L'epigrafia racconta la prima comunità cristiana di Roma (Seconda parte)

Intervista con il professor Danilo Mazzoleni, rettore del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana

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Pubblichiamo oggi la seconda e ultima parte dell’intervista con il professor Danilo Mazzoleni, rettore del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, docente di Archeologia cristiana presso l’Università degli Studi “Roma Tre” e esperto di epigrafia cristiana. La prima parte è stata pubblicata ieri, sabato 11 ottobre 2014.

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Le iscrizioni offrono anche informazioni sull’organizzazione della prima Chiesa di Roma?

Prof. Danilo Mazzoleni: Riferimenti ai diversi gradi della gerarchia ecclesiastica si diffondono soprattutto a partire dal IV secolo, anche se alcune cariche sono attestate già dal secolo precedente. I papi dapprima erano indicati come episcopi, mentre solo a partire dal primo decennio del IV secolo comincia a comparire il termine di papa, che però non si diffonde subito uniformemente. Lo stesso papa Damaso nei suoi celebri epigrammi spesso si definisce ancora come episcopus. Se abbondano i presbyteri, non mancano, però, esponenti di tutti gli altri gradi, dai diaconi agli ostiari, che costituivano il primo livello del clero. Per alcuni ecclesiastici romani viene indicato anche il titulus, ossia la struttura ecclesiastica in cui erano incardinati (secoli più tardi si sarebbe parlato di parrocchie). Così, ad esempio, si precisa che un presbitero sepolto nel cimitero di s. Valentino (di cui è perduto il nome) apparteneva al titulus Lucinae, ossia a s. Lorenzo in Lucina.

Scendendo nella Cripta dei Papi nelle Catacombe di San Callisto, colpisce il fatto che sulle lapidi di alcuni Vescovi di Roma è stata aggiunta l’abbreviazione di “martire”. I primi cristiani avevano uno spiccato senso di chi era (o non era) un martire?

Prof. Danilo Mazzoleni: Il culto dei martiri comincia a manifestarsi e ad organizzarsi intorno alla metà del III secolo, in coincidenza con la prima grande persecuzione dell’imperatore Decio. Allora cominciano ad essere indicati come “martiri”, ossia “testimoni della fede” coloro che avevano sacrificato la propria vita per il loro credo e molte comunità iniziano a celebrare la ricorrenza di questi martiri nei propri calendari, con una liturgia particolare, che si va definendo sempre più. Nella Cripta dei Papi la qualifica di “martire”, resa con una sorta di monogramma di tre lettere greche, certamente viene aggiunta alla lapide funeraria di papa Fabiano, morto nel 250 durante la persecuzione deciana. Ben presto, però, tale epiteto viene inserito al momento stesso dell’incisione della lastra, come accade per papa Cornelio (+253) nella cripta omonima del complesso callistiano, o per s. Giacinto nella catacomba di s. Ermete (+258). Proprio a partire da quest’epoca, quindi, ai martiri viene tributato un culto particolare e comincia a diffondersi sempre più la devozione verso di essi.

I primi secoli dopo Cristo sono caratterizzati anche dall’emergere delle prime eresie. Nelle iscrizioni paleocristiane rinvenute a Roma ci sono tracce di dispute dottrinali?

Prof. Danilo Mazzoleni: L’argomento è complesso e delicato. Nel 1991 il padre Ferrua pubblicò uno studio molto dettagliato sui riferimenti della lotta fra cattolici ed ariani nei monumenti paleocristiani. E’ noto che l’eresia di Ario divise la Chiesa per molto tempo, dal IV al VI secolo, sostenendo una divisione profonda nella SS. Trinità. Lo studioso raccolse ben 373 iscrizioni di varie località del mondo cristiano antico, in cui si può vedere un riflesso di quelle controversie dottrinali, nel ribadire in modi diversi la fede nei principi sanciti dal Concilio di Nicea nel 325 e soprattutto la effettiva presenza delle due nature (divina ed umana) nel Cristo. Fra i tanti documenti citati, una famosa iscrizione, incisa sul coperchio di un sarcofago del cimitero di s. Sebastiano, si riferisce ad un neofita di origine armena, che da poco aveva ricevuto il Battesimo, il quale “credette nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo”. Doveva invece essere un goto, probabilmente convertito dall’arianesimo, Herila, sepolto nel cimitero romano di S. Valentino, che afferma di essere morto “nella pace della fede cattolica”. Inoltre, in Asia Minore si sono visti in alcune epigrafi riferimenti all’eresia montanista e così pure in un epitaffio greco di Chiusi, di Frankios, il quale si dichiara –traducendo l’espressione in latino- christianus spiritualis, il cui uso fu peculiare dei seguaci di Montano.

