L’attualità della Dottrina sociale della Chiesa

REGGIO EMILIA, sabato, 17 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato da monsignor Giampaolo Crepaldi, Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, in occasione di un incontro con il clero tenutosi l’8 gennaio scorso presso l’Oratorio Don Bosco a Reggio Emilia.

 

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

* * *

Cosa intendiamo per “attualità”?

Leggo questa mia relazione alla vigilia di una nuova enciclica sociale. Siamo tutti in attesa della preannunciata terza enciclica di Benedetto XVI. Essa ricorderà, dopo quarant’anni, la pubblicazione della Populorum progressio di Paolo VI e si chiamerà Caritas in Veritate. E’ quindi un tempo opportuno, questo nostro, per chiederci il senso della “attualità” della dottrina sociale della Chiesa. Il Santo Padre pubblica una nuova enciclica sociale proprio per rendere attuale, ossia vivo e operante nella storia, un insegnamento plurisecolare. Da cosa deriva, allora, questa attualità? Su che basi possiamo dire che la dottrina sociale è “attuale”?

Sappiamo che la dottrina sociale ha un valore permanente e, nello stesso tempo, mutevole. Nei paragrafi 2, 3 e 5 della Centesimus annus[1] Giovanni Paolo II affermava di voler “rileggere” la Rerum novarum guardando “indietro”, guardando “attorno” e guardando “al futuro”. Le tre espressioni indicano la storicità della dottrina sociale della Chiesa, che è sempre un aggiornamento della tradizione per renderla nuovamente feconda, e quindi attuale. I tre momenti dello ieri, dell’oggi e del domani indicano il cambiamento e nello stesso tempo il permanere della medesima verità, nel senso che la dottrina sociale della Chiesa è storica senza ridursi a storia in quanto è annuncio di Cristo, che è lo stesso ieri, oggi e sempre[2]. Vorrei qui sottolineare un aspetto che talvolta viene trascurato. Gli aspetti “permanenti” della dottrina sociale della Chiesa le derivano anche dalla Tradizione apostolica, come componente essenziale del Depositum fidei e come punto di vista – o “luogo teologico” come anche dicono i teologi – da cui guardare al mondo e alla storia[3]. Non solo la dottrina sociale della Chiesa ha una sua propria tradizione, che comincia nel 1891 con la Rerum novarum, ma si inserisce in pieno nella tradizione viva della Chiesa, da cui trova alimento. Uno dei motivi che spiegano certe lentezze e ritardi nella consapevolezza dei cristiani ad assumere, personalmente e insieme, la responsabilità della dottrina sociale della Chiesa è proprio di non considerarla dentro la tradizione ecclesiale.

Da quanto detto, si potrebbe dedurre che l’aggiornamento della dottrina sociale della Chiesa derivi delle novità storiche che si presentano davanti all’umanità e la sfidano. Ciò è indubbiamente vero. Poiché la dottrina sociale della Chiesa nasce «nell’incontro del messaggio evangelico e delle sue esigenze con i problemi derivanti dalla vita della società»[4] si può sostenere che essa “si sviluppa in funzione delle circostanze mutevoli della storia”[5] ed è soggetta a “necessari ed opportuni adattamenti suggeriti dal variare delle condizioni storiche e dall’incessante fluire degli avvenimenti, in cui si muove la vita degli uomini e delle società”[6]. Questo, come dicevo, è vero, però va correttamente inteso in senso non sociologico ma teologico. L’”attualità” di un’enciclica non è data solo dai problemi sociali nuovi che essa affronta. Se così fosse, per stabilire la “attualità” della prossima enciclica sociale di Benedetto XVI sarebbe sufficiente fare l’inventario dei problemi sociali in essa affrontati e vedere quanti e quali non erano presenti nelle precedenti encicliche. Così, però, non è, per il semplice fatto che un’enciclica sociale non è un’indagine sociologica.

