"L'uomo non nasce da se stesso, riceve la vita"

Omelia di monsignor Camisasca per la festa della Presentazione di Gesù al tempio

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Pubblichiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciata ieri da monsignor Massimo Camisasca, vescovo della diocesi di Reggio Emilia–Guastalla, per la festa della Presentazione di Gesù al tempio.

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Cari fratelli e sorelle,

la Chiesa ha significativamente legato questa giornata, memoria della presentazione di Gesù al Tempio, alla vita consacrata. Saluto e ringrazio innanzitutto mons. Gianfranco Ruffini, mio vicario per la vita consacrata e i monasteri e tutti voi religiosi e religiose, soprattutto coloro che durante quest’anno festeggiano un particolare anniversario della professione religiosa.

Vorrei guardare assieme a voi ciò che caratterizza la vostra vita e, nello stesso tempo, indicare a tutti ciò che è essenziale in ogni autentica vita cristiana.

La Tradizione ecclesiale ha visto nell’obbedienza, verginità e povertà le caratteristiche principali della persona di Gesù e di ogni uomo e donna chiamati a seguirlo.

Sono i consigli evangelici, così chiamati perché nascono da un invito di Gesù: se vuoi essere perfetto… (Mt 19,21). In realtà esprimono un ideale a cui tutti sono invitati, pur nella diversità delle forme in cui si esprime la risposta dell’uomo a Dio. Sono paragonabili ad un unico raggio di luce bianca che si rifrange in tre diversi colori.

Obbedienza, povertà e verginità ci parlano innanzitutto del rapporto che Gesù aveva col Padre, ma anche con gli uomini e con le cose. Rappresentano perciò l’itinerario compiuto della vita cristiana.

L’obbedienza

L’obbedienza è il fondamento e assieme il coronamento della vita nuova. L’uomo non nasce da se stesso, riceve la vita. E rimane in vita perché lo Spirito di Dio continuamente alimenta la sua persona. Vivere è, dunque, aderire a Colui che ci crea e ci rinnova. Il rapporto col padre e con la madre è per ogni uomo e donna il segno riassuntivo di tutto questo dinamismo di crescita verso la propria statura adulta, verso la propria maturità personale.

Ogni autorità, infatti, è soltanto una funzione vicaria, necessaria ma relativa a quell’autorità che non viene mai meno, anzi cresce di importanza col crescere della nostra figliolanza, l’autorità di Dio Padre.

Gesù ha fondato tutta la propria esistenza, la propria missione, nel rapporto col Padre. Io faccio ciò che piace a Lui (Cfr. Gv 8,29). Il dialogo, vissuto giorno e notte, col Padre era l’alimento della sua vita. Egli fu obbediente ai genitori, alla gente, alla legge mosaica, perfino alle leggi civili, per custodire l’obbedienza al Padre. Cercare la volontà del Padre, entrare in essa, era il suo pane quotidiano. Egli ha insegnato a noi a fare altrettanto. Anzi, ci ha mandato il suo Spirito che in noi grida “Padre”(cfr. Rom 8,15; Gal 4,6) perché lo conosce e lo sa riconoscere.

Nello stesso tempo, è anche vero che noi impariamo dalle autorità sulla terra a riconoscere ed amare l’autorità e la paternità di Colui che è nel cielo.

Per questo, grande è la responsabilità davanti a Dio e agli uomini di ogni autorità! I superiori possono facilitare o ostacolare il cammino dei loro fratelli verso la verità e il bene, possono svelare o offuscare il volto di Dio.

In una comunità ecclesiale, in particolare, il posto dell’autorità è proprio quello del Padre. Ogni autorità nella Chiesa deve saper coniugare accoglienza, ascolto, pazienza, capacità di perdono, con l’indicazione disinteressata della verità e del bene. Deve sapere quando comandare e quando consigliare, quando correggere apertamente e quando rimandare. Non deve lasciarsi guidare nel giudizio sulle persone da nessun interesse che non sia il bene dell’altro.

Così ha vissuto Gesù con i suoi apostoli. E noi possiamo partecipare dei raggi di questa luce. Egli ha insegnato agli apostoli la sua obbedienza chiamandoli a vivere con lui. Ascoltando le sue parole, guardandolo agire, aderendo a ciò che egli chiedeva loro, sono entrati, quasi senza accorgersi, in una vita nuova di cui lo Spirito ha rivelato loro, in modo definitivo, la realtà.

Obbedire, molto prima che eseguire un comando, significa per noi addentrarsi nell’esperienza della compagnia vocazionale, in cui ha iniziato a rivelarsi il disegno buono del Padre per noi.

Verginità e maturità affettiva

La verginità è l’altro volto dell’obbedienza. Potremmo dire che è l’obbedienza al Padre vissuta nel rapporto con gli uomini e con le donne. Essa è la modalità di rapporto che Gesù viveva con ogni persona.

