L'Incarnazione di Dio e l'umanizzazione dell'uomo

Meditazione teologica sul Natale e sul mistero del Dio “diventato carne” (Prima puntata)

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«Dio divinizza solo ciò che l’uomo ha umanizzato», così amava ripetere il grande gesuita François Varillon riecheggiando la sensibilità profetico teologica del poeta Charles Péguy. L’edificio della vita spirituale non può ergersi sulle macerie dell’umano, e l’Incarnazione di Dio è il migliore monito e memento che spinge a vivere l’umanizzazione autentica come via verso la divinizzazione.

Degli effetti infiniti dell’Incarnazione vogliamo considerare tre aspetti fondamentali: la trasformazione dell’immagine di Dio, la rivalutazione della corporeità e la comprensione della verità dell’umano.

La trasformazione dell’immagine di Dio

Varillon insegnava che l’affermazione «Dio è amore» (1Gv 4,8.16) viene compresa rettamente e nella sua profondità strabiliante quando capiamo che «Dio non è altro che amore». Il teologo soleva rivolgere ai suoi ascoltatori queste domande: Dio è onnipotente? Dio è sapiente? Dio è infinito? E la risposta dopo ogni domanda era: No, Dio è solo amore!

La suo provocazione intendeva portare le persone a riflettere sul fatto che l’onnipotenza di Dio non è l’onnipotenza di un dittatore crudele nel suo strapotere. L’onnipotenza di Dio è solo l’onnipotenza dell’amore. Così anche la sapienza di Dio non è l’acribia di un furbo, di un «genio maligno» per riecheggiare le Meditationes di Descartes. E l’infinito di Dio non è da comprendersi come uno spazio interminabile e noioso come le traversate interminabili di un deserto. La sapienza di Dio è sapienza dell’amore e l’infinito di Dio è solo l’infinito del suo amore senza limiti.

Da qui la conclusione del teologo che verrà ripresa anche da Yves-Marie Congar: «L’amore non è tanto un attributo di Dio, quanto gli attributi di Dio sono attributi dell’amore». Niente come il mistero dell’Incarnazione, della kenosi divina nella carne di Cristo, mostra quanto sono vere queste conclusioni. Dio si è fatto uomo, si è fatto vicino, si è fatto povertà per amore.

La rivalutazione della corporeità

Pare che viviamo in un’epoca che abbia finalmente riscoperto il valore del corpo. Dopo epoche di rifiuto e marginalizzazione frutto di un dualismo platonico tra anima-buona e corpo-prigione-cattivo, il corpo sembra aver riacquisito il suo legittimo posto. Ma è veramente così?

Tanti osservatori attenti non sono d’accordo. Il filosofo Xavier Lacroix, ad esempio, ci fa riflettere sulla natura del corpo che è stato recuperato e ci mostra che è un corpo irreale, a-corporale. Un chiaro esempio è il mondo pubblicitario: ci troviamo dinanzi a corpi senza età, senza peso, leggeri e leggiadri da non somigliare a niente di ciò che incontriamo negli umani e in noi stessi. Sono corpi non vissuti, vitali ma senza segni di vita e per questo senza vita.

Non ci si deve meravigliare allora per la tante malattie esplose riguardo al corpo (anoressia, depressione, insoddisfazione, ecc.). I corpo forgiati dal Photoshop non sono una valorizzazione del corpo, sono un’astrazione che non ha niente da invidiare – in negativo – al disprezzo di un Plotino che si vergognava di avere un corpo, o al Ubermensch di Nietzsche che viene ideato sullo sfondo di una delusione dall’umano.

L’incarnazione di Cristo focalizza l’attenzione sulla vera corporeità, una corporeità che cresce (Lc 2,52), che vive, che si stanca (Gv 4,6), una corporeità inserita in una storia. L’incarnazione invita a un cambio di rotta: se Dio non si è vergognato di questo corpo, allora è un bene, è una realtà positiva. Il tob (bello/buono) del Creatore in Genesi 1, riecheggia attraverso la vita della Parola. La kaloagathìa, la bella bontà della creazione ha ormai il sigillo della carne di Gesù Cristo. La dice in modo bellissimo papa Francesco nell’esortazione Evangelii Gaudium: «Confessare che il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne umana significa che ogni persona umana è stata elevata al cuore stesso di Dio» (n. 178). In toni simili la Gaudium et Spes affermava: «Con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (n. 22).

Il corpo viene valorizzato pienamente come luogo di culto privilegiato, dove il Padre viene adorato in Spirito e Verità. L’incarnazione manifesta la dignità della corporeità: «O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?» (1Cor 6,19). Guardando al «Verbo che si è fatto carne» (Gv 1,14) la fede ci dice: è bene essere umano, avere un corpo ed essere un corpo. È bene essere un canto di lode: «Mi hai fatto come un prodigio» (Sal 138,14).

La verità dell’umano

Il beato Giovanni Paolo II ripeteva sovente un’espressione forte della Gaudium et spes: «Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (n. 41). È un pensiero di grande portata antropologica e teologica. Commentando questa frase, Mons. Luis Ladaria, Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede, sottolinea le due sfumature di «hominem perfectum»: Cristo è vero uomo (come recitiamo nel Credo) e Cristo è la perfezione dell’umano. In altre parole, chi vuole vivere in pienezza (cf. Gv 10,10) ha in Cristo il modello perfetto di umanizzazione. Il Vangelo, che è Cristo, non indica solo la via per il Cielo, ma indica e incarna la vita vera da vivere già su questa terra. E proprio indicando la via per essere «magis homo» appiana la via del Cielo.

L’umanizzazione non è il traguardo finale della parabola cristica e cristiana, ma è sicuramente un elemento costitutivo e imprescindibile. E il metro dell’umanizzazione è il Cristo stesso: vero uomo e vero Dio. Da qui si rivela la profonda ricchezza il poema di Lambert Noben «Pourquoi je suis né»:

«Sono nato nudo, dice Dio,
Affinché tu sappia spogliarti di te stesso.

Sono nato povero,
Affinché tu possa considerarmi l’unica ricchezza.

Sono nato in una stalla,
Affinché tu impari a santificare ogni ambiente.

Sono nato debole
Affinché tu non abbia mai paura di me.

Sono nato per amore,
Affinché tu non dubiti mai del mio amore.

Sono nato di notte,
Affinché tu creda che posso illuminare qualsiasi realtà.

Sono nato persona,
Affinché tu non abbia mai a vergognarti di essere te stesso.

Sono nato uomo,
Affinché tu possa essere “dio”.

Sono nato perseguitato,
Affinché tu sappia accettare le difficoltà.

Sono nato nella semplicità,
Affinché tu smetta di essere complicato.

Sono nato nella tua vita, dice Dio,
Per portare tutti alla casa del Padre».

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Robert Cheaib

Docente di teologia presso varie università tra cui la Pontificia Università Gregoriana e l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Svolge attività di conferenziere su varie tematiche che riguardano principalmente la pratica della preghiera, la mistica, l’ateismo, il rapporto tra fede e cultura e la vita di coppia. Gestisce un sito di divulgazione teologica www.theologhia.com. Tra le sue opere recenti: Un Dio umano. Primi passi nella fede cristiana (Edizioni san Paolo 2013); Alla presenza di Dio. Per una spiritualità incarnata (Il pozzo di Giacobbe 2015); Rahamim. Nelle viscere di Dio. Briciole di una teologia della misericordia (Tau Editrice 2015); Il gioco dell'amore. 10 passi verso la felicità di coppia (Tau Editrice 2016); Oltre la morte di Dio. La fede alla prova del dubbio (San Paolo 2017).

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