La Conversione è orientare il cuore a Cristo

Lectio Divina di monsignor Francesco Follo per la III Domenica di Quaresima

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi ai lettori di Zenit questa riflessione sulle letture liturgiche della III domenica di Quaresima. Come di consueto, il presule propone anche una lettura patristica.

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LECTIO DIVINA

La Conversione è orientare il cuore a Cristo, è voltarsi a Lui, verso qualcuno da amare, non verso qualcosa da fare.

III Domenica di Quaresima – Anno C – 3 marzo 2013

Rito Romano

Es 3,1-8a.13-15; Sal 102; 1 Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9

Rito Ambrosiano

III Domenica di Quaresima di Abramo

Dt 6,4a; 18,9-22; Sal 105; Rm 3,21-26; Gv 8,31-59

1) Conversione: voltarsi verso Chi per primo ci ha amati.

“Convertitevi”, ci chiede il Salvatore, il cui invito ci è fatto ascoltare in questa Domenica, come frequentemente accade nella liturgia quaresimale.

“Convertici, o Dio, nostra salvezza” ci fa pregare la medesima liturgia. La conversione dunque è un invito da accogliere e un dono da domandare al Salvatore.

Nel Vangelo “romano” San Luca ci parla della necessità della conversione, della sua urgenza, del giudizio di Dio che incombe. Ma che significa convertirsi?

Il verbo privilegiato dall’Antico Testamento per indicare la conversione è shouv che vuol dire: cambiare strada, tornare indietro. Sul piano esistenziale o etico questo verbo ebraico connota un cambiamento di orientamento, una modificazione del comportamento. Sempre nell’Antico Testamento per indicare la conversione sono usati anche i verbi ebraici biqqesh e darash il cui significato è “cercare Dio o il bene”.

Il Nuovo Testamento ha usa «epistrefein»: voltarsi verso, per indicare il mutamento esteriore e il mutamento nel comportamento, mentre si serve di «metanoein» per indicare la mutazione interiore, il cambiamento di mentalità. Il termine che Luca usa nel nostro testo è «metanoia»: egli insiste dunque sul mutamento interiore, sul modo nuovo e diverso di pensare, valutare le cose.

Il breve passo di Luca (13,1-9) si divide in due parti: un appello alla conversione (13,1-5) e la parabola del fico sterile (13,6-9). Le due parti trovano il loro punto di incontro nel tema della conversione. Il verbo «convertirsi» è ripetuto due volte nel brano. L’avvertimento è dato in forma solenne (“Io vi dico...”) e come condizione indispensabile per sfuggire al giudizio di Dio (“Se non vi convertirete, perirete tutti”).

L’odierno Vangelo di Luca mostra che Gesù non è anzitutto interessato al contenuto della conversione (quali cose cambiare): Lui preferisce renderci consapevoli che il giudizio di Dio è incombente e generale.

Il giudizio di Dio non conosce l’ingiustizia, va oltre la giustizia (Divo Barsotti) e ad esso dobbiamo prepararci volgendo l’intelligenza alla Verità, la volontà al Bene, testa e cuore a Gesù, Destino nostro, in modo che il suo Vangelo sia guida concreta della vita, domandando che Dio ci trasformi, riconoscendo che dipendiamo da Dio, dal suo amore creativo e misericordioso.

Una misericordia per cui l’infecondità del fico sterile diviene per il vignaiolo l’invito a lavorare ancora e ancora di più affinché tutto sia fatto per mettere la pianta in condizioni di portare frutto. Alla tentazione umana della durezza e dell’esclusione, la parabola oppone la fatica raddoppiata della divina Carità.

Il Signore, misericordioso e paziente, ci concede ancora del tempo per portare frutto. Le parole di Cristo, il Vignaiolo, sono consolanti: “Zapperò, metterò concime, curerò… e vedrai che porterà frutti”. L’albero della nostra vita può fiorire, se non ci convertiamo a Cristo che con il suo amore compie il miracolo. Seguiamo quindi l’invito che già nell’Antico Testamento Dio rivolge al suo popolo: “Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti, ritornate al Signore vostro Dio, perché egli è misericordioso e benigno, tardo all’ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura.” (Gl 2, 12-13).

2) La conversione di Abramo.

