L'aborto nel pensiero femminista e femminile

ROMA, domenica, 26 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’articolo “L’aborto nel pensiero femminista e femminile” di Laura Palazzani, apparso sulla rivista della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum “Studia Bioethica”, Vol. 1, No. 2 (2008).

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1. La discussione sulla questione dell’aborto è strettamente connessa alla riflessione sulla donna, data la collocazione fisica del feto nel corpo della donna. È la donna che vive una esperienza che l’uomo non vive: vive contestualmente il proprio corpo e la presenza di un’altra vita nel proprio corpo. Emerge dunque il possibile conflitto tra il diritto di autodeterminazione della donna sul proprio corpo (sul feto come parte del proprio corpo) e il dovere di responsabilità nei confronti dell’altro nel proprio corpo (riconosciuto come soggetto). Il femminismo ha enfatizzato il diritto di autodeterminazione della donna, mentre il pensiero femminile ha temizzato il dovere di relazione responsabile nei confronti del feto.

Con l’espressione ‘femminismo’ si indica quella linea di pensiero (estremamente eterogenea) che focalizza l’attenzione sull’analisi delle ragioni della subordinazione delle donne e la teorizzazione di un cambiamento della condizione di marginalizzazione se non esclusione della donna rispetto all’uomo, criticando la discriminazione teorica e pratica delle donne e combattendo il sessismo (o discriminazione dei sessi), il maschilismo androcentrico patriarcale (o indebita prevaricazione dell’uomo sulla donna). Con ‘pensiero femminile’ si indica una riflessione fenomenologica sulla soggettività femminile, posta a confronto con la soggettività maschile, al fine di porre in evidenza elementi comuni e differenti, allo scopo di integrare il sapere tradizionale che non aveva posto specifica attenzione sul tema.

2. Il femminismo, nell’ambito della rivendicazione dei diritti delle donne, ha due obiettivi polemici principali. Il primo obiettivo polemico è il matrimonio (eterosessuale), considerato la istituzionalizzazione della oppressione delle donne a causa della assegnazione del ruolo privato-domestico alle donne e del ruolo pubblico agli uomini, con la conseguente gerarchizzazione e normalizzazione della priorità maschile che ha portato ad una svalutazione delle donne. Il secondo obiettivo polemico è la sessualità/procreazione, in riferimento al ruolo biologico riproduttivo della donna (gravidanza e parto) e al ruolo accuditivo, vissuti dalle donne come “giogo biologico” da cui riscattarsi. La liberazione delle donne (mogli/madri) si può ottenere, secondo il pensiero femminista, in due modalità: mediante l’annullamento della centralità del matrimonio eterosessuale (equiparandolo alle unioni di fatto anche omosessuali) e mediante la rivendicazione di diritti riproduttivi negativi (ossia il diritto a non procreare) e di diritti riproduttivi positivi (o diritto a scegliere come procreare). L’aborto rientra nei diritti riproduttivi negativi.

Il dibattito femminista sull’aborto si articola a due livelli: l’aborto come necessità politica e l’aborto come liceità morale.

L’aborto come necessità politica parte dalla considerazione della disuguaglianza e asimmetria tra uomo e donna: anche se il feto avesse valore dovrebbe essere sacrificato, secondo tale prospettiva, al fine di realizzare l’uguaglianza dei sessi e riequilibrare i rapporti di potere. Alla donna deve essere riconosciuto un potere sul proprio corpo: avendo un ‘onere’ aggiuntivo, in senso biologico, deve avere un ‘potere’ aggiuntivo. Ma tale argomento risulta fragile in quanto la morale trascende le condizioni storico-sociali: del resto anche se il patriarcato fosse abolito sul piano politico-sociale, rimarrebbe il problema morale dell’aborto.

La discussione sulla liceità morale dell’aborto (a partire dalla considerazione che la illiceità dell’aborto significherebbe perpetuazione del patriarcato) si sviluppa nell’ambito della prospettiva libertaria e della prospettiva relazionale.

