L'arte come crocevia disciplinare

Una riflessione firmata da Rodolfo Papa, docente di Storia delle Teorie estetiche presso l’Urbaniana

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Abbiamo più volte sottolineato la difficoltà contemporanea di definire l’arte.  Così per esempio Warburton scrive : «Vale certamente la pena di dedicare un po’ di energia al tentativo di rispondere alla questione [di ciò che l’arte è], o almeno di mostrare perché una risposta è impossibile»[1], ed ancora «La questione dell’arte, quando è posta al livello generale di “che cos’è l’arte?”, probabilmente non ha risposta»[2].

Mi sembra che la questione sia stata ben descritta da Tatarkiewicz nel 1975: «Guardando a ritroso l’evoluzione del concetto di arte diremo che tale evoluzione era naturale, persino inevitabile. … Ma avvenne qualcosa di singolare: il concetto antico-medievale di arte era grossolano, ma chiaro: si poteva definire in modo semplice e corretto. Invece il concetto odierno, punto d’arrivo di questa evoluzione, più ristretto dell’altro e, parrebbe, più definito è in realtà non definito, elude una definizione»[3]

Perché è accaduto questo processo? Perché da una definizione semplice e chiara, si è giunti a una “non definizione”, a una elusione della definizione?

La definizione semplice e chiara si fondava sulle capacità imitative e produttive,  e trovava le proprie radici nella speculazione aristotelica ed anche in quella platonica.

In un testo recentemente uscito, così si descrive la radice platonico-aristotelica della cosiddetta teoria imitativa dell’arte: «Discutendo l’argomento di Gorgia, Aristotele notava come egli trascurasse una proprietà importante del linguaggio: le parole possiedono un significato semantico, a differenza delle immagini che, invece, imitano la realtà. Il fatto curioso è che, nonostante avesse colto perfettamente il punto teorico, Aristotele faticò a metterlo a fuoco nei suoi ragionamenti sull’arte, finendo per avallare, nei modi e con i distinguo di cui diremo, la posizione di Platone. Entrambi sono accomunati dall’idea che l’arte è in primo luogo mimesi, la differenza –casomai- è nelle rispettive conclusioni: Platone ritiene che l’arte sia inutile e dannosa, mentre Aristotele le accorda una finalità specifica»[4] .

Possiamo riscontrare nella storia recente, una sorta di ampliamento del discorso di Platone e di Aristotele, che ha prodotto, nel suo stesso ampliamento, una proliferazione di discipline, impegnate nello studio di singole questioni. Il discorso si è frammentato in analisi, senz’altro in se stesse positive, ma limitate nella loro singolarità. Per esempio, la filosofia dell’arte, la semantica, la semiotica, l’estetica, l’antropologia dell’arte … ciascuna di esse dice una verità, che però è sempre parziale rispetto al discorso complessivo. Ciascuna afferma cose interessanti, ma in se stessa nessuna è sufficiente per una piena comprensione. Invece accade di frequente che un solo aspetto venga considerato come l’unico, e l’arte stessa viene ridotta a un suo solo aspetto.

Per esempio, viene ridotta a pura immagine, a puro simbolo, a puro segno, a puro manufatto, a pura merce … .

Invece, quando si affronta l’arte, occorre innanzitutto comprendere che non è risolvibile in un solo modo, non è riducibile a un solo concetto.

Prendiamo per esempio il testo appena citato di Andina; analizzando le filosofie dell’arte, tenta di pervenire a una definizione che tenga conto di più condizioni; innanzitutto, parte dalla  “definizione dantiana di opera come veicolo semantico”: «si tratta di un oggetto nel quale incorporiamo una nostra rappresentazione, la quale non ha necessariamente un legame di dipendenza dalla realtà. Perciò: “x è un’opera d’arte solo se incorpora un significato, in altre parole se veicola una specifica rappresentazione del mondo”»; ella stessa nota tuttavia che «Questa condizione ovviamente da sola non è sufficiente perché, come per altro abbiamo già anticipato, esistono veicoli semantici, cioè oggetti che veicolano rappresentazioni che non sono opere d’arte»[5]. Cerca allora altre condizioni definitorie, soffermandosi su alcune opere di Clet Abraham[6], consistenti in rielaborazioni di segnali stradali: «Un oggetto ordinario, un qualunque cartello che regola i flussi e il traffico delle nostre strade, “può” dunque diventare un’opera d’arte. Ma se così stanno le cose, qual è la differenza rispetto ai normali cartelli che pure hanno un contenuto rappresentativo? Le rappresentazioni di Abraham sono contenute in un medium, in altre parole un corpo, che non è trasparente: appesi ai muri e lungo le strade di Firenze, quei cartelli si sono fatti guardare per loro stessi e non solo per quello che era il classico significato che incorporavano (l’avviso di una strada senza uscita). Ecco dunque la seconda condizione: “x è un’opera d’arte solo se il medium di x non è trasparente”»[7].

