L'armonia è l'altro volto del bene 

Verso l’incontro di Benedetto XVI con gli artisti 

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ROMA, sabato, 24 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo a firma di mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, apparso su “L’Osservatore Romano”.

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«La bellezza è come una ricca gemma, per la quale la montatura migliore è la più semplice». Questa deliziosa annotazione dei Saggi di Francesco Bacone è una salutare sferzata sia a un’arte che si raggomitola su se stessa seguendo canoni stilistici sempre più indecifrabili, sia a una critica che adotta un esoterismo oracolare tale da impedire, piuttosto che facilitare, l’accesso al senso profondo dell’opera d’arte. Alle soglie dell’incontro tra Benedetto xvi e gli artisti, che si svolgerà il 21 novembre prossimo in quella vera «ricca gemma» che è la Cappella Sistina, non vogliamo ora riproporre il tema centrale di quell’evento, ossia il rinnovato dialogo tra fede e arte, ritessendo un’alleanza che in quest’ultimo secolo si è infranta, nonostante il vigoroso appello che 45 anni fa, nel 1964, Paolo vi aveva rivolto agli artisti di allora nella stessa straordinaria cornice spaziale.

È nostra intenzione, invece, suggerire una modesta e semplificata analisi su quel «grande codice» della nostra arte che è pur sempre la Bibbia, l’atlante iconografico sfogliato per secoli e ora relegato sullo scaffale polveroso dell’oblio negli atelier degli artisti. Non punteremo però su un’analisi dell’influsso esercitato dalle Scritture Sacre sull’esercizio artistico espresso in un immenso catalogo di opere, quanto piuttosto su un argomento molto delicato e anch’esso accantonato ai nostri giorni, quello della bellezza. Le stesse cattedre o i saggi di estetica cercano di star lontani dall’interrogarsi su questo soggetto così fluido e inafferrabile, anche perché ogni definizione o verifica risulterebbe simile a uno stampo freddo che congela l’incandescenza della bellezza. Aveva ragione Ezra Pound quando nel suo Artista serio osservava che «non ci si mette a discutere su un vento d’aprile: semplicemente gli si va incontro e si è rianimati. Lo stesso accade quando ci si imbatte in un pensiero di Platone che vola veloce o in un affascinante profilo di un volto o di una statua».

Consapevoli di questo limite, ci accontenteremo di vedere come la Bibbia riesce a dire a suo modo qualcosa sul bello, ovviamente lasciando tra parentesi il bello che tanti autori sacri hanno manifestato attraverso le loro opere «ispirate» (un nome per tutti, Giobbe). «In confronto col pensiero greco colpisce anzitutto la scarsa importanza che il concetto del bello ha nell’Antico Testamento. Complessivamente questo problema non riscuote l’interesse del pensiero biblico». Così scriveva Walter Grundmann nella voce kalòs, «bello», di uno dei monumenti dell’esegesi tedesca, il Grande Lessico del Nuovo Testamento. A lui faceva eco Joachim Wanke quando, in un altro strumento importante come il Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, osservava che «in entrambi i Testamenti il bello nel senso della concezione platonica ed ellenistica non è preso in considerazione». Anzi, lo stesso autore — evocando indirettamente le parole paoline sulla croce «scandalo» e «stoltezza» per la cultura ambiente nella quale il cristianesimo è sbocciato e fiorito — notava che «la croce è certo la più radicale dissoluzione del concetto classico di perfezione e bellezza».

Ora, è indubbio che il mondo greco-latino — sia pure in forme molto variegate — ha dedicato al tema del bello riflessioni di straordinaria intensità e fascino, anche se in senso stretto la filosofia estetica è una branca del sapere piuttosto recente, essendo stata codificata — almeno a livello terminologico — solo nel Settecento col pensatore tedesco Alexander Baumgarten. È evidente, però, che la grande metafisica greca e la sua gnoseologia avevano già offerto le basi per esaltare il nesso tra essere, vita e bellezza, così da poter affermare col filosofo Plotino che il bello è «la fioritura dell’essere», la sua perfezione. Inoltre la contemplazione pura e libera dell’armonia delle forme costituiva una componente dell’arte e della letteratura di quella civiltà.

