. In dialogo con Jean-Luc Marion, Lateran University Press, Città del Vaticano 2007.

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