I presupposti filosofici del femminismo libertario rimandano alla identificazione della soggettività (degna di rilevanza morale) con l’individuo autonomo; al soggettivismo etico, ritenendo che i valori non siano conoscibili oggettivamente (non cognitivismo etico) ma debbano essere posti e creati dal soggetto stesso; alla concezione neutrale del diritto come prodotto e strumento della volontà e difesa della volontà individuale. Nell’ambito di tale linea di pensiero si rivendica il diritto all’aborto come diritto di autodeterminazione della donna e come controllo della sessualità e del corpo. L’aborto è inteso come un metodo per il controllo della sessualità e per l’amplificazione della libertà sessuale identificata con il controllo delle nascite, se i metodi contraccettivi non funzionano o come metodo alternativo ai metodi contraccettivi (essendo considerata la contraccezione svantaggiosa, per la non sicurezza e il rischio per la salute della donna). L’aborto è considerato un mezzo per il controllo del corpo, in quanto la libertà è intesa come autonomia (o autodeterminazione arbitraria), la volontà individuale è considerata prioritaria rispetto al corpo e il feto è ridotto ad oggetto di proprietà. La radice filosofica di tale linea di pensiero è riconducibile al dualismo antropologico (la volontà è separata dal corpo, ridotto a materia) e alla non soggettività del feto (non ancora autonomo, ridotto ad oggetto in quanto parte del corpo).

Secondo questa linea di pensiero, la considerazione del feto come elemento eticamente rilevante nella scelta di non abortire ridurrebbe la donna a mero “contenitore fetale”, non considerandola un “agente morale”. Il feto costituirebbe una ‘interferenza’ alla autonomia e libera scelta della madre. L’argomento del femminismo libertario si basa sulla seguente considerazione: se A (madre) ha il dovere verso B (feto) non significa che B abbia un diritto verso A (non reversibilità diritti/dovere): la madre ha un dovere di beneficenza (aiutare chi ha bisogno, ossia il feto), ma astenersi dal dovere non implica ingiustizia (potrebbe semmai essere biasimevole in quanto comportamento egoista). È la tesi del “samaritano minimale” (in contrapposizione al ‘buon samaritano’ che riconosce doveri forti).

Vi sono alcuni elementi deboli del femminismo libertario. In primo luogo l’essere umano non è riducibile alle sue funzioni, quali l’autonomia: se cosi fosse, non solo il feto non sarebbe soggetto, ma anche l’individuo che dorme sarebbe escluso dalla soggettività, con conseguenze inaccettabili. Il feto, oltretutto è un essere umano a pieno titolo, data la continuità graduale e coordinata dello sviluppo umano dal momento del concepimento. In secondo luogo il concetto di autonomia non significa solo libero arbitrio, ma l’autonomia presuppone anche il limite della responsabilità verso gli altri (anche verso il feto, soggetto umano a pieno titolo). La vita è un bene fondamentale quale condizione di possibilità dell’esistenza e della coesistenza, dunque anche dell’esercizio dell’autonomia. In questo senso l’uccisione di una vita è un male in sé (non meramente un effetto collaterale sproporzionato) e l’aborto non è mancanza di assistenza/beneficenza, ma un attacco diretto alla vita. Il diritto non è riducibile a strumento della volontà arbitraria (quale prevaricazione del più forte sul più debole), ma è la condizione della coesistenza sociale che non può garantire tutta la libertà, ma deve assicurare la libertà di tutti (incluso il feto). La liberazione della donna a danno del nascituro non è pertanto libertà autentica.

La prospettiva del femminismo relazionale pone al centro della riflessione il soggetto relazionale, identificando la relazione con il possesso di funzioni astratte dall’individuo, quali l’autonomia, in senso minimale (fisico-psichica) e massimale (sociale). Se il feto non è soggetto perché non ha relazioni sociali, è invece soggetto nella misura in cui ha una relazione biologica con la madre: ma data la asimmetria e dipendenza del feto dalla madre, il suo valore (di soggetto relazionale) dipende dal riconoscimento della madre. Il feto non ha un valore in sé ma è la madre che attribuisce valore al feto, determinandone lo stato sociale: non importa il val
ore che danno altri al feto; la madre non è obbligata a tale riconoscimento (in quanto soggetto autonomo). Tale linea argomentativa risulta debole in quanto la relazione è una dimensione della soggettività, ma non la costituisce originariamente. L’individuo è già persona quando entra in un rapporto sociale di riconoscimento (ossia preesiste alla relazione): se si parla di riconoscimento significa che il valore c’è già. Vi è anche una considerazione fattuale: la possibilità della ectogenesi (ossia la possibilità tecnica che il feto possa esistere fuori dall’utero) dimostra che il feto potrebbe esistere anche senza la relazione biologica, potendo stabilire una relazione sociale con la madre, seppur dall’esterno o con il personale sanitario; ciò evidenzierebbe la indipendenza del feto dalla madre e dunque la sua soggettività morale.

