L'educazione alla fede (Terza parte)

Relazione di monsignor Bruno Forte al Seminario di studio per i Vescovi Italiani

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ROMA, martedì, 20 novembre 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito la terza parte della relazione tenuta martedì 13 novembre a Roma da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, al Seminario di studio per i Vescovi Italiani.

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4. Camminare insieme: la relazione educativa come “compagnia”. Una seconda, decisiva condizione per realizzare un efficace processo educativo è la relazione interpersonale: come affermava Romano Guardini, “solo la vita accende la vita”, ed è perciò solo nell’arco di fiamma del rapporto fra le persone in gioco che il cammino dell’educazione può realizzarsi. Anche qui una resistenza e un ostacolo non di poco conto all’impegno educativo vengono dalle vicende storiche legate alla parabola della modernità e all’insorgere del post-moderno: oltre la crisi delle ideologie e delle appartenenze forti che esse propugnavano, sono diffuse nella condizione post-moderna l’esperienza dell’incomunicabilità e la predominanza delle cosiddette “passioni tristi”, che ripiegano ciascuno nell’orizzonte corto del suo “particulare”. È stato detto che il postmoderno è tempo della contaminazione, dove tutto appare contaminato, sporco, infondato. “L’essere non è, ma ac-cade”, cade cioè nel nulla, diranno i portavoce del “pensiero debole”. Non s’intravede più un fondamento su cui si regga la consistenza del reale: tutto è insostenibile leggerezza dell’essere, irrefrenabile caduta. Perciò il postmoderno è anche tempo della fruizione, del bruciare l’istante, assolutizzando l’adesso e consumando l’intensità dell’attimo,. Questo aggrapparsi all’evanescenza della fruizione immediata condanna il postmoderno a essere il tempo della frustrazione, dell’abbandono nichilista, perché la fruizione non riesce a dare durevolmente senso alla vita.

La relazione interpersonale è divenuta debole: la “cultura forte” dell’ideologia si è frantumata nei tanti rivoli delle “culture deboli”, in quella “folla delle solitudini“, in cui è rilevante la mancanza di orizzonti comuni, una penuria di speranze “in grande”, che piega ciascuno nel mondo chiuso del suo privato. La fine delle ideologie appare come la pallida avanguardia dell’avvento dell’idolo, che è il relativismo di chi non ha più alcuna fiducia nella forza della verità. Siamo malati di assenza, poveri di speranza e di grandi ragioni, sempre più soli, perché privi di un sogno comune: scommettere sulla possibilità di creare ponti fra le solitudini diventa allora questione vitale. Comprendiamo così la rilevanza di un’altra condizione necessaria al processo dell’educazione: occorre camminare insieme.Prima che essere per l’altro, chi educa deve stare con l’altro. L’educazione avviene attraverso la relazione di ascolto, di condivisione e didialogo: l’essere genitori nella relazione ai figli, l’insegnamento vissuto nel porsi accanto e di fronte a chi apprende, la testimonianza resa a chi vorremmo condurre all’incontro con la verità, esigono compagnia della vita e della parola. Il fallimento di un’educazione solo autoritaria, che neghi il valore del dialogo e dell’ascolto dell’altro, si dimostra da sé. Sarebbe parimenti sbagliato, però, pensare che l’educazione possa realizzarsi solo fra pari: l’egualitarismo educativo ha prodotto disastri. Il dialogo non significa appiattimento delle differenze: non si amano gli altri se non si è se stessi, accettando anche l’inevitabile diversità da loro. “Se mi ami, dimmi di no” è un valido progetto educativo, se inserito in una rete di attenzione e di amore, che non escluda le differenze, ma le porti all’incontro reciprocamente arricchente.

Anche in campo educativo è, dunque, urgente realizzare quella “convivialità delle differenze” (don Tonino Bello), di cui è esempio eloquente il comportamento del misterioso Viandante sulla via di Emmaus: si fa prossimo, accompagna il cammino dei due, ascolta, trasforma il loro modo di vedere. “Gesù in persona si accostò e camminava con loro” (v. 15). Accompagnarsi, porre domande, ascoltare, leggere il cuore dell’altro e farlo ardere con l’annuncio della parola di vita, accendere il desiderio e corrispondervi coi gesti della condivisione: questo è la compagnia della vita, lo spezzare insieme il pane dei giorni, stando in cammino con l’altro per comprendere e parlare al suo cuore e trasformarlo. Non si tratta tanto di insegnare dall’alto di una cattedra, quanto di trasmettere il senso e la bellezza della vita con l’eloquenza della vita stessa. Chi educa deve farsi prossimo: la luce della vita si trasmette nella reciprocità fra i due, nella pazienza di accettare i suoi tempi e di stimolarne le scelte. Come amava ripetere John Henry Newman, “cor ad cor loquitur”, è il cuore che parla al cuore. Accompagnare vuol dire prevenire e accogliere l’altro nell’amore: “Nulla maior est ad amorem invitatio quam praevenire amando”, scrive Sant’Agostino all’amico che gli chiedeva come educare i difficili ragazzi dei suoi tempi (De catechizandis rudibus, 4) – “Non c’è invito più grande all’amore che prevenire amando”. Chi educa deve amare per primo e senza stancarsi, o non educa affatto. Per essere buoni educatori bisogna dare amore ricordandosi sempre dell’amore ricevuto e accettando di lasciarsi continuamente educare dall’amore. Chi sa accogliere, sa anche donare! Per accompagnare fedelmente l’altro, l’educatore deve dimostrargli di apprezzarlo, deve valorizzarlo, perché chi va educato ha bisogno anzitutto di fiducia, di quel sentirsi amato che gli consentirà anche di lasciarsi correggere e ammonire. L’incoraggiamento e l’elogio sono spesso più utili del rimprovero, perché danno la forza di impegnarsi a migliorare. Il rigorismo stanca e deprime. Solo l’amore eleva e incoraggia ed è vita che genera vita…

