Intervento della Santa Sede a Ginevra sull'accesso all'acqua potabile

ROMA, martedì, 21 settembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’intervento pronunciato il 16 settembre scorso dall’Arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni Specializzate a Ginevra, alla quindicesima sessione ordinaria del Consiglio dei diritti dell’uomo sull’accesso all’acqua potabile.

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Presidente,

mi permetta di cominciare ringraziando l’Esperto Indipendente per il suo Rapporto sulla questione degli impegni dei diritti umani legati all’accesso all’acqua potabile e alla sua erogazione e ai servizi sanitari, nonché alla responsabilità della partecipazione degli erogatori non statali del servizio in questo contesto.

La disponibilità di acqua dolce è divenuta sempre più naturalmente legata ai diritti umani quali il diritto alla vita e quello alla salute. Sebbene negli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (mdgs) la comunità internazionale si sia prefissata lo scopo di ridurre entro il 2015 il numero di persone globalmente senza accesso sostenibile all’acqua potabile e alla sanità di base, circa novecento milioni di persone oggi per bere, per cucinare e per altre necessità di base continuano a contare su risorse idriche che non hanno subito alcuna miglioria. Oggi, circa 2,5 miliardi di persone nel mondo, circa la metà della popolazione del mondo in via di sviluppo, vivono in condizioni sanitarie obsolete. Di conseguenza, ogni anno, circa 1, 8 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni muoiono per malattie diarroiche (quali colera, tifo e dissenteria) attribuibili all’assenza di acqua potabile e di servizi sanitari di base. Molte altre malattie sono direttamente imputabili a un’inadeguata erogazione di acqua dolce per bere e per l’igiene di base (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente. The Greening of Water Law: Managing Freshwater Resources for People and the Environment. New York: 2010).)

Molti ostacoli impediscono di progredire verso il raggiungimento degli obiettivi prefissati, non da ultima l’incapacità degli amministratori di garantire una distribuzione corretta di risorse idriche nelle aree periferiche e nelle zone degradate dei grandi centri urbani a causa della mancanza di fondi o di capacità tecniche. I poveri spesso soffrono, non tanto per la scarsità d’acqua in sé, ma per l’impossibilità economica di accedervi. (Come osservato nel Rapporto del 2006 del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (undp), intitolato Beyond scarcity: Power, poverty and the global water crisis). Secondo il pensiero attuale dominante l’acqua è in primo luogo un bene e il suo prezzo dovrebbe basarsi sul principio di profitto. Questo concetto si fonda sulla teoria secondo la quale il costo di tutto ciò che si usa deve essere a carico del consumatore, di colui che trae utilità dall’uso. Quindi, secondo questa idea, persino i più poveri dovrebbero «pagare» per l’accesso ai cinquanta litri di acqua potabile considerati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità la quantità giornaliera minima indispensabile per la sussistenza. Oggi è impossibile parlare di «bene comune» o di rispetto per i diritti umani fondamentali senza prendere in considerazione il diritto a vivere in un ambiente sano. L’acqua è un bene sociale, economico e ambientale, la cui gestione deve basarsi sulla responsabilità sociale, su una mentalità orientata al comportamento ecologico e alla solidarietà all’interno dei Paesi e globalmente. La dignità e il benessere della persona umana devono essere il punto centrale di convergenza di tutte le questioni legate allo sviluppo, all’ambiente e all’acqua. Ne consegue che l’accesso all’acqua dovrebbe essere possibile a tutti ora e in futuro poiché senza di esso le persone non possono essere autori del proprio sviluppo. In particolare, tutti, inclusi i poveri, dovrebbero essere coinvolti in decisioni e in processi politici legati alla gestione dell’acqua.

La lotta alla povertà e alla fame richiede interventi sempre più mirati e solidarietà per garantire l’accesso universale all’acqua per la sopravvivenza personale, la salute e lo sviluppo dell’agricoltura e della produzione alimentare. Quindi la Chiesa cattolica insegna che: «L’acqua, per la sua stessa natura, non può essere trattata come una mera merce tra le altre e il suo uso deve essere razionale e solidale. La sua distribuzione rientra, tradizionalmente, fra le responsabilità di enti pubblici, perché l’acqua è stata sempre considerata come un bene pubblico, caratteristica che va mantenuta qualora la gestione venga affidata al settore privato… Senza acqua la vita è minacciata. Dunque, il diritto all’acqua è un diritto universale e inalienabile» (Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 485, Libreria Editrice Vaticana, 2004)

Presidente, ancora una volta ribadiamo il nostro apprezzamento per il Rapporto presentato al Consiglio. Infine, la mia Delegazione desidera sottolineare la sinergia e la responsabilità dello Stato e del settore privato nel subappaltare i servizi idrici e sanitari, nell’adottare misure mirate per raggiungere i più emarginati, nello sviluppare strutture di ricerca per un uso efficace dell’acqua nei conglomerati urbani e nell’agricoltura, nel controllare l’utilizzo dei fertilizzanti chimici per il loro impatto sui fiumi e sui corsi d’acqua sotterranei e i conseguenti danni alla salute, nell’evidenziare modalità remunerative con cui la gestione e l’erogazione delle risorse idriche e dei servizi idrici e sanitari contribuiscono a raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio.

[L’OSSERVATORE ROMANO – Edizione quotidiana – del 22 settembre 2010]

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ZENIT Staff

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