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Jean Vanier: “Il Papa? Si comporta da fratello, più che da padre…”

Il fondatore della comunità L’Arche spiega come la cultura dell’incontro possa aiutare le persone “umiliate” a riscattarsi

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Una “cultura della gioia” che ben si sposa con la “cultura dell’incontro”. È molto in linea con la pastorale di papa Francesco, il pensiero di Jean Vanier, fondatore della comunità L’Arche, che in un’intervista all’Osservatore Romano, ha parlato della sua spiritualità e del suo servizio alle persone disabili, in particolare i disabili mentali.
Secondo Vanier è importante non pretendere di “risolvere tutti i problemi”, tuttavia è prioritario “creare luoghi della gioia dell’incontro, compiere piccoli gesti, come Papa Francesco ci invita a fare, accogliere le persone, creare comunità più aperte”.
“Nella chiusura la gioia non si può sviluppare – ha proseguito il fondatore de L’Arche –. Se di fronte ai mali del mondo, uno reagisce solo con la rabbia, crea infelicità attorno a sé. E poi c’è la speranza, c’è sempre un cammino di speranza, grazie a Gesù”.
Di seguito Vanier ha confidato la sua commozione di fronte all’atteggiamento del Pontefice, che ha visitato la comunità de L’Arche di Ciampino, in occasione di uno dei Venerdì della Misericordia. “Il Papa va incontro alle persone che si sentono messe da parte, ferite, umiliate – ha dichiarato -. Più che come un padre, si comporta come un fratello, stringe le persone tra le braccia. Il Santo Padre è tra quelli che si rivelano attraverso il contatto, le mani, lo sguardo, il tono della voce. Dice alle persone che sono belle, che hanno un valore, per incoraggiarle”.
Vanier ha poi spiegato che l’“umiliazione” nei confronti dei disabili mentali è essenzialmente il “risultato dell’esclusione”, quindi è necessario aiutare le persone che sono state umiliate a “capire il significato del proprio valore”. In questo ci è di esempio San Francesco che, dapprima, provava “repulsione per i lebbrosi”, poi, con loro, ha vissuto “un incontro che gli ha fatto bene”, rivelando “ai lebbrosi che erano belli” ed ha “provato una dolcezza nuova nel corpo e nello spirito”.
Al giorno d’oggi, purtroppo, ha constatato Vanier, molti vivono una “paura dell’incontro” e – complici anche i media – non si vuole più, ad esempio, “riflettere su ciò che l’aborto significa, non cerca di sapere che il mistero di ognuno comincia con il concepimento, e dura fino alla morte”.
Troppe persone, ha aggiunto, si ritrovano “rinchiuse nelle loro certezze” e cambiano prospettiva solo quando si trova “di fronte a qualcosa che obbliga a cambiare”, come il buon samaritano, dinnanzi all’uomo ferito. Ci si avvicina agli altri, quando ci si rende conto che si ha “bisogno di aiuto” a sua volta, che “non si è più onnipotenti”, perché “inconsapevolmente, si pensa che potrebbe accadere anche a noi”.
Trionfa la cultura dell’“aborto” o del “suicidio assistito”, perché delle persone anziane o malate di Alzheimer, “ci si vuole sbarazzare”, in quanto “costano troppo e non c’è personale a sufficienza”. In molte residenze per anziani, osserva Vanier, c’è un “clima teso” ma se “regna la gioia” e il responsabile distribuisce “sorrisi”, tutto il personale si comporterà di conseguenza: a volte ciò dipende “dalla volontà di una sola persona”.
Possono essere tante le motivazioni che spingono ad aprirsi agli alti: “una persona che è stata aiutata nella vita, il frutto di un pellegrinaggio, qualcuno che ha in famiglia un membro che soffre”. Serve, quindi, “un’esperienza, ma anche una comprensione, ossia una presa di coscienza che l’umanità si evolve, che è importante scoprire che ogni essere umano è mio fratello”, ha poi concluso Vanier. [L.M.]

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ZENIT Staff

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