Tutto questo — bisogna riconoscerlo — non appassiona gli autori sacri dai quali è assente l’atteggiamento «romantico» di chi si sofferma abbacinato e affascinato davanti alle meraviglie cosmiche o allo splendore delle forme (anche se qualche eccezione, come vedremo, è possibile). Si ha, infatti, una concezione molto più funzionale del bello, al punto tale che si verifica già a livello lessicale un fenomeno molto significativo. Il principale termine estetico ebraico è tôb: esso ricorre 741 volte e ha significati molto fluidi che vanno dal «buono» al «bello», all’«utile» e al «vero», al punto tale che la stessa antica traduzione greca della Bibbia detta «dei Settanta» è ricorsa ad almeno tre aggettivi greci diversi per rendere questo vocabolo (agathòs, «buono», kalòs, «bello» e chrestòs, «utile»).

Similmente nel greco neotestamentario il termine kalòs, che ricorre 100 volte, è normalmente sinonimo dell’altra parola greca, agathòs, «buono», tranne in un unico caso, quando Luca (21, 5) ricorda che, davanti al tempio erodiano di Gerusalemme, «alcuni parlavano delle sue belle pietre (lìthoi kaloì)». Il vocabolo è destinato, invece, sempre a delineare le qualità morali di un atto o di una persona o di una realtà, oppure la sua capacità operativa. Così, tanto per fare qualche esempio, si parla di «opere buone», di «buona condotta», di «buona coscienza», usando sempre l’aggettivo kalòs. Cristo, come è noto, si autodefinisce nel Vangelo di Giovanni (10, 11.14) come «pastore kalòs», ma il significato primario — come si ha nelle versioni — è quello di «buon pastore», e così accade in altri usi di quell’aggettivo («buon diacono, buon soldato, buoni amministratori, buon maestro»).

San Paolo usa il verbo kalopoièin per dire «fare il bene» (2 Tessalonicesi, 3, 13) ed è suggestiva l’esclamazione della folla che, di fronte ai miracoli di Gesù, esclama: «Ha fatto kalôs ogni cosa!» (Marco, 7, 37), laddove è evidente che quel «bello» è in realtà un «bene». Potremmo andare avanti a lungo in queste esemplificazioni per scoprire sempre che il «bello» neotestamentario — anche su influsso dell’Antico Testamento e dell’ebraico — altro non è che il «buono», il «bene», la bravura, la legittimità o anche l’utilità come «il buon frutto, seme, perla, pesce, albero», sempre espressi con l’aggettivo kalòs. Detto questo, bisogna, però, fare un ulteriore passo. Non è che gli autori sacri ignorino la bellezza in quanto tale, tant’è vero che esiste un altro termine ebraico, jafeh, che significa «stupendo, incantevole, bello» in senso stretto, come na’weh è «affascinante». Solo che raramente la finalità di questa ammirazione è meramente estetica.

Così, quando il salmista «contempla il Tuo (di Dio) cielo, opera delle Tue dita, la Luna e gli astri che tu hai fissato», apparentemente abbandonandosi alla scoperta della bellezza imponente degli spazi siderali, la domanda che si pone rivela la vera finalità di quella contemplazione che è, invece, di taglio teologico-esistenziale: «Che cos’è mai l’uomo perché te ne ricordi, l’essere umano perché te ne curi?» (Salmo, 8, 4-5). Anche il profeta Geremia — che pure è considerato da alcuni come il poeta biblico più attento alla bellezza della natura e ai suoi ritmi — quando, ad esempio, si sofferma ad ammirare «un ulivo verde e maestoso» o «un tamerisco nella steppa, in luoghi aridi e desertici e in una terra di salsedine» (11, 16; 17, 6), lo fa con un atteggiamento «morale» e non estetico, pronto com’è a cavarne subito una lezione etica per Israele.

