La Corte suprema dell’India dice no all'eutanasia

Sul caso di una infermiera in stato semi-vegetativo dal 1973

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

di Paul De Maeyer

ROMA, mercoledì, 16 marzo 2011 (ZENIT.org).- Mentre il Parlamento italiano dovrebbe votare prossimamente la proposta di legge sulle cosiddette DAT o “dichiarazioni anticipate di trattamento”, che mira a impedire l’eutanasia passiva e l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali, la Corte Suprema dell’India si è espressa lunedì 7 marzo sul caso di una donna da quasi quarant’anni in stato di minima coscienza.

La più alta corte della Federazione indiana ha respinto infatti una richiesta avanzata dalla giornalista e scrittrice Pinki Virani, classe 1959, di sospendere l’alimentazione all’infermiera sessantaduenne Aruna Ramachandra Shanbaug per lasciarla morire. La Shanbaug è entrata in uno stato semi-vegetativo nel lontano 1973, dopo essere stata vittima di una brutale aggressione a sfondo sessuale nell’ospedale dove lavorava, il King Edward Memorial Hospital (KEM) di Bombay (o Mumbai).

Era la sera del 27 novembre del 1973, quando un addetto alle pulizie dell’ospedale, Sohanlal Bhartha Walmiki, aggredì e violentò la giovane infermiera e cercò inoltre di soffocarla. La Shanbaug fu ritrovata solo la mattina successiva, con danni cerebrali irreversibili. Mentre il suo aggressore fu condannato a sette anni di prigione e assunse una nuova identità dopo la sua uscita dal carcere, la Shanbaug è da ormai 37 anni ricoverata nel KEM Hospital, dove viene accudita con grande dedizione dal personale della struttura.

Secondo la Virani, che nel 1998 ha dedicato al caso un libro intitolato “Aruna’s Story”, quella della Shanbaug è una vita “non vita”, anzi è criminale mantenere in vita il corpo ridotto ad uno “scheletro” di una persona “virtualmente morta”. “Questa prolungata esistenza vegetativa priva di ogni dignità umana non è per nulla vita e infilare pappe in bocca equivale solo a una violazione della dignità umana”, sosteneva la giornalista nella sua richiesta presentata nel 2009 davanti al tribunale supremo (BBC, 17 dicembre 2009). Per la scrittrice, la Shanbaug “ha diritto a non essere ridotta a questa specie di condizione subumana”.

Diversa è la situazione che descrive il KEM Hospital. Secondo il personale curante, la Shanbaug sente, reagisce al tatto, interagisce con espressioni del viso e suoni, ed esprime gradimento o rabbia. Per il suo 50° compleanno, l’ospedale ha organizzato persino una festa – musica dal vivo inclusa -, che “sembra essere piaciuta” alla donna (The Hindu, 7 marzo). “Lei è un essere umano, non è un vegetale. Rifiuta il cibo quando è sazia, apre la bocca quando viene imboccata”, racconta un’infermiera della struttura.

“Ogni nuova allieva infermiera viene presentata ad Aruna; le diciamo che lei è stata una di noi e continua ad esserlo oggi. L’idea di sospendere l’alimentazione o di farle un’iniezione letale è inaccettabile per chiunque lavori in questo ospedale”, così si legge in una dichiarazione del corpo medico del KEM, citata da Églises d’Asie il 10 marzo. L’ospedale è del resto molto orgoglioso del fatto che dopo tanti anni la donna non presenti piaghe da decubito. Nella sua sentenza del 7 marzo, la Corte Suprema di Nuova Delhi ha d’altronde espresso parole di lode per la straordinaria dedizione del personale del KEM Hospital nei confronti della loro ex collega.