La verginità non rappresenta la rinuncia ad amare. Chi segue Cristo, imitando anche la forma della sua esistenza, non vive una vita diminuita, meschina, arida. All’opposto, è raggiunto dalla promessa di Gesù di avere il centuplo sulla terra, assieme alle persecuzioni (cfr. Mc 10,30). Cento volte tanto in pienezza affettiva. Eppure Gesù non si è sposato, non ha avuto figli carnali. Come stanno insieme le due cose? Certamente egli non ha disprezzato il matrimonio: ha iniziato il suo ministero pubblico durante una festa di nozze, ha fatto dell’unione tra uomo e donna un sacramento, cioè un segno efficace della alleanza tra Dio e l’umanità. Ma ha scelto lui stesso e ha chiesto a chi lo seguiva stabilmente di non avere marito o moglie. Ha presentato sé come l’unum necessarium (Lc 10,42). Amare Cristo, seguirlo, può bastare al cuore dell’uomo: in Lui troviamo un amore che non ci chiude in noi stessi ma, al contrario, ci spalanca ad amare tanti uomini e donne con lo stesso amore disinteressato con cui Gesù ama le nostre persone. L’itinerario della verginità ci conduce alla pienezza della carità, a quei beni definitivi che resteranno quando tutto ciò che è provvisorio scomparirà.

Se la verginità non può essere frutto dei nostri sforzi o propositi, allo stesso modo esige, e quasi suscita, il cambiamento del nostro modo istintivo di possedere, segnato dalla nostra condizione di peccatori.

Gesù invita a guardare l’altro con occhio purificato (Cfr. Mt 6,22), come lo guarda Dio, nel rispetto della sua vocazione.

La verginità, prima ancora che nei rapporti con i fratelli, dev’essere vissuta con noi stessi, imparando a guardarci, corpo e anima, come ci guarda Dio. Anche i legami con i genitori, i parenti, gli amici, devono essere segnati da questa conversione.

La verginità è custodita nella preghiera, con cui chiediamo a Dio l’esperienza del suo amore. Dal silenzio, che ci aiuta ad uscire dalla distrazione. Da un uso oculato e vigilante delle fonti di immagini (libri, cinema, televisione, tecnologie…), che permetta una purificazione della memoria.

Ma soprattutto sarà l’esperienza stessa della verginità a renderla desiderabile e a far sentire come leggero ogni sacrificio che essa richiederà alla nostra umanità ferita.

Tutta la nostra vita può essere definita un cammino di purificazione, di conversione dell’amore, verso la maturità affettiva. Anche se tale itinerario non sarà mai interamente compiuto sulla terra, noi, già nel tempo, possiamo sperimentare il passaggio dall’ira alla pazienza, dalla superbia all’umiltà, dal rancore al perdono, dall’invidia alla gioia per i beni degli altri. Possiamo, soprattutto, per grazia di Dio, convertire il nostro desiderio di possedere l’altro e le cose strumentalizzandole a nostro piacere, nella gratuità che sa godere in modo puro della presenza della persona amata, che sa donarsi e sacrificarsi.

La povertà è la pienezza dell’umano

La povertà nasce dalla scoperta che io appartengo ad un Altro, a Dio. Tale coscienza è fonte di un’enorme positività: sono di un Altro perché sono stato voluto e amato da lui. Sono stato suscitato all’essere dal nulla.

Se io sono opera di un Altro, tutto mi è dato da lui. Nello stesso tempo tutto è mio perché in Gesù trovo ogni bene necessario alla vita, in misura sovrabbondante. Tutto mi è dato per conoscere il Padre e colui c
he egli ha mandato (Cfr. Gv 17,3).

Vedere e usare di ogni cosa per raggiungere il Padre: in questo sta il segreto affascinante della povertà. Essa non è propriamente una virtù negativa, ma un atteggiamento positivo.

Nei discorsi missionari riportati da Matteo e Luca nei loro vangeli, tutto ciò è molto chiaro. La vita è definita dalla missione ed essa necessita di uomini liberi. Gesù invita i suoi che stanno partendo a non avere due tuniche, due borse, a non rimanere troppo in una casa (cfr. Lc 9,3-5; Mt 10,9-14). Li invita cioè ad avere un rapporto leggero, libero con cose e persone. Nessun uomo e nessuna cosa è disprezzata, tutto è collocato in un disegno in cui ciascuno trova il suo giusto posto. È veramente l’inizio di quei cieli nuovi e terra nuova di cui parla san Pietro (2Pt 3,13). L’inizio di un mondo veramente umano.

La povertà è la virtù che nasce dalla resurrezione di Cristo. Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio (cfr. 1Cor 3,21-23). Soltanto chi vive nella certezza di aver ricevuto tutto da Gesù è libero di fronte alle cose. Altrimenti cercherà la propria sicurezza in ciò che ha, stringendolo sempre più a sé. Come in un naufragio, invece di affidarsi alla leggerezza delle acque, si aggrappa agli altri trascinandoli verso il fondo.

Colui che vive la povertà è luminoso. Essa deve irraggiarsi nel nostro modo di vestire, di mangiare, di arredare la casa. Dalla nostra vita deve essere abolito ogni sfarzo e ogni sciatteria. Le nostre case mostrino a noi e a chi vi entra la bellezza della semplicità, la gioia di avere solo ciò che è necessario.

Cari fratelli e sorelle, è questo il mio augurio per tutti voi. Possa la vostra vita risplendere nel mondo come segno e testimonianza della presenza di Dio in mezzo a noi.

Amen

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ZENIT Staff

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