L'Università comunità educante in una società complessa (Terza parte)

L’idea di università

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di Monsignor Enrico Dal Covolo
Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense

ROMA, lunedì, 25 giugno 2012 (ZENIT.org).- L’espressione stessa – “idea di università” – riprende scopertamente il titolo del celebre volume di John Henry Newman, The Idea of a University.1

Non è il caso di addentrarci qui nelle laboriose e complesse vicende redazionali, che hanno segnato la stesura di quest’opera. Newman cominciò a scriverla già nel novembre del 1851 – era stato appena incaricato di presiedere alla fondazione dell’Università Cattolica di Dublino, dove poi fu Rettore dal 1854 al 1858 –, ma la pubblicò soltanto nel 1889, un anno prima di morire.

Nel bel mezzo di questi quarant’anni di gestazione, si colloca la violenta e provocatoria denuncia di Friedrich Nietzsche. Scrivendo il 15 dicembre 1870 all’amico Erwin Rohde – il celebre filologo classico, che proprio in quell’anno aveva conseguito l’abilitazione presso l’Università di Kiel –, Nietsche affermava: “L’università è un ostacolo a chi voglia dedicarsi totalmente alla ricerca della verità”.

A questo riguardo il cardinale Angelo Scola, introducendo lo scorso anno questo stesso Simposio Internazionale dei Docenti Universitari (Laterano, 23 giugno 2011), commentava: “Non mi pare il caso di soffermarmi su un giudizio così severo e discutibile. Ad ogni modo la questione ‘università’ rappresenta un problema, che sicuramente continuerà a darci del filo da torcere nei prossimi decenni”. Di fatto, proseguiva il cardinale, “l’interrogativo circa l’università – quale università? – costituisce un riverbero emblematico della domanda delle domande: quale uomo? La ragion d’essere dell’università e la modalità con cui viene proposta”, concludeva Scola, “concorrono a delineare la fisionomia dell’uomo, quale protagonista della nostra società”.

Ma torniamo all’idea di università di Newman. A dire il vero, essa non appare del tutto coerente: al contrario, contiene una smaccata contraddizione fra la teoria e la prassi.

Eppure, proprio questa incoerenza pare sommamente istruttiva e attuale, quando si considera il vivace dibattito che ne è seguito, e che tuttora continua.

Semplificando al massimo il discorso, e co-stringendolo un poco alle argomentazioni che andiamo svolgendo, potremmo dire così:

da una parte Newman considera l’università come il luogo per l’insegnamento del sapere universale;

dall’altra parte, però, egli è ben consapevole che nessuna università è stata (e che nessuna università sarà mai) il luogo del sapere universale, perché qualche branca disciplinare rimarrà pur sempre trascurata, anche nelle università fornite del più grande numero di facoltà.

Ma ecco il correttivo che Newman introduce, affinché la sua idea di università non resti una pura – per quanto affascinante – utopia: la filosofia e la teologia vengono assunte a garanti della correlazione e della sintesi tra le varie discipline, e così il sapere – filosoficamente e teologicamente fondato – fa comunque dell’università il luogo del sapere universale.

Molti oggi hanno rinunciato di fatto a una simile idea di università. Addirittura, c’è chi vorrebbe cambiare il nome di università, per ricorrere piuttosto al neologismo di multiversità.

In effetti, la frammentazione e la demarcazione dei saperi sembra procedere in maniera implacabile. Il concetto di “scienza” o di “disciplina” passa sempre di più attraverso la delimitazione precisa (“a francobollo”) dei contenuti e del metodo relativo. E nel proprio ambito, ciascuna disciplina rivendica la propria autorità e la propria verità. Così l’interdisciplinarità, quando si realizza, appare più formale che reale, al punto che – ormai – si parla più volentieri di interculturalità (qualunque cosa essa voglia dire) che di interdisciplinarità.

Le derive del relativismo sono evidenti, e non c’è bisogno di sottolinearle.

Entra qui la sfida di Newman circa l’idea di università come luogo del sapere universale, in quanto filosoficamente e teologicamente fondato.

Di recente – il 30 giugno scorso, durante la consegna dei riconoscimenti ai tre vincitori della prima edizione del “Premio Ratzinger” –, Benedetto XVI ha pronunciato un Discorso, che illumina di concretezza questa idea di università.

Il Papa si è chiesto anzitutto che cosa sia davvero la teologia, perché, diceva, “se la teologia è scienza della fede…, sorge subito la domanda: è davvero possibile questo? O non è in sé una contraddizione? Scienza non è forse il contrario di fede? Non cessa la fede di essere fede, quando diventa scienza? E non cessa la scienza di essere scienza, quando è ordinata o subordinata alla fede?”.

