Karol Wojtyla, “il Papa dell’Incarnazione”

Nel suo ultimo libro Gian Franco Svidercoshi parla dell’eredità di Giovanni Paolo II

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di Mirko Testa

ROMA, domenica, 20 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Karol Wojtyla fu “il Papa dell’Incarnazione”. Il Papa che seppe far incontrare nuovamente l’uomo con Dio. E’ questo in poche righe il messaggio al cuore del volume “Il Papa che non muore. L’eredità di Giovanni Paolo II” (Edizioni San Paolo) scritto da Gian Franco Svidercoshi.

Nel libro Svidercoschi, che fu Vicedirettore de L’Osservatore Romano e collaborò con Giovanni Paolo II alla stesura di “Dono e Mistero” (1996), riunisce come una serie di istantanee da cui emergono non solo la storia personale e il profilo umano e spirituale di Karol Wojtyla, ma anche i cambiamenti mondiali ai quali partecipò e dei quali fu spesso ispiratore.

Il suo racconto comincia con la descrizione dei giorni che seguirono la morte di Papa Wojtyla. La processione silenziosa davanti al feretro esposto. La gente che si accalcava per l’estremo saluto. Poi segue il giorno dei funerali in piazza San Pietro e il vento che “voltava” le pagine del Vangelo posto sulla bara, fino a chiuderlo come a segnare la fine di una vita. E quei cartelli con su “Santo subito” apparsi improvvisamente tra la gente.

Era quella l’“eredità del cuore” lasciata da questo Papa carismatico, profetico, missionario; un Papa della “visione” e dell’utopia; un Papa che aveva contribuito alla caduta del Muro di Berlino, al ritorno di alcuni Paesi alla democrazia, ed aveva scongiurato una guerra di civiltà. Un Papa che aveva fatto sette volte il giro della terra, e ne aveva visitato quasi tutti i Paesi.

Il Papa delle “prime volte”: il primo a entrare in una sinagoga (a Roma) e in una moschea (a Damasco); a riunire in preghiera per la pace ad Assisi i rappresentanti di tutte le religioni; il primo a non avere timore di chiedere perdono per le colpe commesse in passato dai cristiani; il primo a mettere insieme milioni di giovani, in ogni parte del mondo, per dei raduni religiosi; e il primo che “esaltò il ‘genio’ femminile, mentre ancora serpeggiava negli ambienti ecclesiastici una forte misoginia”.

Dalla parte dell’uomo

La storia di Karol Wojtyla – la sua storia giovanile, e poi di sacerdote, di Vescovo – viene tratteggiata a grandi linee nel volume sullo sfondo dei due totalitarismi, entrambi figli della “cultura dell’immanenza”, che avevano tentato di annientare l’uomo e di espropriarlo della sua stessa anima.

Per Svidercoschi fu questa sua “profonda conoscenza del male che può scatenarsi contro l’uomo” a portarlo a difendere tenacemente, in nome del Vangelo, “la causa dell’uomo”.

Il suo pontificato fu quasi una naturale prosecuzione dell’attività pastorale che aveva cominciato a svolgere a Cracovia, a San Floriano, all’inizio degli anni Cinquanta. Quando, nella sua catechesi agli universitari ancora “imbottiti” di marxismo, parlava non solo di Dio e di fede ma anche di lavoro e di amore. “E svuotava – scrive Svidercoschi – il comunismo dal di dentro, mostrandone le gravi irrimediabili carenze sul piano della dignità umana, della dimensione spirituale dell’uomo”.

Fu proprio il fatto di aver conservato intatta la sua profonda umanità a permettere a Papa Wojtyla di arrivare al cuore delle persone e a far sentire la vicinanza di Dio soprattutto ai meno fortunati, ai poveri, ai piccoli, a tutti coloro che soffrono.