In questo cammino verso Dio, la liturgia ambrosiana dopo averci proposto “l’esempio” di Zaccheo e della Samaritana, oggi ci propone la grande figura di Abramo, che ha convertito la sua vita in offerta fino al punto di essere pronto a sacrificare il figlio Isacco.

Per Abramo la promessa di Dio di dargli un popolo innumerevole fu più certa del fatto del figlio Isacco, che lui non ricusò di sacrificare all’Onnipotente che glielo chiedeva.

Il totale abbandono a Dio è fonte di tranquillità e di serenità sia nei confronti del passato che dell’avvenire. La conversione si realizza con la rinuncia di sé e di quanto si ha di più caro, come un figlio nel caso di Abramo, per occuparsi esclusivamente di Dio e del suo disegno buono su di sé e sul mondo.

Se a questo abbandono totale uniamo un’amorosa fiducia saremo sempre più capaci di non aver cura di noi ma di lasciare che di noi abbia cura il Signore. Allora il nostro cuore si dilata e siamo sollevati dal peso di noi stessi, peso che ci opprime. Con stupore ci renderemo conto di quanto retta e semplice fosse la via da seguire.

Noi pensiamo che per la conversione siano necessari sforzo e tensione ininterrotti, unitamente ad un continuo rinnovarsi di azioni e di fatti. Secondo me per voltarci verso Cristo e seguirlo stabilmente poche sono le cose da fare: è sufficiente, senza neppure troppo ragionare sul passato o sul futuro, guardare a Lui sulla Croce con fiducia, come ad un Fratello che ci conduce nella realtà presente, come per mano. Se per una più o meno lunga distrazione lo dovessimo perdere di vista, non indulgiamo in essa, ma rivolgiamoci a Lui, e comprenderemo quale sia la sua volontà buona per noi. Se facciamo dei peccati, convertiamoci accostandoci al sacramento della Penitenza e facciamo una penitenza che sia un dolore tutto d’amore.

3) Dalla conversione alla consacrazione

La confessione è chiamata “sacramento della Penitenza poiché consacra un cammino personale ed ecclesiale di conversione, di pentimento e di soddisfazione del cristiano peccatore” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1423). La prima conversione l’abbiamo avuto con il battesimo, ma “la vita nuova ricevuta nell’iniziazione cristiana non ha soppresso la fragilità e la debolezza della natura umana” (1426), dunque la conversione è la legge che dura tutta la vita, fino al momento in cui l’uomo dà l’ultimo respiro: è stato così per San Pietro come per San Paolo, per tutti i santi a maggior ragione per ciascuno di noi.

In questo ci sono di testimonianza le Vergini consacrate che alla domanda del Vescovo: “Volete vivere solamente per Dio nel silenzio e nella solitudine, nella preghiera assidua e nella penitenza gioiosa, nel lavoro nascosto e nel servizio degli altri” hanno risposto: “Si, lo vogliamo” (RCV, n. 55)

Queste persone testimoniano che la consacrazione della vita a Dio significa la verità dell’amore, del lavoro, della giustizia, della vita stessa. La vita intera si trasfigura mediante l’offerta di sé a Dio. La carità perfetta (nella quale consiste la perfezione di tutti i Cristiani) vissuta verginalmente porta tutta la persona nel suo Creatore e può essere definita: una totale consacrazione o sacrificio che l’essere umano fa di sé a Dio, ad imitazione di quanto fece il nostro Redentore Gesù Cristo.

Mediante questa consacrazione le Vergini consacrate sono segno per tutti che l’importante é non aver altro scopo ultimo in tutte le nostre azioni che Dio, e di non far altra professione, né cercar altro gusto sulla terra, eccetto quella di piacere a Dio e di servirlo: cioè di essere giusti praticand
o la legge santa della carità.

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LETTURA PATRISTICA

SAN BERNARDO DI CHIARAVALLE

SULLA CONVERSIONE – SERMONI 34-39

Poiché, non esiste (o almeno, io non l’ho trovata) la traduzione italiana del testo citato di San Bernardo propongo un estratto di uno scritto di P. Giovanni Lunardi.

“Ma per imboccare e vivere la via dell’amore, è condizione indispensabile una unica cosa, convertirsi, cioè abbandonare la volontà propria, attraverso l’umiltà. Bernardo lo scopre leggendo il Vangelo, là dove Gesù raccomanda ai discepoli: “ In verità vi dico: Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli” ( Mt 18,3). E che altro significa divenire bambini – si domanda Bernardo – se non “divenire umili”? (Sulla quaresima II,1). Convertirsi si riduce, quindi, ad apprendere la difficile arte dell’umiltà!