Si capisce allora che la “attualità” della dottrina sociale della Chiesa non deriva solo dai fatti nuovi che l’umanità deve affrontare, ma dallo stesso Vangelo, che è sempre nuovo, in quanto è Parola incarnata. I fatti storici nuovi possono svolgere il loro ruolo di stimolo ad una rilettura della verità di sempre, perché la verità di sempre è essenzialmente aperta a ciò. Se così non fosse, infatti, ogni enciclica parlerebbe solo agli uomini del suo tempo. C’è invece nella dottrina sociale della Chiesa un elemento profetico avente i caratteri della inesauribilità e irriducibilità, che le deriva dal Vangelo. Cristo è sempre attuale, e non dimentichiamo che la dottrina sociale della Chiesa è “annuncio di Cristo”.

Il realismo cristiano e i problemi dell’umanità di oggi

Il carattere dell’attualità deriva alla dottrina sociale della Chiesa anche dal “realismo cristiano” che la anima e che le permette di dare un contributo all’umanità al di fuori delle ideologie[7]. Per realismo cristiano intendo soprattutto due dimensioni. Il primo consiste nell’essere prima di tutto interessata all’uomo concreto, come ben chiarisce la Centesimus annus[8]. Cristo non è un filosofo, un teorico di nuovi assetti sociali, un capopopolo o un analista sociale. Non è nemmeno un uomo ideal-tipico. Egli è il Figlio di Dio che si è fatto uomo, concretamente uomo, carnalmente uomo e, diventando uomo, si è realmente unito a tutti gli uomini ed ha indicato una via: la via dell’uomo[9]. La Sapienza stessa di Dio ha scelto di portare la salvezza nel mondo non dall’esterno, ma dall’interno dell’uomo. Non, in prima battuta, dalla modifica delle strutture, siano esse sociali o fisiche[10], ma dalla modifica del cuore. Dio ha scelto la via dell’uomo. La via percorsa è il metodo che Lui ha adoperato. Quale metodo ha scelto Dio per salvarci? Il metodo di passare attraverso l’uomo, senza aggirarlo o scavalcarlo. L’uomo è la via, il percorso, il “come” di Dio. Non c’è causa che possa giustificarci dal passare sopra l’uomo[11]. Non c’è tecnica o norma che valga più dell’uomo. Non c’è fine o scopo terreno che meriti più dell’uomo o che addirittura richieda di sacrificare la persona.

In un secondo senso, il realismo cristiano significa attenzione a tutti gli aspetti della realtà, nessuno escluso. La luce di Dio si posa su ogni cosa, il cristiano non aspira ad una parte ma tende al tutto. Con buona pace di Kierkegaard e di Mounier, la logica cristiana non è aut-aut ma et-et. In Cristo tutte le cose saranno ricapitolate. Il cristiano deve distinguere, ma sempre per unire. L’analisi, infatti, è la morte, la vita è sintesi.

Fin dall’inizio la dottrina sociale della Chiesa si è fatta guidare da questo realismo. Leone XIII non si è fatto convincere dalle ideologie e dalle utopie del suo tempo, ma le ha condannate sostenendo che dai messianismi terreni non possono derivare che sistemi sociali e politici di schiavitù. Egli ha così avuto il coraggio di condannare la “cupidigia dei padroni” e di difendere i diritti degli operai. Contemporaneamente ha anche stabilito una serie di doveri degli operai stessi, condannando ogni forma di violenza. A proteggere tutti da “false speranze e vane illusioni”[12] egli aveva addirittura ricordato che è ingiusto e dannoso pretendere di togliere completamente le disparità sociali[13].

Anche oggi gli insegnamenti sociali della Chiesa, espressi nelle encicliche pontificie, in altri documenti della Santa Sede, nel magistero ordinario del Santo Padre sono orientate a questo realismo cristiano. Basteranno pochi esempi.

Di fronte alla globalizzazione[14] la Chiesa non manca di ricondurla realisticamente alla responsabilità umane, invitando a considerarla come una opportunità che va però ordinata moralmente. Essa evita di cadere in forme di valutazione ideologica della globalizzazione[15], sia di demonizzazione che di esaltazione. Sempre essa cerca di considerare la reale portata di questi fenomeni sulla vita concreta di uomini e popoli.

