"L'Isis è un'emergenza che va affrontata con decisione, senza ipocrisie e relativismo"

L’ex Vice Comandante della Forza Multinazionale in Iraq traccia un’analisi di quanto sta avvenendo nel Paese, che ritiene essere un effetto dell’intervento americano del 2003. E parla anche dell’atteggiamento del Papa

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Bastò poco più di un mese, nel 2003, all’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush per dichiarare ufficialmente conclusa la Seconda guerra del Golfo. Raggiunto l’obiettivo di aver fatto cadere il dittatore di turno, Saddam Hussein, il Pentagono iniziò una strategia tesa a “normalizzare” l’Iraq che, in teoria, si annunciava rapida e poco dispendiosa dal punto di vista degli uomini e dei mezzi impiegati. Tuttavia, si sa, le previsioni teoriche spesso non coincidono con la realtà. L’intervento della Coalizione multinazionale in Iraq si rivelò un bagno di sangue dal quale non vennero sottratti né i militari della Coalizione né i membri della resistenza fedeli al vecchio regime iracheno né i miliziani islamisti e né, tantomeno, la popolazione civile. Una vera e propria immersione negli abissi dello stallo politico e della violenza dalla quale l’Iraq non solo non riesce più a emergere, ma nella quale rischia di trascinare altri Paesi. Testimone diretto delle trasformazioni avvenute nel Paese mediorientale nel corso degli ultimi undici anni in quanto Vice Comandante della Forza Multinazionale in Iraq, il generale degli Alpini Giovanni Marizza è una delle voci più competenti che possano esprimersi in merito a ciò che sta accadendo oggi.

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Gen. Marizza, cos’è cambiato in Iraq dalla primavera del 2006, periodo in cui si concludeva il suo diario raccolto nel libro L’Iraq dalla A alla Z (ed. Albatros), ad oggi?

È cambiato tutto. Gli Sciiti, oppressi ai tempi di Saddam Hussein, si sono consolidati al potere rafforzando i legami con Teheran. I Sunniti, privilegiati dal vecchio regime e oggi all’opposizione armata clandestina, hanno costituito gruppi armati legati al terrorismo internazionale. I Curdi hanno consolidato al nord un’entità autonoma de facto separata da Baghdad. E l’America di Obama ha deciso con faciloneria di disimpegnarsi prima che l’esercito iracheno fosse in grado di fronteggiare una seria minaccia interna o esterna.

Ritiene che l’intervento armato del 2003 possa aver contribuito a generare una situazione di instabilità nel Paese che ha favorito l’emergere di gruppi terroristi?

Certamente. È evidente che l’intervento del 2003 (peraltro basato su un casus belli falso come quello delle presunte ma inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam) non doveva essere fatto. Ma più che l’intervento armato, è stata la fallimentare amministrazione civile di Lewis P. Bremer (capo dell’Autorità provvisoria in Iraq, soprannominata Cannot Provide Anything) a commettere errori imperdonabili ed irreversibili, come lo scioglimento dell’esercito iracheno. Dopo che George W. Bush ha commesso il peggiore degli errori (l’intervento), Barak Obama ha tentato di rimediare attuando il peggiore degli sbagli: quello di scappare dall’Iraq. I terroristi lo stanno ancora ringraziando.

Ci sono stati, a Suo avviso, errori di valutazione da parte della Forza Multinazionale in Iraq, di cui Lei è stato Vice Comandante, che potrebbero essere in qualche modo ricollegabili alla grave crisi che il Paese sta affrontando oggi?

No. Chi commette gli errori sono i governi, non i militari. I militari eseguono gli ordini politici e strategici emanati dai loro governi e dai loro parlamenti e li traducono in azioni operative e tattiche. Sostenere il contrario sarebbe come affermare che Usa e Urss sono stati sconfitti in Vietnam e in Afghanistan per colpa delle loro forze armate, mentre invece gli errori politici, strategici e diplomatici di quelle sconfitte vanno attribuiti rispettivamente agli inquilini della Casa Bianca e del Cremlino di allora.

Come si è arrivati al rafforzamento così imponente di un gruppo, qual è quello che ha proclamato lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante? Pochi mesi fa la maggior parte degli occidentali non ne conosceva neanche l’esistenza…

Gli occidentali, e gli italiani in primis, sono troppo impegnati a seguire il Grande Fratello, l’Isola dei Famosi, i campionati di calcio o le inutili secchiate di acqua fredda per fare caso alle cose serie che avvengono nel mondo. Il rafforzamento dell’Isis è avvenuto attingendo ai canali del traffico internazionale di armi e ad ingenti finanziamenti.

Può spiegare meglio?

Circa i finanziamenti e gli approvvigionamenti, una parte non trascurabile arriva proprio dall’Italia, l’unico Paese occidentale che non esita a pagare qualsiasi cifra ai terroristi per il riscatto di connazionali rapiti (siano essi sprovveduti, conniventi o entrambe le cose). Ma oltre a questo, azzardo un ipotetico scenario. Un facoltoso capo di Stato mediorientale utilizza gli immensi proventi del petrolio per finanziare le rivolte nei Paesi arabi, quelle che gli occidentali creduloni hanno subito battezzato “primavere arabe” osannandole e scambiandole per anelito di democrazia. Una volta rovesciati i vari Ben Alì, Gheddafi, Mubarak e Assad (dittatori feroci sì, ma garanzie contro il terrorismo islamico) e insediati al loro posto regimi islamisti, si crea un unico califfato sul quale colui che ha elargito i finanziamenti pretenderà la leadership. Bisognerebbe chiedere allo sceicco del Qatar se ne sa qualcosa e se si riconosce in questo ipotetico ma non inverosimile scenario.

Si parla con insistenza dei “foreign fighters”, giovani musulmani occidentali che partecipano alla jihad nelle aree di conflitto. È di stamattina l’allarme del Ministero dell’Interno italiano in merito. In che misura ritiene preoccupante questo fenomeno?

Il fenomeno è estremamente preoccupante, anche perché può venire ingigantito da casi di emulazione da parte di giovani moralmente sbandati e privi di ideali, alla ricerca di nuove emozioni e di facili avventure.

A Suo avviso in che modo può esser sconfitto l’Isis? Come valuta l’atteggiamento assunto dal governo statunitense e quello del Parlamento italiano (di inviare armi ai peshmerga curdi)?

Giunti a questo punto, può essere sconfitto soltanto con un’azione internazionale decisa e forte, dimenticando qualsiasi buonismo o relativismo. Circa i palliativi adottati da Usa e Italia: troppo poco e troppo tardi. Si tratta di provvedimenti limitati, tardivi e ipocriti che tentano di rispondere all’esigenza pilatesca di trovare qualcuno che faccia il lavoro sporco in vece nostra. L’emergenza è così vasta e seria che dovrebbe essere affrontata non dai singoli Paesi (che danno necessariamente risposte parziali e contraddittorie) bensì da parte delle Organizzazioni internazionali. Solo lì si potrà tenere in debito conto, ad esempio, anche le sensibilità di Ankara, dove le forniture di armamenti ai Curdi non vengono viste con entusiasmo.

Come vanno interpretate secondo Lei le seguenti parole del Papa:  “In questi casi, dove c’è una aggressione ingiusta, soltanto posso dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra: fermarlo”?

Parole sante, quelle di Francesco, in linea con i suoi due predecessori che più volte si sono dichiarati favorevoli a “fermare” gli aggressori. Ma papa Bergoglio non ha specificato “come” l’aggressore ingiusto andrebbe fermato. Escludendo “bombardare e fare la guerra” rimangono due opzioni: l’interposizione armata o fare come fece papa Leone I quando fermò Attila presso Mantova nel lontano 452. Ma l’interposizione armata comporta la legittimazione dell’aggressore ingiusto e un gesto “alla Leone I” non dà sufficienti garanzie di riuscita in un mondo come quello odierno. Ma forse papa Francesco ha in mente un’opzione nuova, che Egli solo conosce…

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Federico Cenci

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