Mastro Titta

Mastro Titta - Wikimedia Commons (Briangotts)

La Chiesa e la pena di morte

L’appello del Papa durante l’Angelus di ieri, il Catechismo odierno che privilegia i “mezzi incruenti” e la differente realtà del ‘500, quando la pena capitale era l’unico mezzo per “reprimere il crimine” e assicurare il bene sociale

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“Faccio appello alla coscienza dei governanti, affinché si giunga ad un consenso internazionale per l’abolizione della pena di morte”. La voce di Papa Francesco è tuonata, durante l’Angelus di ieri, in una gremita piazza San Pietro, si è innalzata oltre il colonnato del Bernini per propagarsi in tutto il mondo. È l’ennesimo monito che Bergoglio rivolge alla comunità internazionale contro questa cruenta pratica, prevista dal codice penale e ancora utilizzata in 38 Stati del mondo.
Quello di ieri, tuttavia, è un appello che assume un valore ulteriore. Il Pontefice ha chiesto infatti una moratoria durante l’Anno Santo dedicato alla misericordia, facendo appello a quanti tra i governanti sono cattolici, affinché compiano un gesto che definisce “coraggioso ed esemplare”.
Una contrarietà alla pena di morte, la sua, integrale, che non accetta alcuna deroga. Lo ha testimoniato, nel corso dell’Angelus, quando ha salutato come “segno di speranza” il fatto che l’opinione pubblica deplori ormai la pena capitale anche come “strumento di legittima difesa sociale”. Del resto – ha aggiunto il Papa – “le società moderne hanno la possibilità di reprimere efficacemente il crimine senza togliere definitivamente a colui che l’ha commesso la possibilità di redimersi”.
Quest’ultima considerazione si pone in linea con quanto scritto dal suo predecessore, Benedetto XVI, nel n. 469 del Compendio del Catechismo pubblicato nel 2005: “Oggi, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere il crimine rendendo inoffensivo il colpevole, i casi di assoluta necessità di pena di morte sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti”.
La nuova sensibilità della Chiesa su questo tema era già sorta da tempo e si era manifestata con San Giovanni Paolo II, che nel 1999, trovandosi in visita negli Stati Uniti, laddove diversi ordinamenti giuridici contemplano la pena di morte, riconobbe che “la società moderna possiede gli strumenti per proteggersi, senza negare ai criminali la possibilità di ravvedersi”. Di qui anche il suo appello “per abolire la pena di morte, che è crudele e inutile”. D’altronde fu il Papa polacco che, con un motu proprio nel febbraio 2001, abolì in modo definitivo la pena di morte nella Città del Vaticano.
Appelli e opere concrete dei Pontefici contemporanei ricalcano la posizione espressa nel Catechismo della Chiesa Cattolica, e sembrano altresì distanti anni luce da una prassi che contraddistinse le autorità ecclesiastiche nei secoli passati. Prassi che traggono origine da quanto recita il Catechismo del Concilio di Trento (1545 – 1563), al n. 328: “Rientra nei poteri della giustizia condannare a morte una persona colpevole. Tale potere, esercitato secondo la legge, serve di freno ai delinquenti e di difesa agli innocenti”.
Quel Catechismo composto su sollecito di Papa Pio IV, precisa inoltre che “emanando una sentenza di morte, i giudici non soltanto non sono colpevoli di omicidio, ma sono esecutori della legge divina che vieta appunto di uccidere colpevolmente. Fine della legge, infatti, è tutelare la vita e la tranquillità degli uomini; pertanto i giudici, che con la loro sentenza puniscono il crimine, mirano appunto a tutelare e a garantire, con la repressione della delinquenza, questa stessa tranquillità della vita garantita da Dio”.
Le distanze che appaiono, comprensibilmente, così incolmabili tra le indicazioni partorite dalla Controriforma e quelle presenti nel magistero degli ultimi Papi, si riducono se si getta uno sguardo sui contesti storici e se si approfondisce il messaggio che la Chiesa intende oggi offrire.
La posizione ufficiale, espressa da San Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, nonché redatta nero su bianco nel Catechismo della Chiesa cattolica, “non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte”. A patto però che questa sia “l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani”. Al contempo, si riconosce che “sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti” (Evangelium Vitae) i casi in cui la pena estrema è “l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani”.
Tutt’altro che rari erano invece questi casi nel ‘500. Ai tempi in cui si tenne il Concilio di Trento, Roma, la città del Papa, era il paradigma di un clima di estrema fragilità e insicurezza che si respirava in tutta Europa. Un’Europa, quella d’allora, ferita nel suo tessuto sociale dal protrarsi delle guerre di religione seguite alla riforma luterana e da un’inflazione galoppante.
Per le vie dell’Urbe, specie nelle zone più malfamate come l’odierno Rione Monti (la Suburra), si aggiravano frotte di vagabondi – spesso sbandati reduci dalle Guerre d’Italia – che erano dedite alla prostituzione, alla violenza, al crimine. La situazione era persino peggiore appena fuori le mura della città: nella campagna romana trovava rifugio, dopo aver depredato e ucciso, un vero e proprio esercito di criminali. Si stima che nell’arco del XVI secolo il numero di fuorilegge nello Stato Pontificio variasse dalle 12 alle 27mila unità.
Le strutture carcerarie dell’epoca, malgrado l’impegno profuso dai Papi per migliorare gli istituti di pena (come attesta nell’800 lo storico Carlo Morichini), erano assolutamente inadeguate a fronte di una malavita così diffusa. Le continue risse e i disordini che scoppiavano dentro le mura di reclusione rendevano questo strumento inefficace, se non persino controproducente. E intanto, fuori di lì, le autorità dovevano fronteggiare un vero e proprio esercito armato che minacciava sistematicamente, in ogni zona dello Stato Pontificio, “la vita e la tranquillità degli uomini”.
In un tale contesto l’extrema ratio della pena di morte era un ricorso che le circostanze rendevano doveroso per “reprimere il crimine”. Non vi erano margini, evidentemente, “per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone” attraverso dei “mezzi incruenti” (vd. Ccc n.2267). Di qui l’uso disinvolto della forca, che tuttavia è spesso degenerato a causa dell’alto livello d’emergenza sociale.
Oggi, come hanno sottolineato a più riprese gli ultimi tre Papi, la situazione è cambiata in modo radicale. A un clima di maggiore pace sociale si aggiunge l’evoluzione dei sistemi di difesa delle carceri. Elementi che, sebbene perfettibili, rendono la pena di morte uno strumento anacronistico, nonché crudele e lesivo della dignità della persona. Uno strumento che può essere dunque abolito, come ha invocato in ultimo Papa Francesco ieri da Piazza San Pietro.

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Federico Cenci

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