E l’umiltà consiste semplicemente nel formarsi una valutazione esatta di se stessi. “L’umiltà è la virtù per cui l’uomo si crede spregevole a motivo di una esattissima conoscenza di se stesso – humilitas est virtus qua homo verissima sui cognitione sibi ipsi vilescit” (Sull’umiltà, 2). E cioè: siamo grandi, perché “nessuna creatura è più vicina a Dio di quella fatta ad immagine di Dio” (De diversis, IX,2). Ma anche siamo piccoli per la presenza del peccato personale- “ La superbia è il desiderio della propria preminenza – Superbia estappetitus propriae excellentiae” (epist. 42).

Conversione, perciò, significa riprendere, riconquistare faticosamente ciò che è nativo nella natura umana, cioè l’umiltà. L’uomo è per natura umile! La superbia, invece, è un prodotto inventato dal diavolo, e esportato nell’uomo. Bisogna, in altre parole, scandagliare le profondità del proprio cuore, ottenere con un lavoro duro e assiduo, una valutazione esatta di se stessi. Infatti l’orgoglio e la superbia, i grandi nemici dell’esistenza cristiana, nascono proprio dall’ignoranza di se stessi. Più si ignora se stessi e più si corre il pericolo di cadere nella superbia.

Dall’umiltà nasce la carità verso gli altri. La nostra miseria davanti a Dio ci fa prendere il nostro giusto posto anche davanti agli altri. Proprio attraverso l’esatta conoscenza di noi stessi arriviamo alla conoscenza della debolezza altrui. Noi, dice Bernardo, attraverso la nostra personale debolezza e fragilità, riflettiamo quasi in uno specchio, quella del prossimo: Il cristiano, “partendo dalla propria miseria mediterà su quella di tutti gli altri” – “ex propria miseria generalem perpendat “ (Sui gradi dell’umiltà e della superbia, 16). Dio ci lascia nei nostri difetti, perché comprendiano quelli degli altri. Infatti noi e gli altri siamo fatti della stessa pasta. Di qui una unica conclusione appare possibile: come io ho compassione delle mie miserie personali e non mi condanno, così non potrò mai assumere atteggiamenti severi nei confronti del fratello che pecca, dovrò essere aperto ad un indefinito perdono. Tu sei un malato grave- ricorda Bernardo- e non potrai non aver compassione del fratello che è malato come te. Infatti “solo un malato può comprendere e aver compassione di un altro malato “ – “ solus aeger aegro compatitur” (Sull’umiltà, VI). I cristiani “ partendo dalle proprie sofferenze imparano a compatire quelle degli altri“(Sui gradi dell’umiltà , 18).

In questo contesto si comprende la necessità della preghiera, come espressione di amore. Per questo bisognerebbe pregare sempre, pregare sempre a Dio: “ Tutto il tempo in cui non pensi a Dio, devi considerarlo come tempo perduto” – “ omne tempus in quo de Deo non cogitas, hoc te computes perdidisse” ( PL 184, 497A).”Non bisogna mettersi in preghiera una volta o due, ma frequentemente e assiduamente, presentando a Dio i desideri del tuo cuore e, a tempo opportuno, anche ad alta voce” – “Non enim semel vel bis ad orationem est accedendum, sed frequenter et assidue, ad Deum extendentes desideria cordis et in tempore opportuno aperientes vocem oris” (Sermone sull’avvento).

Qualità della preghiera: 1.- umile.. La preghiera è incontro con il Signore mentre tu sei così piccolo. ““e sei stato privato della grazia, stai pur certo che il motivo ne è stato la tua superbia, anche se non lo si vede, anche se tu non te ne rendi conto””(Sul cantico 54, 10). 2.- Pura. Si tratta di cercare unicamente Dio per se stesso (Sul cantico, 40, 3): “Tu non preghi in maniera conveniente se nella stessa preghiera tu cerchi qualcos’altro all’infuori del Cristo, o se nella preghiera tu cerchi, sì, il Cristo, ma non lo cerchi per se stesso” (Sul cantico 86, 3). 3.- devota, cioè fervorosa.”

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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