Si tratta in verità di una vexata quaestio, peraltro sempre attuale.

“Tali questioni” – riconosce infatti Benedetto XVI –, “che già per la teologia medievale rappresentavano un serio problema, con il moderno concetto di scienza”, precisamente quello a cui abbiamo rapidamente alluso, “sono diventate ancora più impellenti, a prima vista addirittura senza soluzione”.

Al di là delle argomentazioni successive – che il Papa sviluppa da pari suo – a noi qui interessa soprattutto la conclusione del discorso, là dove si legge: “Sono ben consapevole che con tutto ciò non è stata data una risposta circa la possibilità e il compito della retta teologia, ma è soltanto stata messa in luce la grandezza della sfida insita nella natura della teologia”.

Da parte mia – se mi è permesso – vorrei parafrasare, e riconoscere onestamente che neanche queste mie riflessioni giungono a dire qualche cosa di nuovo sul concetto di scienza, e neppure sul concetto di universitas scientiarum. Ma l’ultima osservazione del Papa è illuminante, quando egli aggiunge: “Tuttavia è proprio di questa sfida” – cioè della sfida insita nella natura della teologia, intimamente connessa con la filosofia –, “che l’uomo ha bisogno, perché essa ci spinge ad aprire la nostra ragione interrogandoci circa la verità stessa, circa il volto di Dio”.

In effetti, dalle sue peculiari (e per certi aspetti paradossali) caratteristiche epistemologiche, la teologia ricava la propria forza di provocazione e di sfida nei confronti delle altre scienze – oggi sempre più specializzate nel metodo e nei contenuti, quanto più frammentate nell’universo del sapere –. Il fatto preciso che la teologia non procede iuxta principia propria, ma dalla Parola rivelata, la spinge – con motivazioni e risorse che non appartengono alle altre scienze – verso quella mèta ultima e complessiva di verità, a cui essa anela. Certo, a questa stessa mèta con-corrono in vario modo tutte le scienze dell’universitas, nella misura in cui esse sono – come devono essere – ministrae veritatis. Ma la teologia – se è vera teologia, cioè fedele alla sua epistemologia autentica – possiede un’istanza veritativa ulteriore, “trasversale” alle altre scienze, e ultimativa nel suo traguardo proprio.

Ecco perché l’offerta formativa dell’università – che pure rimane fasciata anch’essa dalla “crisi globale” e dall’emergenza educativa del momento presente – dovrà perseguire, come mèta ultima, la sintesi filosofico-teologica, nel dialogo inesausto tra fede e ragione, tra “la scienza di Dio” e “le scienze dell’uomo”. Solo così l’università potrà dirsi degna del suo nome, ed essere luogo del sapere universale.

Per riassumere, cito – senza commentarlo, perché non ce n’è proprio bisogno – un passo del più recente Discorso del Papa sull’università: Benedetto XVI lo ha pronunciato nella basilica del monastero di San Lorenzo, a El Escorial di Madrid, durante la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù (16-21 agosto 2011).

In tale occasione il Pa
pa ha detto fra l’altro: “L’idea genuina di università è precisamente quello che ci preserva da una visione riduzionista e distorta dell’umano. In realtà, l’università è stata ed è tuttora chiamata ad essere sempre la casa dove si cerca la verità propria della persona umana… L’università incarna un ideale che non deve snaturarsi, né a causa di ideologie chiuse al dialogo razionale, né per servilismi ad una logica utilitaristica di semplice mercato”.

E rivolgendosi direttamente ai docenti, Benedetto XVI ha aggiunto: “I giovani hanno bisogno di autentici maestri; persone aperte alla verità nei differenti rami del sapere, sapendo ascoltare e vivendo al proprio interno tale dialogo interdisciplinare; persone convinte, soprattutto, della capacità umana di avanzare nel cammino della verità… Questa alta aspirazione è la più preziosa che potete trasmettere in modo personale e vitale ai vostri studenti, e non semplicemente alcune tecniche strumentali ed anonime, o alcuni freddi dati”.

“Se verità e bene sono uniti”, ha concluso il Papa, “così lo sono anche conoscenza e amore. Da questa unità deriva la coerenza di vita e di pensiero, l’esemplarità che si esige da ogni buon educatore”.

(La seconda parte è stata pubblicata domenica 24 giugno. La quarta ed ultima parte andrà in rete domani, martedì 26 giugno)

*

NOTE

1 Da qualche anno il volume è disponibile anche in lingua italiana, grazie alle cure di Angelo Bottone e di Vincenzo Cappelletti (L’idea di università, Edizioni Studium, Roma 2005, 242 pp.).

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ZENIT Staff

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