L'equilibrio del rapporto medico-paziente scongiura l'eutanasia

“Scienza & Vita” riflette su fine vita e autodeterminazione

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di Roberta Sciamplicotti

ROMA, martedì, 1° marzo 2011 (ZENIT.org).- Un corretto rapporto tra medico e paziente scongiura l’eventualità e il rischio dell’eutanasia, sostiene il professor Luciano Eusebi, Ordinario di Diritto Penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Consigliere nazionale dell’Associazione Scienza & Vita.

Nell’ultima newsletter dell’Associazione, il professor Eusebi ricorda che “ciò che il medico offre al malato non è soltanto un insieme di abilità applicabili sul suo corpo, ma il rapporto con una disciplina, quella medica, che è portatrice di criteriologie complesse d’intervento, elaborate sia sul piano dell’appropriatezza clinica, sia sul piano della ponderazione tra rischi e benefici, sia sul piano etico”.

Una medicina intesa come “arsenale di strumenti dei quali il malato possa disporre a sua discrezione” avvalora il ruolo del malato “solo in apparenza”, sottolinea Eusebi, indicando che in realtà “lo priva della dimensione relazionale col medico (rendendo impossibile l’alleanza terapeutica) e, dunque, del bagaglio di esperienza, non solo tecnica, che la medicina costantemente matura”.

L’effetto è “un impoverimento”, perché “nessun malato potrà supplire alla ricchezza di elementi valutativi che la competenza medica può fornire”.

Eusebi ricorda quindi che “come il malato non è solo un corpo e, dunque, non è l’oggetto passivo degli atti di una figura professionale che sul corpo abbia potere”, “così il medico non è solo un esecutore di richieste provenienti da chi desideri certi effetti”.

Il medico, osserva, “non può attivare terapie sul corpo di un dato individuo senza interagire, di regola, con la persona che attraverso quel corpo si esprime”, e non gli si può “chiedere qualsiasi cosa, né con riguardo alle condotte attive, né con riguardo alle condotte omissive”.

In particolare, “non gli si può chiedere di agire per fini che siano diversi da quelli che gli assegna in via esclusiva il codice deontologico, cioè la tutela della vita e della salute e il lenimento della sofferenza”.

Non si può dunque chiedere al medico “di agire per la morte del paziente”, come accadrebbe nel caso in cui “si esigesse di interrompere o disattivare un presidio terapeutico in atto, privando il medico stesso di qualsiasi valutazione sul contesto in cui quel presidio risulti praticato”, o se – con una dichiarazione anticipata di trattamento relativa al caso in cui il malato venga a trovarsi in uno stato di incapacità – “si prescrivesse al medico di stabilire sì una relazione col dichiarante, ma rinunciando a priori a certi presidi terapeutici”.

In questi casi, conclude Eusebi, si tratterebbe di “eutanasia nella forma passiva”, che “non rappresenta per nulla qualcosa di meno dell’eutanasia tout court, in quanto nelle situazioni di precarietà esistenziale è sempre possibile far sì che la morte si produca privando il malato di qualcosa, piuttosto che intervenendo con atti idonei a cagionare il decesso”.

Dal canto suo Laura Palazzani, Ordinario di Filosofia del Diritto presso la Libera Università Maria SS.ma Assunta (LUMSA) di Roma, Vicepresidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, si sofferma sulla questione dell’“autodeterminazione”, termine che fa riferimento alla libertà quale “capacità di un soggetto di scegliere tra atti alternativi in una stessa situazione”.

Spesso, sottolinea, al giorno d’oggi la libertà viene intesa come elemento che “non solo sceglie i modi di vivere da accettare o da rifiutare ma considera la vita stessa oggetto di scelta, in quanto il soggetto è considerato l’unica fonte di senso delle proprie decisioni”.

Nell’ambito delle questioni relative alla vita e alla morte, alla salute e alla malattia, questa visione della libertà radicale “si appella al diritto della ‘privatezza’ delle scelte individuali ponendosi come assolutamente vincolante, considerando l’altro un mero esecutore passivo, acritico, meccanico”.

Per la Palazzani, è nell’ambito dell’antropologia relazionale che si comprende “il senso autentico della ‘autonomia’, che non va confusa superficialmente con la autodeterminazione: l’autonomia non è arbitrio della decisione, ma è scelta razionale, consapevole, competente nel riconoscimento del bene oggettivosoggettivo della vita e della salute”.

Riconoscere l’altro come limite alla propria libertà significa allora “non danneggiare l’altro”, ossia non interferire con l’altrui libertà, ma anche e soprattutto “rispettare, ontologicamente, anche chi non è in grado di esercitare la propria libertà, a causa della immaturità di sviluppo, del decadimento fisico, di patologie permanenti e transitorie”.

Nella newsletter si riporta anche un documento, condiviso e approvato dall’Associazione Scienza & Vita, curato dai Consiglieri nazionali Massimo Gandolfini, Direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Primario Neurochirurgo presso la Fondazione Poliambulanza di Brescia, e Gian Luigi Gigli, Direttore della Clinica Neurologica dell’Università di Udine.

Nel testo si ricorda che il 9 febbraio, ricorrenza della morte di Eluana Englaro, si è celebrata la prima Giornata Nazionale dedicata agli Stati Vegetativi, per sollecitare nell’opinione pubblica un’attenzione particolare per quanti versano in questa condizione clinica, in Italia circa 2.500.

Il documento ricorda la differenza tra il coma, “stato di abolizione della coscienza e delle funzioni somatiche (corporee)”, e lo stato vegetativo (SV), in cui sono presenti le due componenti essenziali della coscienza, ovvero vigilanza e consapevolezza.

C’è poi un quadro clinico intermedio, definito “Stato di Minima Coscienza” (SMC), in cui il paziente è in grado di esprimere una limitata consapevolezza di sé e dell’ambiente.

Nello stato di SV il versante comunicativo della percezione è bloccato, ma non si può dire nulla della “percezione interna” del paziente.

La mancanza di sicurezza assoluta circa la “non percezione” “fonda il dovere clinico e deontologico della somministrazione della terapia” contro il dolore, ricorda Scienza & Vita.

“Due sono le necessarie conseguenze cliniche”, conclude: “acquisire un atteggiamento di massima attenzione e rigore nella valutazione diagnostica al letto del paziente, che richiede una ricognizione ed un aggiornamento plurigiornaliero e continuo”, e “assumere sempre un atteggiamento di cura ‘attivo’ nei confronti di queste persone, rifuggendo derive di rassegnazione o, peggio, di abbandono, fino ad invocare azioni eutanasiche”.

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ZENIT Staff

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