3. All’interno dello stesso femminismo è sorta una linea “critica” che ha riconosciuto la illusione di una falsa emancipazione (“utopia della liberazione”) della donna dal condizionamento maschile con l’esaltazione della autonomia, evidenziando il rischio che la donna divenga strumento asservito alla tecnoscienza, con la conseguente espropriazione del corpo femminile e della specificità del ruolo femminile. La nascita del ‘pensiero femminile’ mette in luce il contributo emergente dalla soggettività femminile a partire fenomenologicamente dalla diversità esistenziale fisico-psichico-sociale, dall’esperienza della differenza femminile/maschile al fine di riformulare ed integrare (non contrapporsi) all’etica tradizionale. Una delle categorie su cui il pensiero femminile ha posto attenzione è quella della ‘cura’, non nel significato ristretto di guarire, ma nel significato ampio di prendersi cura degli altri, preoccuparsi per gli altri, porsi in rapporto agli altri con atteggiamento di sollecitudine.

C. Gilligan, nel volume In a different voice: psychological theory and women’s development (1982), studia lo sviluppo psicologico-morale di maschi e femmine: dalla rilevazione empirica trae alcune considerazioni generali sulla diversità (non gerarchica) di approcci morali (intesi come modi di ragionare in etica), distinguendo l'”approccio morale maschile” caratterizzato dalla autoreferenzialità, dalla metodologia formale, astratta, imparziale, dal ragionamento logico-deduttivo, secondo giustizia (in riferimento a principi universali, regole di simmetria e razionalità); e l'”approccio femminile” basato sulla relazionalità, la responsabilità, il coinvolgimento interiore personale, concreto e contestuale, il vincolo affettivo, basato su un ragionamento induttivo-esperienziale, in una modalità che pone al centro la cura (come attenzione, ascolto, empatia, preoccupazione, sollecitudine, compassione). Il prendersi cura è un atteggiamento strutturalmente relazionale nei confronti di chi è debole e vulnerabile, in condizione di non potere ricambiare le azioni (in contrapposizione all’individualismo, al contrattualismo e all’utilitarismo).

C. Gilligan applica questa visione anche alla riflessione sull’aborto, commentando interviste a donne che affrontano tale scelta, mettendo in evidenza il conflitto tra egoismo (cura di sé) e responsabilità (cura dell’altro), parlando di cura come “prendersi cura della vita”. L’autrice mette in rilievo la percezione del legame che la donna sente con il feto dentro di sé, come legame che intercorre tra sé e l’altro dentro di sé; l’intuizione dell’interdipendenza (presenza di un altro dentro di sé); l’esperienza di appropriazione e di estraniazione, la trascendentalità del proprio corpo come non disponibilità arbitraria del corpo. La percezione della relazionalità asimmetrica e areciproca suscita un sentimento di responsabilità relazionale nei confronti di chi è debole, inerme, bisognoso di cure: è la “morale materna” della responsabilità totale per l’assoluta dipendenza (il feto non è percepito come ostacolo dell’autonomia, ma come essere vulnerabile che dipende dall’altro, dunque esige un atteggiamento di responsabilità). Il vissuto relazionale madre/figlio diviene narrazione della percezione della vita dentro di sé e drammatica consapevolezza che aborto significa uccisione; proprio la irreversibilità della scelta amplifica la responsabilità. Gilligan sottolinea l’accudimento e la cura come esigenza obiettiva del rapporto, come “impegno a prendersi cura della vita” quale “il principio più adeguato per risolvere i conflitti che sorgono nei rapporti umani”.

Si tratta di un approccio interessante, ma il taglio psicologico (basato su intuizioni, percezioni, esperienze, vissuti) ne evidenzia la debolezza argomentativa, lasciando aperto il rischio che prevalga la cura di sé rispetto alla cura dell’altro, il rischio che la cura divenga affermazione del più forte sul più debole. È dunque necessaria un’ integrazione filosofica che tematizzi lo statuto ontologico della vita nascente oltre che etico-giuridica che giustifichi la rilevanza di una compresenza complementare della cura e della giustizia: la cura non sostituisce la giustizia, ma la integra e la invera, presupponendo il riconoscimento della pari dignità ontologica di ogni essere umano, incluso il feto.

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ZENIT Staff

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