Di fronte alle migrazioni[16] l’insegnamento della Chiesa mette in evidenza i doveri di solidarietà e di accoglienza, ma non manca di individuare dei doveri anche per i migranti[17], di parlare di “reciprocità” nel senso che l’integrazione non impegna solo chi accoglie ma anche chi viene accolto[18], di proporre il concetto di “equilibrio culturale” da garantire ad un certo territorio in rappor
to alla cultura che lo ha prevalentemente segnato[19], di distinguere, infine, tra il diritto di emigrare, che non può essere limitato, e il diritto di immigrare, che lo può essere in vista del bene comune.

Di fronte al tema dello sviluppo – per fare un ultimo esempio – la dottrina sociale della Chiesa invita a fare attenzione alla pluralità di cause e di attori coinvolti, evitando le semplificazioni ideologiche che nell’immediato ci soddisfano perché ci sembrano efficaci, ma nel lungo periodo manifestano tutta la loro insufficienza in quanto la realtà è sempre più complessa dei loro schemi. Per esempio oggi è improponibile considerare il problema dello sviluppo ancora solo in termini di Nord e di Sud. La realtà è molto più complessa: c’è il ruolo, ormai internazionale – si pensi alla presenza della Cina in Africa -, dei paesi emergenti; c’è lo sfruttamento – oltre che la collaborazione – Sud-Sud; ci sono i limiti delle culture ancestrali che alimentano il tribalismo; c’è un uso improprio – sia da parte dei paesi sviluppati che anche di quelli in via di sviluppo – del turismo, c’è il ruolo della società civile internazionale e così via. I paesi ricchi non tolgono i dazi sulla importazione dei paesi poveri e ciò è causa di sottosviluppo; i paesi poveri non riescono però a collaborare al loro interno per cause culturali o etniche, ed anche questo è causa di sottosviluppo.

Questo realismo cristiano della dottrina sociale della Chiesa è forse il motivo principale per cui, agli occhi del mondo, essa appare spesso astratta e inefficace. Ma questo dipende dal fatto che il mondo ama le semplificazioni ideologiche. In virtù del realismo cristiano, la dottrina sociale della Chiesa, che non è ideologia[20] ma vita cristiana vissuta nel mondo e non è una teoria ma è orientata alla pratica[21], permette di costruire nel tempo, è fattore di mediazione e moderazione nelle relazioni sociali e internazionali, spinge a trovare soluzioni e a dare concreta testimonianza e è anche sostegno per tutti coloro che, concretamente, si trovano in situazione di sofferenza. Non si tratta quindi di un limite, ma di una ricchezza.

La dottrina sociale della Chiesa e il compito di “allargare”

Al tema del realismo cristiano ho assegnato anche la funzione di evitare le semplificazioni ideologiche e i riduzionismi. Il riduzionismo è la principale ideologia di oggi. Mentre le ideologie di un tempo erano integrali (e integraliste), ossia proponevano una visione completa ed omnicomprensiva della realtà, l’ideologia oggi prevalente è esattamente l’opposto: spezzetta la realtà in ambiti non misurabili reciprocamente[22]. Così, con la scusa di liberarsi dalle ideologie ne crea un’altra, altrettanto omnicomprensiva – se pure per difetto piuttosto che per eccesso. Il riduzionismo è ampiamente diffuso in tutti gli ambiti. La persona viene ridotta ai suoi geni o ai suoi neuroni, l’amore è ridotto a chimica, la famiglia viene ridotta ad un accordo, i diritti vengono ridotti a desideri, la democrazia viene ridotta a procedura, la religione viene ridotta a mito, la procreazione viene ridotta a produzione in laboratorio, il sapere viene ridotto a scienza e la scienza viene ridotta ad esperimento, i valori morali vengono ridotti a scelte, le culture vengono ridotte ad opinioni, la verità è ridotta a sensazione, l’autenticità viene ridotta a coerenza con la propria autoaffermazione. Sono tanti i riduzionismi di oggi, sono quindi tanti gli ambiti in cui dobbiamo impegnarci ad “allargare” gli orizzonti.

