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L’accordo sul nucleare iraniano e l’eredità del regime khomeinista

La rivoluzione iraniana, l’ultima del secolo scorso ma la prima a sfondo religioso, dimostra come la religione può diventare motore di cambiamento per la Storia

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I commenti sullo “storico” accordo di Vienna si stanno moltiplicando, e vertono quasi tutti sulla trasformazione del mondo da bipolare in multipolare, il che significa che le vecchie alleanze – come pure le vecchie contrapposizioni – non valgono più, ed anche quelle nuove sono soggette a frequenti mutazioni: Sauditi ed Israeliani si ritrovano uniti nel deplorare quanto concordato tra Iraniani e Americani, a loro volta coalizzati – almeno di fatto – nel contrastare il disegno volto a ricomporre la comunità statuale dei Sunniti, perseguito con metodi spietati dallo “Stato Islamico”.

Tutte queste elucubrazioni geostrategiche possono fare perdere di vita una considerazione più approfondita, e meno legata alla contingenza, riguardante l’origine del contenzioso che oggi si chiude: questa origine fu costituita dalla rivoluzione persiana, la prima – tra tutte quelle del ventesimo secolo – ispirata da un ideale non laico, bensì religioso.

Khomeini andò al potere sulla spinta di una insurrezione che egli stesso aveva preparato e guidato, organizzando le masse mediante la rete solidaristica e l’ispirazione spirituale del clero sciita. Correva l’anno 1979, e pochi mesi prima era stato eletto Papa Giovanni Paolo II.

Subito ci fu chi tracciò un paragone tra le due figure, che avevano in comune non soltanto il rifarsi alla religione come fondamento delle loro rispettive identità nazionali, ma anche l’essere divenuti entrambi degli etnarchi, cioè capi del popolo. La figura del capo del popolo raramente coincide con quella del capo dello Stato.

L’etnarca è infatti colui che enuncia delle motivazioni e degli obiettivi in cui la sua gente si riconosce, e può essere anche colui che – il Papa polacco lo è stato – svolge per essa un ruolo di protettore, di avvocato, nel senso etimologico di uomo che offre ad una causa un patrocinio morale.

L’etnarca deve possedere le doti dello statista, avendo il compito di inserire questa causa in un determinato contesto storico, ed anche quelle del rivoluzionario, perché non può raggiungere i propri obiettivi senza modificare radicalmente l’assetto politico con cui è chiamato a confrontarsi.

Da questo punto di vista, le due figure, quelle del Papa e quelle dell’Ayatollah, presentano delle similitudini impressionanti, soprattutto tenendo conto di come siano stati in grado di cambiare la situazione delle rispettive aree geografiche di riferimento, l’Europa Orientale l’uno, il Medio Oriente l’altro.

Abbiamo lasciato per ultima la similitudine più evidente, l’impersonare tutti e due l’autorità religiosa.

Si dirà che tale ruolo giocava in loro favore, potendo entrambi contare su di un apparato – quello costituito dal clero e dal laicato organizzato – già pronto a servire i loro disegni.

C’è però qualcosa di più, che consiste nel modo stesso di concepire l’azione rivoluzionaria.

Le ideologie laiche – anche quando non osteggiavano in linea di principio l’elemento religioso – partivano dal presupposto che l’adesione ad un disegno politico fosse determinata da motivazioni per così dire esterne alla sfera spirituale dell’individuo, e cioè fondamentalmente dalle sue necessità di ordine materiale.

Giovanni Paolo II e Khomeini sono stati capaci di rovesciare questa prospettiva: essi hanno cioè individuato, motivato ed animato una spinta rivoluzionaria non radicata nel corpo, ma nell’anima delle persone.

Certamente le religioni erano già prima di loro un grande fattore di coesione culturale e di aggregazione sociale, ma esse svolgevano per così dire un “ruolo statico”, che alcuni consideravano di stabilizzazione, ed altri – ricordiamo la famosa definizione di Marx sul cosiddetto “oppio dei popoli” – di conservazione.

Quando un papa polacco ed un teologo sciita iraniano riuscirono a rovesciare questa prospettiva, essi colsero impreparata sia la classe dirigente sovietica, resa incapace di decifrare la realtà in quanto ostaggio del proprio dogmatismo marxista, sia la classe dirigente americana, altrettanto legata ad una immagine stereotipa dell’Islam come religione retrograda e conservatrice.

Ci si domanderà che cosa abbiano a che fare queste considerazioni con l’accordo di Vienna.

Esse hanno invece molto a che vedere con gli attuali esiti diplomatici, che costituiscono la presa d’atto tardiva della realtà prodotta dalla rivoluzione di Khomeini, la quale non ha soltanto mutato radicalmente i vecchi assetti politici, ma ha creato anche una società non statica, bensì capace di svilupparsi dal punto di vista sia economico che culturale: una sorpresa per chi riteneva che la religione, per natura più dogmatica dell’ideologia politica, impedisse l’evoluzione del pensiero e  la sua influenza sulla convivenza civile.

Il discorso non si limita alla realtà di un solo Paese, per quanto ricco di stima e di cultura, ed anche potente per produzione e per forza militare, quale è l’Iran.

La rivoluzione del 1979 è stata l’ultima dello scorso vecchio ma ha anche anticipato la tendenza all’affermazione identitaria, propria di quello nuovo.

Se questa affermazione si restringe all’etnia, al “blut und boden”, allora c’è il rischio che porti ad un “bellum omnium contra omnes”, come dimostra il fallimento dell’Europa sulla Grecia.

Se si rivela invece in grado di cogliere la dimensione spirituale, essa porta non a rafforzare i confini, o a crearne dei nuovi, ma a superarli: ed anche qui l’esempio viene dalla cronaca di questi giorni, con il Papa che aiuta l’America Latina a ritrovare una aspirazione ed un progetto di riscatto comune.

Si dirà che l’America Latina è coesa dalla religione, ed è vero. Tuttavia, anche quando vi sono differenze di culto, la fede tende ad affermare una comunanza di sentire che è interconfessionale, in quanto Dio appartiene tutti.

Il futuro dirà se l’affermazione delle identità ci porterà a scoprire quanto unisce o quanto divide. Per ora constatiamo che, a Cuba come in Bolivia, in Iran come in Grecia non vi è soluzione possibile senza il rispetto della scelta per la libertà e per la dignità che i popoli hanno affermato.

 

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Alfonso Maria Bruno

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