Similmente la straordinaria e potente evocazione presente nelle 16 inter
rogazioni rivolte da Dio a Giobbe nel primo dei due discorsi divini finali di quel libro non ha lo scopo di dipingere un meraviglioso arazzo di scene cosmiche e animali quasi «a colori» — come sembrerebbe al lettore immediato — bensì di rivelare all’uomo l’esistenza di una ‘esah, di un «progetto» trascendente insito al creato e di affermarne la legittimità, la coerenza, nonostante l’apparente incomprensibilità per la razionalità umana. Anche un libro che nasce in piena atmosfera greca come quello della Sapienza (siamo verso la fine del i secolo prima dell’era cristiana) non ha dubbi sul fatto che «belle sono le realtà che si contemplano» (13, 7) ma l’autore premette subito questa limpida considerazione: «Dalla grandezza e dalla bellezza delle creature per  analogia  si  contempla il loro artefice» (13, 5).  È quella che la filosofia definirà appunto  come «l’analogia» per risalire dal creato al Creatore attraverso un percorso di conoscenza «naturale».

Era ciò che appariva simbolicamente in una pagina poetica mirabile, il Salmo 19. Lo sfolgorare del sole, comparato a uno sposo che esce all’alba dalla stanza nuziale o a un eroe atletico che si scatena nella corsa lungo la sua orbita è in realtà epifania di una parola divina cosmica: «I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani. Il giorno al giorno affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette la conoscenza» (19, 2-3). La colossale coreografia cosmica che il Salmo 148 suppone non è tanto una sfilata di 22 (o 23) creature, tante quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico, da ammirare con stupore; è, invece, un coro di alleluia che si leva al Creatore all’interno di una sorta di cattedrale cosmica. Lo stesso si deve ripetere per altri testi salmici, a prima vista simili a «uno schizzo del mondo, dipinto in pochi tratti», come definiva il Salmo 104 il padre della moderna climatologia e oceanografia, Alexander von Humboldt (1769-1859): in realtà, anche in quel caso il poeta biblico vuole esaltare l’opera del Creatore  che «manda il suo spirito» per dar origine alla vita e «rinnovare la Terra».

In questa stessa linea dobbiamo collocare anche quella straordinaria capacità narrativa svelata dalle 35 parabole di Gesù (72, se si allarga l’elenco anche alle immagini o alle metafore sviluppate). Sappiamo, infatti, che Cristo è un oratore affascinante. Egli parte dal mondo dei suoi uditori fatto di terreni aridi, di semi e seminatori, di erbacce e di messi, di vigne e di fichi, di pecore e di pastori, di cagnolini, di uccelli, di gigli, di cardi, di senapa, di pesci, di scorpioni, serpi, avvoltoi, tarli, di venti, di scirocco e tramontane, di lampi balenanti e piogge o arsure. Ci sono nei suoi discorsi bambini che giocano sulle piazze, cene nuziali, costruttori di case e di torri, braccianti e fittavoli, prostitute e amministratori corrotti, portieri e servi in attesa, casalinghe e figli difficili, debitori e creditori, ricchi egoisti e poveri ridotti alla fame, magistrati inerti e vedove indifese ma coraggiose, ci sono monete piccole e grandi, ci sono tesori nascosti e mense con cibi puri e impuri secondo le regole kasher dell’ebraismo e altro ancora.

Tuttavia, noi sappiamo che Cristo non si ferma davanti ai voli degli uccelli o alla fragranza delicata e sontuosa dei gigli del campo per comporre una lirica, bensì per condurre chi li sta contemplando verso altre mete. Non per nulla le parabole iniziano spesso così: «Il Regno dei cieli è simile a». L’estetica è, quindi, funzionale all’annunzio, bellezza e verità s’intrecciano, l’armonia è un altro volto del bene. In questo senso si ammonisce l’annunciatore a dire Dio in modo bello (quanto questo monito è stato disatteso nella storia della predicazione e lo è ancor oggi, ad esempio, nell’arte sacra!). Non per nulla già il salmista esortava i fedeli così: «Cantate a Dio con arte!» (Salmi, 47, 8). E la «gloria» divina è sempre raffigurata nella Bibbia come immersa nello splendore della luce e nella pienezza della perfezione.

