Chiesa Abbazia Orval (B) / Wikimedia Commons - LimoWreck, CC BY-SA 3.0

La birra: prodotto d’eccellenza dei trappisti

Cercare “le cose di lassù” offrendo prodotti genuini di Madre Terra

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Come ha sottolineato papa Francesco sabato 23 settembre 2017 nel suo discorso rivolto al Capitolo Generale dell’Ordine dei Cistercensi della Stretta Osservanza (“Ordo Cisterciensis Strictioris Observantiae” o abbreviato OCSO), la vita dei trappisti — come vengono popolarmente chiamati — è scandita dalla “preghiera assidua”.
Ma seguendo la regola d’oro dell’“ora et labora” (prega e lavora) del “padre del monachesimo occidentale”, san Benedetto da Norcia (480 circa – 547), i monaci e le monache dell’ordine dei trappisti si dedicano anche al lavoro manuale e in particolare alla produzione di prodotti artigianali, inclusi quelli che deliziano il palato.
Numerose infatti le abbazie trappiste che producono o sfornano prodotti d’eccellenza nella migliore tradizione dello “slow food”. Famose sono ad esempio le confetture e marmellate prodotte in ben 25 gusti dalle monache trappiste del monastero di Vitorchiano, in provincia di Viterbo (Alto Lazio). Altrettanto noto, avvicinandosi a Roma, è il cioccolato prodotto dai monaci trappisti di Frattocchie, nel comune di Marino.
Ma uno dei prodotti più ambiti del lavoro dei trappisti sono senz’altro le loro birre, realizzate secondo formule antiche ma nel pieno rispetto delle attuali norme igieniche di produzione, e questo in varie tipologie — dal “Dubbel” (doppia) al “Tripel” (triple) o persino “Quadrupel” — e colori: ambrato, chiaro, mogano, marrone, scuro ecc.
Undici i birrifici trappisti che hanno ottenuto finora il certificato “Authentic Trappist Product” erogato dalla “International Trappist Association (ITA). I criteri sono tre: 1) la birra dev’essere prodotta all’interno delle mura dell’abbazia trappista, dagli stessi monaci o almeno sotto il loro diretto controllo; 2) la produzione, la scelta dei processi produttivi e l’orientamento commerciale devono dipendere dalla comunità monastica e non da terzi; 3) il ricavato serve al sostentamento della comunità e per opere di beneficenza e carità, quindi non al profitto.

Alcune birre trappiste / Wikimedia Commons - Philip Rowlands, CC BY-SA 3.0

Alcune birre trappiste / Wikimedia Commons – Philip Rowlands, CC BY-SA 3.0

Delle undici abbazie i cui birrifici hanno ottenuto il certificato ben sei sono belghe, due olandesi, una austriaca, una statunitense e una… italiana.
Le abbazie belghe sono divise “fraternamente” tra la parte settentrionale (o fiamminga) e la parte meridionale (o francofona) del Regno. Tre infatti sono le abbazie fiamminghe che producono le birre con il logo — Achel, Westmalle e Westvleteren — e tre sono quelle nella Vallonia: Chimay, Orval e Rochefort.
Le abbazie olandesi invece sono due, Koningshoeven (Tilburg) e Zundert. Mentre quella austriaca è l’abbazia di Engelszell, nell’Alta Austria, l’unica abbazia non europea è statunitense: la “St. Joseph’s Abbey” a Spencer, nello Stato del Massachusetts.
Infine, l’abbazia italiana la cui birra ha ottenuto il certificato è quella delle Tre Fontane, in zona Laurentina a Roma, fondata nel luogo dove secondo la tradizione l’apostolo Paolo morì per decapitazione nel 64 o 67 d.C.
Alcune delle birre in questione, come ad esempio Chimay e Rochefort, sono abbastanza facili da acquistare, anche nei supermercati. Molto difficili da ottenere invece — e non solo perché prodotte in quantità ridotte — sono le birre dell’abbazia di “St. Sixtus” a Westvleteren, nella provincia delle Fiandre Occidentali, Belgio. E questo anche se la pluripremiata “Westvleteren 12” è considerata una delle migliori birre in assoluto nel mondo, se non “la” migliore.
Lo stile di vita austero, quasi ascetico, dei monaci trappisti si riflette a volte persino nelle bottigliette delle loro birre. Mentre l’etichetta della Orval è ad esempio molto semplice ed essenziale, le birre di Westvleteren neppure hanno un’etichetta. Infatti è il colore del tappo che rivela la tipologia del prezioso liquido contenuto all’interno della bottiglietta, ossia verde per la “Blonde”, blu per la “Westvleteren 8” e infine giallo per la ricercatissima “Westvleteren 12”.
“Facciamo birra per vivere, non viviamo per fare la birra”, spiegò nel 2005 a USA Today il mastro birraio dell’abbazia, frate Joris. Cioè: la birra serve per sostenere la comunità, chiamata infatti a cercare “le cose di lassù” — come ha detto papa Francesco ieri nel suo discorso –, e non il contrario. “First things first”, si direbbe oltreoceano.

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Paul De Maeyer

Schoten, Belgio (1958). Laurea in Storia antica / Baccalaureato in Filosofia / Baccalaureato in Storia e Letteratura di Bisanzio e delle Chiese Orientali.

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