Nella loro sentenza, i giudici Markandeya Katju e Gyan Sudha Mishra si sono espressi sulla legittimità o meno di accogliere la richiesta avanzata dalla Virani. Secondo i giudici, la giornalista ed attivista per una “morte dignitosa” non ha nessun diritto a presentare la domanda per conto della Shanbaug, anche se la donna è stata abbandonata dai suoi parenti (ha ancora una sorella maggiore, ma non può prendersi cura di lei). Tale decisione – ribadiscono i giudici – deve essere presa dai genitori o dal coniuge oppure da altri parenti stretti, o in assenza di uno di loro da una persona o un organismo che funge da amico più stretto o anche dal medico curante. Per questo motivo, solo il personale del KEM Hospital, che ha “espresso chiaramente il desiderio che ad Aruna Shanbaug sia concesso di vivere”, può avanzare tale domanda. “Sono loro in realtà i suoi amici più intimi, e non la signora Pinki Virani, che l’ha visitata solo in alcune occasioni ed ha scritto un libro su di lei”.

Il verdetto dei due giudici, definito “storico” dai media, rappresenta dunque un “nì”. Da un lato conferma l’illegalità dell’eutanasia attiva, che viene dichiarata “inaccettabile”, ma dall’altro lato apre la porta a quella detta “passiva”, la quale “dovrebbe essere autorizzata nel nostro Paese in certe situazioni”. Confrontati con l’attuale vuoto legislativo, i due giudici dichiarano di sentirsi “come una nave in mari inesplorati” e ribadiscono la necessità di una norma di legge ad hoc. Il verdetto emesso il 7 marzo rimarrà valido fino all’approvazione da parte del Parlamento di una legge specifica in materia.

Il verdetto è stato, invece, accolto con una certa delusione dalla Virani, ritenuta dai giudici una persona che ha agito “in buona fede”. “Dopo più di 35 anni, non ha ancora ricevuto giustizia”, così osserva la giornalista in un comunicato. Comunque, continua, “grazie al caso Aruna Shanbaug, la Corte Suprema ha autorizzato l’eutanasia passiva”. “Aiuterà altri che si trovano in una situazione simile”, ha confermato il dottor Surendra Dhelia, della Society for the Right to Die With Dignity, un movimento con sede a Mumbai (The Los Angeles Times, 8 marzo).

Molto soddisfatto invece è il personale del KEM Hospital, che ha organizzato una piccola festa e ha parlato del “più bel regalo” che la Corte Suprema potesse fare per la Giornata Internazionale della Donna. “Non vogliamo che Aruna muoia. Siamo la sua famiglia. Vogliamo che lei viva”, ha detto un’infermiera al quotidiano The Hindu (7 marzo). “Chi è lei [Pinki Virani] per parlare al posto di Aruna? Si è mai presa cura di lei anche per un giorno?”, ha chiesto una collega. “Siamo molto grati alla Suprema Corte, che ci permette di continuare a prenderci cura di lei”, ha dichiarato a sua volta il portavoce dell’ospedale, il dottor Sanjay Oak.

Anche il dottor Pascoal Carvalho, membro della Commissione diocesana sulla vita umana dell’arcidiocesi di Mumbai, ha accolto la sentenza con soddisfazione. “Accogliamo con favore il rigetto della petizione di eutanasia per Aruna Shanbaug. I nostri giudici hanno sentenziato in favore di una cultura della vita. L’India è radicata nella spiritualità in cui ogni vita viene considerata sacra. Solo Dio è padrone della vita umana, e nessuno ha il diritto di padronanza sulla vita. L’eutanasia, l’uccisione cosiddetta per pietà e il suicidio assistito sono sempre immorali e non devono essere accettati legalmente. Dire che l’eutanasia è una cosa buona è un’offesa alla dignità della persona umana”, così ha detto ad AsiaNews (8 marzo).

Sul verdetto si è pronunciato anche il vescovo cattolico della diocesi di Poona, monsignor Thomas Dabre. “L’intera questione legata al diritto di vivere e morire con dignità va vista nella prospettiva di qual è il bene più alto (esistente) nell’universo”, scrive il presule (Daily News & Analysis, 14 marzo) . “Nessuna persona retta negherà che è la vita umana”, continua. “In questa prospettiva diventa chiaro che l’eutanasia è disumana e per questo immorale”, aggiunge Dabre, che a sua volta elogia il personale del King Edward Memorial Hospital e ricorda che la sofferenza fa parte della vita. “La vita umana è sia un dono che una responsabilità. Prendiamocene cura e promuoviamola al posto della cultura della morte”.

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione