L'incontro con gli alieni un castigo di Dio?

La scienza ha bisogno di integrarsi con altre forme di esperienza, “in primis” con quella religiosa

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di Antonio Scacco

ROMA, sabato, 7 luglio 2012 (ZENIT.org).- È noto come nella nostra società, sotto l’influsso di dottrine scientiste (darwinismo) e materialiste (marxismo: “la religione è l’oppio dei popoli”), Dio sia stato progressivamente espulso dalla realtà della storia e dal mondo della natura. Un tempo non si aveva difficoltà a vedere in Dio l’artefice dei fenomeni naturali, a riconoscere in Lui «l’Amor che move il sole e le altre stelle». Quando poi i segreti della natura cominciarono ad essere svelati scientificamente e non più in base ad un intervento diretto e immediato di Dio, quest’ultimo sembrò diventare superfluo. Infine, con l’avvento della società industriale e mercantile, l’uomo, avendo acquisito, come scrive Erich Fromm, «la capacità tecnica di una ‘creazione seconda’ del mondo, sostitutiva della prima creazione a opera del dio della religione tradizionale» (Avere o essere?, p200), fa di sé stesso un dio. Ma è un “dio insano”, anzi pagano, dal momento che la sua etica non è quella dell’essere, del dare, del condividere secondo l’insegnamento del Cristo, bensì quella della vittoria, della conquista, della distruzione, della rapina.

Tuttavia, la cecità umana è tale che non si ammetterà mai che certi mali storici (guerre, rivoluzioni, carestie…) dipendono esclusivamente dall’assommarsi di un’infinità di peccati piccoli e grandi, e si persisterà nella convinzione che così era scritto nel libro del destino, oppure che Dio ha abbandonato il suo popolo. Tesi, quest’ultima, sviluppata sottilmente e subdolamente, a nostro parere, dallo scrittore di fantascienza Lester Del Rey nel suo racconto Non avrai altro popolo (For I am a Jealous People!, 1973).

La Terra è stata invasa dai Mikhtchah, alieni provenienti da una lontana Galassia, ma il reverendo Amos Strong, un pastore evangelico protagonista della vicenda narrata, anche se provato per la morte del figlio, ha fede nell’aiuto di Dio e con i suoi sermoni allevia ai fedeli la tristezza del momento: «Cominciò pacatamente, assaporando la propria voce che leniva e confortava l’incertezza dei fedeli. Dio aveva promesso all’uomo la Terra e un patto eterno. Perché allora gli uomini dovevano temere o perdere la fede? Per il fatto che uno sciame di mostri era sceso dalle stelle per metterli alla prova? Come ai tempi della schiavitù in Egitto o della cattività a Babilonia, ci sarebbero state sempre prove e momenti durante i quali i tiepidi di cuore avrebbero vacillato, ma l’esito finale era stato promesso a chiare lettere» (pp.118-119).

In un primo momento, il reverendo Amos non ha difficoltà ad attribuire agli invasori la qualità di creature di Dio, anche perché il loro aspetto fisico non si differenzia di molto da quello degli uomini. Ma poi le atrocità, le torture, gli atti brutali che essi commettono e che non sembrano compatibili con l’alto grado di civiltà raggiunto, come dimostrano le loro astronavi, lo inducono a pensare che si tratti di creature del male, escluse dal regno di Dio: «Proprio mentre passava il grosso della formazione nemica, si spalancò la porta di una casa e un omino uscì di corsa trascinandosi dietro la moglie grassa e il figlio ancor più grasso. Subito echeggiarono degli spari, e tutti e tre sobbalzarono, ma continuarono a correre. Dapprima Amos pensò che gli invasori avessero sbagliato mira, ma poi capì che la loro tattica era ben crudele: si divertivano a colpire a poco a poco, prima le mani, poi le braccia, poi il resto, per non perdere l’occasione di torturare a fondo le vittime» (p.135.).

Gli avvenimenti si fanno più incalzanti: la moglie di Amos muore sotto le raffiche degli invasori, la chiesa dove il reverendo per tanti anni ha radunato la folla dei fedeli è devastata dalle cannonate, lui stesso è fatto prigioniero, ma riesce a fuggire. Durante la fuga, entra in una chiesa e con sorpresa vede che davanti al vecchio altare, depredato e demolito, sorge un cumulo di terra, sulla cui sommità i Mikhtchah hanno deposto una cassetta di legno, e in mezzo alla navata stanno inginocchiati due preti alieni con indosso complicati paraventi. Mentre assiste disorientato alla scena, dalla luce che splende dietro un velo al di sopra della cassa, gli giunge un messaggio sconvolgente: «Nel suo cervello prese a pulsare un pensiero che si tramutò in parole: “IO SONO COLUI CHE SONO, colui che li liberò dalla schiavitù in Egitto e che scrisse sulla parete davanti a Baldassarre MENE MENE TEKEL UPHARSIN, come sarà scritto ovunque sulla Terra da questo giorno in avanti. Perché Io ho detto alla discendenza di Mikhtchah tu sei il mio popolo eletto e Io ti esalterò sopra tutte le razze sotto il cielo! (p.143).

A questo punto, la vicenda abbandona il solco della tradizione biblica, il cliché cioè del popolo che, accortosi di aver offeso Dio, fa penitenza e alla fine ottiene il perdono. E il reverendo Amos non è punto disposto a cospargersi di cenere il capo o a indossare gli abiti del Mosé redivivo. Anzi, la constatazione dell’abbandono di Dio gli offre l’opportunità di mettere allo scoperto la religione ‘segreta’ che l’uomo contemporaneo cela dietro la facciata dell’agnosticismo o del devozionismo, l’orgogliosa convinzione cioè di essere, col sostegno della scienza e della tecnica, simile a Dio, contro cui può lottare alla pari: «– Sono tornato dalla cattività presso gli invasori – incominciò. – Ho visto le orde il cui unico intento era quello di cancellare la memoria dell’uomo dalla polvere della terra che lo generò. Mi sono soffermato dinanzi all’altare del loro Dio. Ho udito la voce di Dio proclamare che egli è anche il nostro Dio, e che ci ha respinti. E io gli credetti, così come gli credo ora […]. 
– Dio ha denunciato l’antico patto e si è dichiarato nemico dell’umanità – disse, e la chiesa risuonava al rombo della sua voce. – E io vi dico che egli ha trovato un valido antagonista» (pp.159-160).

In realtà, dietro la decantata potenza della ‘ragione strumentale’, dietro l’efficientismo dei managers, si cela uno spaventoso abisso d’impotenza, una totale incapacità di pensare in modo autonomo e originale. La riprova sta davanti agli occhi di tutti: ogni giorno che passa, problemi su problemi (inquinamento, sottosviluppo, droga, Aids, ecc.) rendono sempre più indigesto il nostro pane quotidiano, né si profilano all’orizzonte soluzioni degne di tal nome. All’alba del terzo millennio, l’uomo non riesce ancora a capire che la sua debolezza deriva proprio dallo strumento che gli ha messo in mano uno sconfinato potere: la scienza. Questa, infatti, non contiene né indicazioni di fini, né giudizi di valore. Ha perciò bisogno di integrarsi con altre forme di esperienza, in primis con quella religiosa.

Scrive giustamente padre Ildebrando A. Santangelo: «Per circa 20 anni, dopo i primi sguardi nel mondo delle scienze, si erano frettolosamente tratte delle conclusioni filosofiche sull’inesistenza di Dio; il mondo occidentale si era applicato a cacciare Dio dalla porta delle sue Università di lettere e di arti liberali. […] L’insieme dei rapporti fatti dagli uomini di scienza riuniti a Dallas fa vedere la convergenza più evidente tra i dati delle loro scienze e quelli della fede. Le realtà profane e le realtà della fede non possono mai venire in contrasto né lo sono mai venute, perché hanno entrambe origine dallo stesso Dio. Ogni visione di contrasti è frutto di ignoranza(Il senso dell’esistenza, pp.60-61).

La felicità, si sa, non è di questo mondo. Ma se l’uomo vuole rendere la sua condizione più vivibile, non è certo la strada dell’egocentrismo avido e distruttore quella che deve percorrere. Il Dio che ha creato l’uomo non è il Dio Solitario di cui si parla nei trattati filosofici, ma il Dio formato da tre Persone che si pensano e si amano: la grandezza di Dio è l’Amore. Tutte le cose sono in Dio nella misura in cui sono Amore: è l’Amore per Dio e per i propri simi
li l’unica strada che l’uomo può degnamente percorrere verso “cieli nuovi e terra nuova”.

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ZENIT Staff

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