5. La sfida dell’identità e la memoria di quanto veramente conta. Un’altra sfida importante che viene all’impegno educativo dalla parabola della modernità e dall’avvento del post-moderno è la cosiddetta “crisi delle identità”, radicata in una sorta di perdita della memoria collettiva e personale, frutto di una malintesa emancipazione dal passato e dalle proprie radici. Siamo in un’epoca di “identità deboli”: da quella della persona, a quella del genere, all’identità comune della nazione, della cultura, della spiritualità, della lingua. Lo sradicamento dal passato da cui veniamo, così com’esso è trasmesso attraverso l’insieme delle espressioni culturali, sociali, artistiche, religiose, compromette la stessa possibilità di affrontare le sfide del presente e dell’avvenire. Senza memoria non c’è identità né profezia! Nel racconto dei discepoli di Emmaus è significativo che Gesù non si limiti ad accompagnare i due discepoli: egli fa memoria delle cose avvenute e del grande quadro della storia della salvezza che le illumina, e così stimola i due, schiudendo loro il senso della vicenda collettiva, per introdurvi il loro cuore inquieto e aprirlo allo stupore davanti al dono dell’amore divino: “Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (v. 27). Facendo memoria delle meraviglie compiute da Dio per il suo popolo, il misterioso Viandante introduce i due nella realtà totale del suo mondo vitale, apre il tesoro del suo cuore e fa loro comprendere ciò che tutti abbiamo ricevuto dal Padre celeste e di cui viviamo veramente. Si comprende qui come il linguaggio della memoria ravvivi l’identità dell’interlocutore se sa coniugare oggettività e passione, dati ed emozioni: non basta ricordare il passato; occorre coglierne il senso per noi, compiendo una sorta di interpretazione esistenziale di esso che si faccia carico delle domande più vere e profonde del presente.

Il “rischio educativo” consiste nel compiere questa operazione
della memoria viva, “pericolosa”, capace di inserire la persona nella realtà totale che conti per lei e per tutti, e dunque nella tradizione viva della fede e dell’amore che nutrono la vita e ci trasmettono la luce che viene dal passato della salvezza, aprendoci alla novità del futuro della promessa. Veramente, l’educazione è opera totale, “cattolica”, nel senso etimologico del termine (“kath’òlou” = in pienezza): formando al grande abbraccio della realtà, grazie all’opera educativa perseverante e integrale, la vita suscita e contagia la vita, il dono ricevuto si fa amore donato, la verità accolta e trasmessa libera e salva. È necessario perciò che la memoria sia come quella evocata da Gesù, viva, trasformante, non asettica e inerte: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (v. 32). Solo la parola convinta e la testimonianza credibile di ciò di cui abbiamo fatto esperienza sono in grado di accendere la vita. La memoria va insomma partecipata all’altro con amore, come avviene in Gesù, che al culmine del cammino condiviso si rivela nel gesto dello spezzare il pane benedetto, di offrire e condividere il dono di Dio nel dono di sé. Il Maestro non comunica solo con la parola, ma lo fa anche col gesto: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero” (vv. 30 e 31). Il gesto benedicente si unisce al segno della condivisione del pane, della vita, del cuore. La comunione memorante e narrativa è rete relazionale attraverso cui è possibile introdurre l’altro alla pienezza della vita: solo in una relazione di amore fedele e ricca di memoria, nutrita di radicamento nel passato da cui veniamo, passa la vita che illumina la vita, tanto fra genitori e figli, quanto in generale fra insegnanti e alunni, fra educatori e discepoli, fra pastori e popolo loro affidato, fra catechisti e catechizzandi…

[Lunedì 19 novembre è stata pubblicata la seconda parte. Mercoledì  21 novembre uscirà la quarta ed ultima parte]

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ZENIT Staff

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