Fresco's by Goya

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L’eremo di sant’Antonio della Florida a Madrid

Il pantheon di Goya e della sua pittura sacra

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Le chiese di Madrid, per quanto danneggiate e saccheggiate durante alcuni periodi storici, vedi l’invasione delle truppe napoleoniche o la guerra civile, non sempre benevoli verso l’arte cristiana, custodiscono autentici scrigni d’arte e notevoli capolavori. Nonostante l’aspetto piuttosto sobrio dell’esterno l’eremo di San Antonio de la Florida conserva al suo interno uno dei più bei cicli di affreschi della storia dell’arte, opera di Francisco Goya.

Un primo eremo dedicato a Sant’Antonio da Padova fu costruito nel 1720; dopo distruzioni e ricostruzioni Carlo IV ordina la fondazione di un nuovo tempio in una zona relativamente rustica, poco fuori dal centro, chiamata La Florida, di fronte alla fontana del Abanico. Il progetto è affidato all’architetto Francisco de la Fontana che tra 1792 e 1798 realizza un piccolo ma armonico edifico a croce greca sulla quale imposta una snella cupola con lanterna. I bracci corti della croce conferiscono un forte slancio alla cupola fondata su una spessa tribuna mentre stanze addossate all’esterno assegnano all’intero complesso la forma del rettangolo. Goya decora l’interno nel 1798 ben consapevole di star lavorando in uno dei templi più popolari di Madrid, celebre per la festa che vi viene organizzata ogni 13 di giugno. Le pale invece sono state dipinte in epoca successiva da Jacinto Gómez Pastor. Data la costante preoccupazione delle autorità per la buona conservazione dell’edificio, nel 1905 l’eremo viene dichiarato Monumento nazionale e nel 1928 si decide di costruire accanto un tempio gemello da dedicare al culto, trasformando l’originale nel mausoleo di Goya, traslato nella chiesa nel 1919. La chiesa, sospeso il culto, è custodita dalla Reale Accademia di Belle Arti di San Ferdinando. Per quanto l’edificio stesso sia uno dei migliori esempi di stile neoclassico a Madrid, sono gli affreschi di Goya a rendere l’eremo una meta imprescindibile da visitare.

Goya, pittore di corte, decora l’interno, cupola, abside e transetti, in soli sei mesi, dall’agosto al dicembre del 1798, aiutato dall’allievo Asensio Julià. L’opera, capolavoro assoluto e vertice della sua pittura muraria, non risente delle angosce e dei tormenti interiori che si scateneranno da lì a pochi anni, né tantomeno trasmette quel senso di isolamento e tormento che l’artista doveva provare dopo essere diventato completamente sordo nel 1792. Ci troviamo di fronte, invece, ad una pittura visionaria e onirica, non legata ai moduli barocchi basati sulla quadratura bensì libera e fantasiosa. Un confronto immediato si può avere con gli affreschi della chiesa di San Antonio de los Alemanes, fondata nel 1602 e decorata agli inizi del Settecento da Juan Carreño de Miranda e Francisco Rizi. La monumentalità e magnificenza delle pitture che decorano ogni superfice dell’interno il quale, a buona ragione, è definito la “Cappella Sistina di Madrid” e di certo è tra i più suggestivi della città, sviluppano una visione dispersiva e immaginifica, col vortice cromatico dell’apoteosi del santo risucchiato in una cupola ellittica che lascia al fruitore pochi punti di riferimento, catturato dall’elevazione mistica. Goya opta invece per la trasfigurazione delle forme in virtù della luminosità e del colore e per una chiarezza di luci, chiaroscuri e mezzi toni che sono un vero capolavoro di accordi cromatici e percettivi.

La cupola è dominata dalla scena che rappresenta Sant’Antonio davanti al popolo di Lisbona mentre resuscita un morto. L’episodio si riferisce ad un evento miracoloso della vita del santo: il padre di Antonio, Martino, fu accusato di assassinio e imprigionato perché il corpo di un ragazzo era stato trovato nel suo giardino. Questo accadde a Lisbona mentre Antonio era a Padova, per cui seppe del fatto per ispirazione divina. Di sera, chiesto il permesso al guardiano, uscì dal convento. Mentre camminava nella notte, con divino prodigio fu trasportato da un angelo fino alla città di Lisbona. Là comandò al morto di dire se suo padre fosse colpevole. Il morto si alzò, rese testimonianza dell’innocenza di Martino e di tutta la sua famiglia, poi si rimise giù e si riaddormentò cosicché Martino fu rimesso in libertà. Goya risolve la scena principale, che non inserisce nell’abside come di prassi, impostando tutte le figure sulla base della cupola, protette da una ringhiera, lasciando così il centro occupato dalla chiarità del cielo e dallo sfumare dei monti in lontananza, con un paesaggio che, quasi come visto attraverso una lente, sembra collassare verso l’interno col riuscito effetto prospettico di un’immaginaria iride. Per giungere a questo risultato immateriale l’artista elimina gli angeli festanti nel cielo già previsti in un precedente bozzetto. Il santo, trasfigurato e ascetico su una roccia, sta comandando al morto di alzarsi mentre intorno vi è un assembramento di figure. Il giovane resuscitato, previsto in un primo momento su un sudario bianco appoggiato sulla balaustra, è ora sopra una seggiola mentre altri malati sembrano impetrare grazie. Intorno il popolo di Lisbona (ma il realtà il coevo popolo madrileno) offre a Goya la possibilità di raffigurare volti ed espressioni, di lavorare sulla caricatura, di accentuare tratti fisiognomici o espressioni particolari presentando una variegata umanità in dialogo o scontro con la grazia del santo. Deliziosi putti infantili, raffigurati mentre giocano con tendaggi e panni, decorano invece i quattro pennacchi.

Il resto della decorazione, gli archi dei transetti, le lunette e l’abside, invece, vede un trionfo di figure angeliche festanti in un tripudio di stoffe e di colori. La tensione ascetica e l’accentuazione espressionista delle figure della cupola cede il posto alla grazia immateriale della visione celeste che trova fiamma e sostanza intorno alla scultura della Santissima Trinità, sulla cima dell’altare nell’abside, dove la luce dorata del Paradiso si riverbera sulle espressioni gaudenti delle figure. E’, invero, una delle più sentite glorificazioni della Trinità, per la forza espressiva dei gesti, la vaporosità degli angeli, la continua osmosi tra luce, colore e materia satura che trasfigura la sostanza e rende i corpi autentica preghiera. Gli angeli degli archi e delle lunette, invece, hanno consistenza più terrena nello svolazzare di vesti e panneggi contemporanei, nelle ali variopinte come di farfalle o uccelli e nei tessuti carichi di bizzarri sbuffi di colore dato a tocchi e in maniera veloce, tanto che è come se vi fosse sempre un’aria colorata di pastello, estremamente dolce e soave, che faccia da filtro tra lo spettatore e le immagini. E’ in fondo questo il miracolo che Goya è riuscito a creare in tali affreschi. Una pittura di puro colore, rapida e accesa da tocchi impressionisti, leggerissima nelle sfumature date a secco che accentuano le armonie cromatiche e rendono evanescenti le forme. La mano è sicura e sapiente ma nella concitazione dell’adorazione, nel tripudio di forme angeliche, la consistenza si perde in virtù di una naturalezza leggera e libera. Magico è il trattamento dell’intonaco che contiene puro colore tra lo sfavillio dei drappi, l’oro dell’abside, le luci che accendono le figure da invisibili scaturigini e le fanno tremare di carica elettrica. La liberissima mano di Goya, molto più che nelle terribili e opprimenti pitture a secco della Quinta del Sordo, mostra assoluta padronanza del colore e della forma, e di una tecnica a fresco che sembra rinnovare completamente il genere per quella capacità di tirar fuori sogni (e non già incubi). Sentita è la volontà di documentare tanto al gente di Madrid, nella cupola, quanto la grazia della bellezza ma quella pittura fluida e veloce tanto si perde nell’abbigliare con morbide tuniche bianche ornate di balze colorate e ricamate le giovani tanto concorre, per volontà della luce naturale o spirituale, a dissolvere i tratti in una chiarità misteriosa e sacra, incantata e sospesa. Si intu
iscono nascosti riferimenti, ricordi del Correggio e della Parma conosciuta negli anni giovanili, il Parmigianino delle Vergini Savie cariche di bagliori spirituali, la materia cromatica di Giaquinto, ma nel complesso l’opera dimostra un’originalità devastante e una bellezza struggente fatta di luce e colore.

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Tommaso Evangelista

Tommaso Evangelista è Storico dell’arte

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