Infine, Andina aggiunge anche l’aspetto relazionale e contestuale, giungendo a una definizione finale: «Che cos’è allora un’opera d’arte? È un oggetto sociale e storico, un artefatto che incorpora una rappresentazione, sotto forma di traccia iscritta in un medium che non è trasparente»[8].

Sembra ci sia lo sforzo di tenere conto di tanti aspetti, ma di fatto non si esce da una certa filosofia dell’arte di stampo fortemente sociologico, tanto che poi l’autrice si rivela incapace di comprendere realmente il contesto di un’opera; volendo infatti analizzare delle opere contemporanee di Irene Cesar, consistenti in fotografie che citano le Madonne di Tiziano sostituendo Gesù Bambino con una “girl”, ebbene la riflessione della Andina tenta una analisi prescindendo completamente dal mistero della Incarnazione senza il quale le opere di Tiziano, e tutta la tradizione artistica sacra, sono incomprensibili, e così giustifica le opere di Irene Cesar in quanto capaci di mostrare i limiti di una tradizione che vuole «Dio come maschio» mentre «Dio non rientra nella distinzione di genere»[9]. La Andina afferma che un’opera va compresa nel contesto, ma mostra di non possedere le competenze per comprendere il contesto: l’ignoranza completa (storica, culturale, teologica …) del Cristianesimo, le fa scrivere affermazioni insensate.

La difficoltà definitoria attuale sembra, dunque, risiedere nella incapacità di comprendere la complessità disciplinare che l’arte in quanto tale, e ciascuna opera d’arte, implica.

Per comprendere l’arte occorre saper stare in un dinamico crocevia di discipline, in cui la profondità delle singole analisi, mai faccia rinunciare alla unitarietà della sintesi.

In questo crocevia, una disciplina fondamentale, che era sottesa alla teoria aristotelica soprattutto nella rilettura feconda fatta da Tommaso d’Aquino, era la filosofia della conoscenza. Mi sembra, infatti, che i limiti di una certa filosofia dell’arte (ancora impegnata a rileggere i giochi linguistici di Magritte, Kossuth, Picabia …) siano inscrivibili in un equivoco, da Tommaso già più volte denunciato, per esempio nella polemica contro gli averroisti, equivoco nato dalla mancata distinzione tra “id quod cognoscitur” ovvero le cose e “id quo cognoscitur”, ovvero i concetti. Noi conosciamo la realtà, tramite i concetti, così come «le specie che sono nella vista non sono ciò stesso che viene visto, ma ciò per cui la vista vede»[10]. La distinzione tra la cosa conosciuta e il concetto con cui viene conosciuta –ignorata da tanta filosofia moderna che ha confuso le idee e gli oggetti-  la distinzione tra il segno e il suo significato, sono alla base della comprensione dell’opera d’arte. Altrimenti l’opera d’arte viene ridotta a un raffinato gioco di parole, a metà tra l’enigmistica e la pura illusione.

*

NOTE

[1] N. Warburton, La questione dell’arte [2003], trad.it., Einaudi, Torino 2004, p. XIII.

[2] Ibid., p. 119.

[3] W. Tatarkiewicz, Storia di sei idee [1975], trad.it., Aesthetica, Palermo 1997, p. 52.

[4] T. Andina, Filosofie dell’arte. Da Hegel a Danto, Carocci editore, Roma 2012, pp. 41-42.

[5] Ibid., p. 194.

[6] Ho conosciuto e frequentato nei primi anni ’90 Clet Abraham che, giovanissimo, da poco era giunto a Roma e mostrava una grandissima capacità pittorica, muovendosi ancora nel contesto dell’arte figurativa. 

[7] T. Andina, Filosofie dell’arte, p. 195.

[8] Ibid., p. 198.

[9] Ibid., p. 201.

[10] Tommaso d’Aquino, Unità dell’intelletto contro gli averroisti, trad.it. A. Ghisalberti, Bompiani, Milano 2008, n. 106, p. 173.

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Rodolfo Papa

Rodolfo Papa è presidente dell'Accademia Urbana delle Arti / Sito internet: www.rodolfopapa.it ; Blog:http://rodolfopapa.blogspot.com ; e.mail: rodolfo_papa@infinito.it .

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