L'omelia deve commuovere

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di padre Piero Gheddo*

ROMA, martedì, 11 maggio 2010 (ZENIT.org).- Monsignor Mariano Crociata, segretario della Conferenza episcopale italiana (CEI), ha lamentato che le prediche delle Messe domenicali troppo spesso si trasformano per i fedeli in “una poltiglia insulsa, quasi una pietanza immangiabile o, comunque, ben poco nutriente”, nel corso di un intervento sulla Liturgia fatto a Roma (“L’Osservatore Romano”, 30 dicembre 2009).

Cos’è la predica, l’omelia domenicale nelle nostre chiese? Anzitutto “comunicazione” del messaggio cristiano. Qual è la prima regola del comunicare? Ricordo quando volevo collaborare con i giornali laici (scrivevo già su “L’Italia”, oggi “Avvenire” e “L’Osservatore Romano”), il primo che nel 1958 mi ha invitato è stato il cattolico Edilio Rusconi, mitico direttore e fondatore di “Oggi” per la Rizzoli (1946); poi si era messo in proprio e aveva fondato “Gente” (1958). Gli portavo articoli sui missionari e i popoli non cristiani, li pubblicava volentieri e una volta mi dice: “Tu scrivi cose interessanti, ma non hai ancora capito la prima regola del giornalismo”. Quale? “Il giornalista deve farsi leggere. Se non ti leggono è inutile che tu scrivi. All’inizio dell’articolo devi dare la notizia, il fatto, agganciare l’attenzione del lettore distratto del  nostro tempo. Tu invece parli come il prete parla dal pulpito: parti dalle idee generali, dai principi e poi scendi e fai il tuo racconto. Sbagliato, devi capovolgere l’impostazione”.

La predica è insegnamento di una dottrina o comunicazione di un’esperienza? E’ ambedue le cose, ma credo che, specialmente nel nostro tempo, per farsi ascoltare è molto valida la seconda ipotesi, non certo in senso assoluto (la dottrina è indispensabile), ma in senso relativo. In genere, il breve tempo dell’omelia (10-12 minuti al massimo) non permette di sviluppare un insegnamento compiuto, ma consente di provocare chi ascolta, far riflettere sulla propria vita confrontandoci col modello di Cristo. Il Vangelo è sempre provocatorio, indica che Gesù non è solo da pregare, ammirare, studiare, approfondire, ma soprattutto da amare e imitare. Il grande predicatore televisivo mons. Fulton Sheen, vescovo ausiliare di New York che negli anni Cinquanta e Sessanta spopolava alla televisione americana, diceva: “Se quando parlo a milioni di ascoltatori non arrivo a commuovermi ed a commuovere chi ascolta, ho fatto un buco nell’acqua. Di parole se ne dicono e se ne sentono tante. Nei pochi minuti che ho a disposizione debbo toccare il cuore dello spettatore medio, orientandolo a convertire la sua vita al modello di Cristo”.

La predica deve comunicare la fede, l’esperienza che la fede porta ad una vita più umana, più serena, più pacifica, piena di gioia; deve provocarci e farci riflettere su quanto siamo distanti, noi cristiani, dal modello divino-umano di Gesù Cristo.

Nel settembre 2002 ho pranzato, nel “Convento della Pace” di Assisi, col superiore provinciale dei francescani conventuali giapponesi, padre Pietro Sonoda, col quale ho avuto una interessante conversazione sul primo annunzio di Cristo in Giappone, reso difficile dalle differenze fra cultura occidentale e cultura giapponese.  

Padre Pietro è vissuto otto anni in Italia, parla bene italiano. Mi dice: “Uno degli ostacoli all’annunzio del Vangelo in Giappone è che il giapponese è un uomo molto concreto, pratico, non ama e non capisce il linguaggio filosofico, astratto, staccato dalla vita. Ma nella Chiesa noi usiamo questo linguaggio: tutto è dogma, verità schematica, belle riflessioni teologiche. In Giappone il Vangelo è uno dei libri più letti, ma appunto perchè il Vangelo racconta fatti e parabole, dà notizie. I documenti della Chiesa, sono basati su ragionamenti non su fatti concreti. Quando vengo in Italia e sento le omelie che i preti fanno alla Messa domenicale, penso: se parlassero così in Giappone, nessuno li ascolterebbe”.

Dico a padre Sonoda che non si preoccupi, forse anche buona parte dei fedeli italiani che vengono in chiesa molto spesso non sentono o non ascoltano o non capiscono quel che il sacerdote dice nella sua omelia. 

Oggi è difficile farsi leggere in libri e giornali, ma è difficilissimo farsi ascoltare dal pulpito. Credo che chi parla in chiesa debba anzitutto preoccuparsi di farsi ascoltare e capire, debba interessare chi ascolta. Se non ti fai leggere – mi diceva Edilio Rusconi – perchè scrivi? Ogni predicatore deve dirsi: se non mi sentono o non mi ascoltano o non mi capiscono, perchè parlo?

Il grande Paolo VI ha una bellissima frase nella “Evangelii nuntiandi” (1975, n. 41): “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni”. Ma se un predicatore si ferma solo all’insegnamento della dottrina e non comunica un’esperienza e non scende alla vita quotidiana, che testimonianza dà in quei pochi minuti?

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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l’Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.

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ZENIT Staff

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