La dottrina sociale della Chiesa è oggi attuale soprattutto in quanto protagonista principale del compito di “allargare la ragione”, che Benedetto XVI sta insistentemente indicando a tutti noi. Nella Lectio magistralis all’università di Regensburg ebbe a dire: «Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza»[23].

L’allargamento della ragione, però, non può essere frutto della sola ragione, in quanto nessuno si dà ciò che non ha. La Deus caritas est assegna alla fede questo compito e la Spe salvi lo attribuisce alla speranza. In quest’ultima enciclica, Benedetto XVI parla infatti dell’allargamento “del cuore” oltre che della ragione. Riferendosi a Sant’Agostino, il papa dice che «L’uomo è stato creato per una realtà grande […] ma il suo cuore è troppo stretto per la grande realtà che gli è assegnata. Deve essere allargato […], allargato e poi ripulito»[24].

Qui si colloca il ruolo oggi di grande attualità della Dottrina sociale della Chiesa. Essa, come afferma la Deus caritas est (n. 28), si colloca nel punto di incontro tra fede e ragione, tra carità e giustizia e quindi è elemento di fondamentale importanza per far lievitare la prospettiva sull’uomo e le relazioni sociali oltre i riduzionismi. La dottrina sociale della Chiesa può assolvere a questo compito in molti modi. Tra questi vorrei qui sottolinearne tre, che mi sembrano molto urgenti, oltre che attuali.

Due impegni attuali e urgenti della dottrina sociale della Chiesa

Un primo impegno della dottrina sociale della Chiesa nell’epoca attuale, tenendo conto del bisogno di allargare la ragione, è di spiegare che nessun fatto sociale di tipo materiale si spiega solo con motivazioni materiali. Per esempio, l’economia non è mai solo economia. Lo ha scritto nella Centesimus annus Giovanni Paolo II a proposito del crollo dei sistemi economici dei paesi comunisti. Quando capita che un intero sistema economico crolli, le cause ultime vanno ricercate «non solo e non tanto nel sistema economico stesso, quanto nel fatto che l’intero sistema socio-culturale, ignorando la dimensione etica e religiosa, si è indebolito e ormai si limita solo alla produzione dei beni e dei servizi»[25]. Lo stesso possiamo dire per la crisi finanziaria di oggi, su cui il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha recentemente pubblicato un importante documento[26]: non è solo una crisi finanziaria e la ripresa non comporterà solo soluzioni di ordine finanziario. Non c’è una ragione “finanziaria” per concedere mutui insolvibili. Tantomeno ce n’è una per impacchettare quei mutui insolvibili dentro fondi di investimento per acquirenti inconsapevoli. La fiducia non è un elemento in sé finanziario, eppure se non c’è la fiducia l’economia e la finanzia non funzionano. Un elemento della crisi finanziaria di oggi è che le banche non si fidano più l’una dell’altra.

Parafrasando Böckenförde, potremmo dire che, non solo lo Stato, come lui affermava, ma anche l’economia e l’intero assetto sociale consuma presupposti che non è in grado di ricostituire. L’economia vive di presupposti – come per esempio la fiducia or ora vista -, non è essa che li costituisce e, quando vengono meno, non è essa a poterli reintegrare. Se un’impresa fallisce non è mai per motivi solo economici. Del resto così capita spesso anche per le famiglie: se non c’è unità la famiglia anche si impoverisce. Separazioni e divorzi sono oggi una delle principali cause di impoverimento della famiglia. L’ecologia umana[27] determina il quadro in cui si colloca l’ecologia naturale. I rapporti dell’uomo con le cose dipendono dai rapporti dell’uomo con gli altri uomini, dalla “grammatica”[28] secondo cui funziona la società. Ma questa è, appunto, un fatto immateriale. L’economicismo è una forma di riduzionismo, è una delle tante forme di auto-limitazione della ragione di cui ci parla da tempo Josep
h Ratzinger, come dicevamo sopra.