Dobbiamo, però, riconoscere che si assiste anche a un processo in cui la bellezza acquista un suo spazio rilevante, sia pure sempre nella cornice di quella finalità  teologica a cui l’autore biblico tende. È significativo il caso della creazione descritta nel capitolo 1 della Genesi. Là, infatti, al termine dei singoli atti creativi di Dio è apposta una «formula di approvazione», ribadita sette volte (1, 4.10.12.18.21.25.31), che suona così: «Dio vide che era tôb». Sappiamo già che questo termine significa sia «buono» sia «bello». È evidente che qui l’aspetto estetico, a nostro avviso, ha un certo primato. La «visione» stessa, la soddisfazione per l’opera compiuta, l’immagine del Creatore-artista inducono a rendere quella frase così: «Dio vide che era bello», oppure: «Dio vide: era bello!». Certo, non si esclude la positività dell’essere creato, ma è indubbio che la qualità estetica — come annotava un esegeta, Claus Westermann — «non è qualcosa di aggiunto alla creazione, ma appartiene al suo stesso statuto e alla sua struttura».

Dopo tutto, anche la Bibbia riconosce che «belle» erano Rebecca, Sara, Betsabea, la regina persiana Vasti, Ester, Giuditta, come lo erano anche il piccolo Mosè, Davide, il suo figlio Adonia, i giovani ebrei di Babilonia. È su questa scia che dobbiamo porre quel gioiello poetico che è il Cantico dei cantici nel quale l’accento sulla dimensione estetica della natura e della persona umana è marcato, sia pure senza mai dimenticare la finalità dell’esaltazione dell’amore, la realtà superiore e trascendente celebrata da quei versi mirabili. Al centro, infatti, si ha un «giardino chiuso», anzi, un «paradiso» (pardes) vegetale (4, 13), che spesso si trasforma in vigne lussureggianti con viti in fiore; si ha un vero e proprio «erbario» dominato dal giglio rosso palestinese (o forse l’anemone), accompagnato dal narciso, mentre folto è il bosco dell’amore con cedri, ginepri, meli, melograni, palme, alberi odorosi, fichi, mandragore, rovi, alberi selvatici, noci e così via. Monti, colline, rupi, valli, deserti, campi, sorgenti, fiumi, acque, laghi, fiamme, scintille si stendono davanti al lettore. Su questa terra, avvolta in una dolce primavera (2, 8-17), vola la colomba, l’uccello-simbolo per eccellenza, emblema di amore, tenerezza, bellezza e fedeltà, corrono gazzelle e cerbiatti, altrettanto rilevanti a livello simbolico, appaiono i greggi, i cavalli, i leoni, i leopardi, le volpi, i corvi, mentre latte e miele rimandano a vacche e api.

Ma è soprattutto il corpo umano, femminile e maschile, dipinto in tavole colme di eros (4, 1-5; 5, 10-16; 6, 4; 7, 10), a costituire il vertice della bellezza creata, come è attestato dall’esclamazione stupita e reiterata: «Quanto sei affascinante (jafah), compagna mia, quanto sei affascinante! (…) Quanto sei affascinante, mio amato, quanto sei incantevole (na’îm)» (1, 15-16). «Tutta affascinante (jafah) sei, compagna mia, difetto non c’è in te!» (4, 7). La stessa natura è descritta nella sua bellezza attraverso una sorta di transfert: il paesaggio, infatti, si trasforma in uno specchio dell’anima e delle sue sensazioni di felicità, di armonia, di pienezza. Tuttavia, come già si affermava, la dimensione somatica non è mai meramente estetica, ma è il punto di partenza e d’arrivo di un reticolo di relazioni interpersonali, di sensazioni interiori, di esperienze psicologiche e spirituali. Sta di fatto, però, che questa meta trascendente è raggiunta attraverso un’intensa e creativa contemplazione estetica ed estatica della corporeità che, nel mondo biblico, non è mai solo fisicità ma unità psico-fisica della persona.