“Come quella volta a San Francisco – racconta il vaticanista –, quando Giovanni Paolo II strinse tra le braccia un bambino malato di Aids. O quando, nell’isoletta sotto la Corea del Sud, volle baciare quel lebbroso che guardandolo fisso lo aveva ‘costretto’ a voltarsi, a tornare da lui. O ancora, in Brasile, quando raccontò a una bambina cieca come fosse ‘fatto’ il Papa, come fosse vestito, dove andasse; e lei, intanto, come a trovare conferma del racconto, lo sfiorava con le sue manine”.

La nostalgia di Dio

Di fronte all’avanzare del “deserto spirituale” della modernità, scrive l’autore, il Papa seppe accompagnare gli uomini nel cammino verso una nuova ricerca di senso, di significato della propria esistenza e far “risentire così la nostalgia di un Dio forse lontano, forse addirittura messo a tacere al fondo della propria coscienza, ma mai completamente dimenticato”.

“L’uomo contemporaneo – spiega Svidercoschi – cominciava a rendersi conto della vacuità di una vita senza radici, puramente terrena, priva di valori, una vita senza più una propria identità, rinchiusa su se stessa. Era un malessere ancora senza nome, vago, inespresso”, che racchiudeva “una vera e propria sete di paternità”.

“Ed è appunto a quest’uomo in cerca di senso, ma anche in cerca degli ‘altri’, e soprattutto a queste nuove generazioni prive letteralmente di padri, che Giovanni Paolo II ha saputo dare una risposta, costringendo a levare lo sguardo sul trascendente”.

Il Papa polacco divenne così l’incarnazione di una fede vissuta visibilmente, capace di “far ‘vedere’ il volto del Signore anche a chi non lo conosceva, anche a chi lo respingeva, lo negava”.

Giovanni Paolo II fu quindi, fondamentalmente, “l’artefice di una profonda rivoluzione spirituale”, un nuovo modo di vivere oggi da cristiano, di “’immergere’ la fede nella società moderna senza annacquare per questo la propria identità”.

L’eredità: un popolo in cammino

A distanza di tempo, scrive Svidercoschi, tanta gente continua ad andarlo a trovare, a “’vederlo’ come un Padre con le braccia spalancate”, ed è come se quella “’catena’ umana, formatasi subito dopo la scomparsa di Karol Wojtyla, non si fosse mai interrotta, mai spezzata”.

In questa folla, spiega l’autore, si nasconde il senso profondo e più autentico dell’eredità di Giovanni Paolo II: questa moltitudine è lo specchio fedele della Chiesa che lui ha, in qualche modo, plasmato. “Una Chiesa pellegrinante, anzi, che è essa stessa ‘movimento’, un continuo avanzare verso nuovi lidi”.

In particolare, continua il giornalista, quella che Giovanni Paolo II ha lasciato dietro di sé è “una Chiesa centrata sul primato della parola di Dio, quindi della vita interiore e della santità”, una santità “aperta” a tutti, però, “non più monopolio dei Paesi di antica evangelizzazione, dei chierici e in principal modo dei religiosi”.

“Una Chiesa più carismatica, più laicale, non più una Chiesa fortemente clericale, gerarchica”; e ancora, “una Chiesa non più dominata dal moralismo, cioè da una vita cristiana ridotta alla questione morale, oltretutto caricata solo di divieti, di pesi, di principi molto astratti, formali”.

“Una Chiesa rappacificata anche con le altre Chiese cristiane, una Chiesa promotrice di un nuovo rapporto con le altre religioni”, “una Chiesa attenta alle inquietudini metafisiche dell’uomo, ma anche più rispettosa della sua libertà”.

La Chiesa lasciata in eredità da Giovanni Paolo II, come disse all’indomani della sua elezione lo stesso Benedetto XVI è “una Chiesa più coraggiosa, più libera, più giovane”. Una Chiesa che, secondo l’insegnamento e l’esempio di Papa Wojtyla, “guarda con serenità al passato e non ha paura del futuro”.

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ZENIT Staff

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