Il secondo ambito è quello di aprire spazi nelle relazioni sociali alla carità e all’amore, però non in modo marginale o suppletivo, bensì dall’interno delle stesse relazioni sociali ed economiche. Giustizia significa dare a ciascuno il suo. La giustizia ci fa dare quanto dobbiamo dare: o pagando, se si tratta del mercato, o ottemperando alla legge, se si tratta dello Stato. La giustizia è importante e non può esserci carità che scavalchi la giustizia. La giustizia però non è tutto. Infatti, se è vero che la persona matura il senso della propria dignità quando viene trattata con giustizia, è altrettanto vero, e forse ancor di più, che si fa originariamente esperienza della propria dignità quando si riceve di più di quanto ci è dovuto. E’ l’immeritato a farci capire che valiamo qualcosa e che siamo qualcuno. Se quello che riceviamo è eccedente rispetto a quello che diamo, se é gratuito e rappresenta per noi una sorpresa, allora comprendiamo che noi veramente contiamo molto. In altre parole solo davanti all’amore la persona fa autentica esperienza della propria dignità. Chi non conosce la carità maturerà la nozione dei propri diritti, ma non avendo fatto esperienza di qualcuno che non solo gli abbia dato quanto gli spetta ma gli abbia donato anche se stesso, non comprenderà a pieno il proprio valore incommensurabile. Penserà di avere un valore sì, ma misurabile. E’ per questo che Giovanni Paolo II ha scritto che la trascendente dignità della persona nasce dalla “chiamata” di Dio[29] il quale, come ci ha ricordato Benedetto XVI, è amore.

La giustizia si fonda sul rispetto della dignità della persona, ma la dignità della persona non nasce solo dalla giustizia, ma dall’amore. La giustizia può essere anche una “fredda giustizia”, come scriveva Nietzsche. E infatti sia la giustizia del mercato che quella dello Stato sono spesso una fredda giustizia, tale che essa – la giustizia – è più importante della stessa persona. La giustizia non è quindi all’origine, in quanto non è in grado di fondare la dignità della persona su cui essa si giustifica. All’origine c’è l’amore, che precede e non solo segue la giustizia. Normalmente si pensa che ci sia la giustizia e poi la carità. Si pensa che questa inizi laddove termina la carità. E’ lo stesso errore che facciamo tra la ragione e la fede. Come se la fede iniziasse quando la ragione ha fatto autonomamente il suo corso. Senza la carità la giustizia non è nemmeno giustizia. «Senza la carità fraterna è perfino impossibile vedere fino in fondo la dignità della persona umana e l’appello che ogni persona debole e fragile ci fa. Certo, c’è la giustizia, che consiste nel dare a ciascuno il suo. Ma è veramente possibile vedere fino in fondo in cosa consista quel “a ciascuno il suo” senza la carità? E’ possibile veramente vedere nell’altro, specialmente nell’indigente, non un fardello ma una risorsa, come auspica l’enciclica Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II?»[30].

Cenni conclusivi

Mi auguro di aver risposto alla questione posta dal titolo di questa mia conferenza e di aver mostrato alcuni motivi di attualità della dottrina sociale della Chiesa. Avrei potuto svolgere l’argomento facendo un elenco delle principali tematiche sociali oggi sul tappeto e illustrando cosa dice la dottrina sociale della Chiesa per ognuna di esse. Ho invece preferito interrogarmi sui motivi più profondi di un dialogo oggi necessario tra la dottrina sociale della Chiesa e il mondo, visti i bisogni di quest’ultimo e la rotta segnata dal magistero del Santo Padre. Mi auguro che ne sia emersa una visione della dottrina sociale della Chiesa non riducibile ad elenchi di indicazioni di comportamento – pur se essa è anche questo – ma da intendersi come una spetto della missione della Chiesa nel mondo.

——————

[1] Centesimus annus, nn. 2, 3, 5.

[2] Sulla dimensione storica della dottrina sociale della Chiesa vedi: G. Crepaldi e S. Fontana, La dimensione interdisciplinare della Dottrina sociale della Chiesa, Cantagalli, Siena 2006, pp. 57-70.