Oltre al “dies natalis”, le iscrizioni funerarie cristiane menzionano spesso l’età del defunto, a volte in modo molto completo e preciso. Ci può raccontare?

Prof. Danilo Mazzoleni: L’indicazione degli anni vissuti non è propria solo dei cristiani, ma era già abbondantemente documentata nell’epigrafia pagana. Oltre agli anni, era normale specificare anche i mesi e i giorni vissuti e talora anche le ore, cosa che può accadere per bambini morti in tenerissima età, ma anche per adulti. Talvolta si trova un’espressione approssimativa, “plus minus”, “più o meno”, ad indicare un’età generica (forse per ignoranza della data esatta di nascita), che in alcuni casi è usata in modo stereotipato ed improprio anche quando si precisano mesi e giorni vissuti.

In questi giorni si sta svolgendo a Roma il Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia. Cosa rivelano le iscrizioni paleocristiane sulla vita familiare dei primi cristiani?

Prof. Danilo Mazzoleni: Le epigrafi contengono molti riferimenti alla famiglia, esprimendo soprattutto i sentimenti di affetto e di dolore umano per la perdita prematura del proprio coniuge, di un figlio, o di un altro congiunto, oltre alla speranza che il proprio caro sia già in Paradiso. Fra i tanti esempi, si può ricordare quello di due genitori della catacomba di s. Ermete che fiduciosi affidano alla martire Bassilla la propria figlia, Crescentina, vissuta poco più di dieci mesi, o quello del fanciullo Vitalione, morto dodicenne, al quale i genitori dicono mestamente che troppo presto se ne andò da questo mondo, ma ora gli augurano di partecipare al banchetto celeste (“bevi e vivi!”). Un’iscrizione di Domitilla si riferisce a Claudio Callisto e dice, fra l’altro, “i figli tutti invocano il buon padre rimpiangendolo; ugualmente (lo) piange la moglie e invano ricerca colui che ha perduto”. Sia pure resi con espressioni diverse, tali sentimenti non sono mutati nel tempo. 

E la vita coniugale?

Prof. Danilo Mazzoleni: Spesso i coniugi indicano la durata del rapporto matrimoniale (specificata fino ai giorni) e sottolineano l’armonia con cui esso è trascorso, senza alcun dissidio: un vero record è quello riportato nella lapide romana di Hermicus, che trascorse ben 80 anni con la sua consorte. Gli sposi pongono in rilievo reciprocamente le loro virtù: dei mariti si ricordano la bontà, la mitezza, la dolcezza, l’onestà di costumi, l’integrità da ogni vizio, mentre le mogli sono spesso celebrate con espressioni che ne esaltano la pietà, la bontà, la carità, la probità, la castità e la giustizia. Non è raro il caso, poi, di vedove che, perso il marito, sceglievano di dedicare il resto della loro vita ad opere di carità e assistenza nell’ambito della comunità cristiana.

Lei ha letto e studiato migliaia di iscrizioni. Ce n’ è qualcuna che dopo tanti anni continua a colpirLa?

Prof. Danilo Mazzoleni: Me ne tornano in mente almeno due: la prima è un umile e quasi impercettibile graffito tracciato da un anonimo pellegrino nella catacomba di Panfilo, che individuai facendo il rilievo completo delle epigrafi di quella catacomba e che era sfuggito a coloro che avevano pubblicato quei materiali in precedenza. Diceva solo s(an)c(t)us Panfilu(s), ma era una prova molto importante, cercata da tempo, che veramente il martire
venerato in quel cubicolo era s. Panfilo, come si era fino ad allora solo ipotizzato. La seconda epigrafe chiude una tomba scavata nel pavimento di una galleria della catacomba di Priscilla, è piuttosto consunta e in parte frammentaria, ma mi colpì subito quanto diceva, che tradotto suonerebbe così: “Qui riposo libero da (ogni) affanno; ciò che aspettavo è giunto (cioè, la morte) e quando ci sarà la venuta di Cristo, risorgo (è usato non il futuro ma il presente indicativo) in pace”. Chi dettò questo epitaffio quando era ancora in vita fu un puer, ossia un fanciullo, un giovane (non è indicata la sua età) di nome Discolis, che rivela una fede davvero salda e non ha paura della morte, ma la attende come momento di passaggio alla vita eterna.

Professor Mazzoleni, La ringraziamo di cuore per questa esaustiva intervista e per il tempo che ci ha dedicato.

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Paul De Maeyer

Schoten, Belgio (1958). Laurea in Storia antica / Baccalaureato in Filosofia / Baccalaureato in Storia e Letteratura di Bisanzio e delle Chiese Orientali.

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