L’esaltazione della bellezza nelle sue epifanie cosmiche ha, però, una sua espressione particolare in una pagina biblica tarda, all’interno di un inno collocato nella sezione finale dell’opera del Siracide, un sapiente del ii secolo prima dell’era cristiana. L’inno
inizia in 42, 15 e si conclude in 43, 33. La prospettiva, da noi sempre sottolineata, dell’intreccio tra estetica e teologia permane, ma è evidente il fiorire limpido della contemplazione lirica della bellezza del creato. L’aspetto teologico è esplicito in apertura e chiusura del canto allorché Dio si leva sull’universo con l’efficacia della sua parola, lo splendore della sua gloria, la sua trascendenza e onniscienza. Per la Bibbia la natura è sempre «creato», è un «cosmo» ordinato  che  risponde a un progetto e a un disegno capace di riflettere il suo autore: «Come il Sole che  sorge  illumina  tutto  il creato, così della gloria del Signore è piena la sua opera» (42, 16). Per questo, di fronte all’architettura cosmica, l’uomo non può che esclamare: «Egli è tutto!» (43, 27).

Il Siracide, però, rivela in modo più esplicito rispetto alla precedente tradizione un atteggiamento lirico. Egli s’affaccia con stupore sulle meraviglie dell’universo e le fa sfilare davanti ai suoi occhi abbacinati da tanta bellezza. È questo il contenuto della parte centrale, vero cuore poetico dell’inno. Questa sequenza, che è quasi pittorica o filmica, parte dal firmamento limpido e luminoso, nel quale irrompe innanzitutto il Sole a cui è riservato un bozzetto che marca l’incandescenza del suo irraggiarsi (43, 1-5). Subentra naturalmente il quadretto dedicato alla Luna, celebrata soprattutto nella sua funzione «cronologica», essendo la matrice del calendario lunare liturgico e civile (43, 6-8). A essa si associano le stelle, concepite come sentinelle che vegliano nella notte (43, 9-10). Ecco, subito dopo, irrompere maestoso l’arcobaleno, tracciato nel cielo dalla stessa mano divina (43, 11-12). La serie successiva, pur connettendosi alla volta celeste, ha una sua autonomia: entra, infatti, in scena la meteorologia col suo apparato di fulmini, dotati di «raggi giustizieri», delle nubi che «volano come uccelli da preda», dei chicchi di grandine simili a polvere, del tuono che fa sobbalzare la terra, dei venti impetuosi (43, 13-17).

Sempre lungo il filo dei fenomeni meteorologici, una sorta di deliziosa miniatura è  dedicata alla neve la cui caduta lieve è comparata al volo degli uccelli e degli stormi di cavallette: «il suo candore abbaglia gli occhi e, al vederla fioccare, il cuore rimane estasiato» (43, 18). A essa è associata la brina, simile a grani di sale che rendono brillanti come cristalli i rami su cui essi si posano (43, 19). Queste immagini invernali trascinano con sé l’evocazione della gelida tramontana che fa ghiacciare le superfici delle acque, rivestendole quasi di una corazza (43, 20). Paradossalmente la scena del gelo ha effetti analoghi a quelli estivi perché anch’esso brucia la vegetazione come accade quando domina l’arsura (43, 21): in tal modo il poeta riesce a trasferire il lettore nell’estate infuocata, ove è attesa la rugiada che feconda la terra riarsa (43, 22). L’ultima sequenza di immagini ci sposta sul mare ove sono «piantate» come oasi o fiori le isole. Del suo mistero fatto di abissi, di tempeste imponenti, di mostri e terrori, ben noti alla cosmologia biblica, restano le testimonianze dei naviganti che possono solo affidarsi alla parola divina che salva (43, 23-26).

L’esclamazione iniziale dell’inno, scandita da un interrogativo retorico, è l’ideale espressione di un’ammirazione lirica che scopre il fulgore della bellezza: «Ogni opera supera la bellezza dell’altra: chi può stancarsi di contemplare il loro splendore?» (42, 25). La dimensione estetica è, quindi, riconosciuta, anche se — lo ripetiamo ancora una volta — essa non è mai del tutto fine a se stessa ma diventa sempre, più o meno esplicitamente, una via pulchritudinis, un percorso bello e glorioso per approdare al Creatore, al suo progetto e alla sua opera. E la stessa bellezza letteraria di molte pagine bibliche ha come meta ultima la proclamazione dell’infinita bellezza e verità della Parola divina.

[L’OSSERVATORE ROMANO – Edizione quotidiana – del 24 ottobre 2009]

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ZENIT Staff

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