[3] Ad Aparecida (Brasile), parlando all’episcopato latinoamericano, Benedetto XVI ha indicato appunto nella “fede apostolica” il corretto punto di vista da cui guardare alle vicende umane e sociali (Benedetto XVI, Discorso all’inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida 13 maggio 2007, in Supplemento a “L’Osservatore Romano” del 2 giugno 2007, p. 9.

[4] Libertatis conscientia, n. 72 – Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede su Libertà cristiana e liberazione (22 marzo 1986), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1986, p. 42.

[5] Idem.

[6] Sollicitudo rei socialis n. 3.

[7] Octogesima adveniens n. 36.

[8] Centesimus annus nn. 53, 54, 55.

[9] Cf tutto il capitolo V della Centesimus annus: “L’uomo è la via della Chiesa”.

[10] Cf R. Spaemann, La diceria immortale, Cantagalli, Siena 2008, pp. 165-166.

[11] «A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo» (Rerum novarum 32).

[12] Rerum novarum 44.

[13] Rerum novarum 14.

[14] G. Crepaldi, Globalizzazione, una prospettiva cristiana, Cantagalli, Siena 2006.

[15] G. Crepaldi, Globalità, globalizzazione, globalismo, in “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa”, II (2005) 1, pp. 5-11.

[16] Cf G. Manzone, Le migrazioni nella Dottrina sociale della Chiesa, in “Rivista di teologia morale”, n. 160, ottobre-dicembre 2008, pp. 487-496.

[17] «A tale scopo il migrante deve fare lo sforzo di superare la tentazione di isolamento che gli impedirebbe di riconoscere i valori esistenti nel luogo che li accoglie. Deve accettare dal nuovo paese le sue caratteristiche particolari, impegnandosi inoltre a contribuire con le proprie convinzioni e con il proprio costume di vita allo sviluppo della vita di tutti» (Giovanni XXIII, Discorso 20 ottobre 1961).

«Chiunque si reca presso un altro popolo deve fare molta stima del suo patrimonio, della sua lingua e dei suoi costumi […] perciò i migranti si adattino volentieri alla comunità che li accoglie e si affrettino a impararne la lingua, cosicché se la permanenza si fa prolungata o diventa definitiva, possano più facilmente integrarsi in una nuova società» (Giovanni Paolo II, Motu proprio Pastoralis migratorum cura, n. 10).

[18] Scaturendo dalla dimensione sociale dell’uomo, dalla sua comune dignità, la solidarietà richiede reciprocità. Essa perciò non impegna solo il gruppo o il paese che accoglie, ma anche chi viene accolto. Fa parte della stima dell’altro non solo l’offerta di accoglienza e di aiuto, ma anche l’attesa di una risposta analoga» (Cei, Commmssione ecclesiale Giustizia e Pace, Nota pastorale Uomini di culture diverse: dal conflitto all’integrazione (1990), n. 23.

[19] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1 gennaio 2001, n. 15.

[20] Sollicitudo rei socialis 41.

[21] Centesimus annus 59.

[22] Il sociologo che maggiormente ha messo in evidenza questo aspetto della modernità è Niklas Luhmann (cf N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, Il Mulino, Bologna 1990).

[23] Benedetto XVI, Fede, ragione e università. Lectio magistralis all’Università di Regensburg, 12 settembre 2006.

[24] Spe salvi 33.

[25] Centesimus annus, 39.

[26] Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, Nota della Santa Sede su finanzia e sviluppo alla vigilia della Conferenza promossa dall’assemblea generale delle nazioni unite a Doha, 18 novembre 2008.

[27] Centesimus annus, 38.

[28] Giovanni Paolo II, Messaggio all’Assemblea delle Nazioni Unite, 5 ottobre 1995.

[29] Centesimus annus, 13.

[30] G. C
repaldi, Intervento alla Tavola rotonda su “L’attention au plus fragile, le respect de la personne dans son intégralité et son environnement: clé de voute ou pierre d’achoppement?”, Parigi 10 settembre 2008, in www.vanthuanobservatory.org

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione