Interventi per la quinta Congregazione generale nel pomeriggio del 7 ottobre

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 7 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito gli interventi tenutisi mercoledì pomeriggio nella quinta Congregazione generale del Sinodo dei Vescovi sull’Africa.

 

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– S. Em. R. Card. Jean-Louis TAURAN, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso (CITTÀ DEL VATICANO)

La religione tradizionale africana (RTA) esercita ancora una forte influenza sugli africani che sono per natura religiosi.
Già prima dell’arrivo del cristianesimo e dell’islam, le popolazioni riconoscevano l’esistenza di un Essere Supremo, il “Grande Vivente”: i missionari cristiani non hanno fatto scoprire Dio agli africani (ne avevano già una percezione): essi hanno portato loro Gesù Cristo, il “Dio che possiede un volto umano” (Spe salvi, 31)!
L’islam è in costante crescita grazie a tre strumenti: le confraternite, le scuole coraniche e le moschee. È in generale tollerante, a eccezione di qualche situazione ben nota (Nigeria).
L’attività delle sette, a causa della semplicità delle credenze, seduce molto gli africani afflitti dalla precarietà. Di fronte a questa situazione, i vescovi non esitano a reagire e il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso cerca di sostenere la loro azione aiutandoli a diffondere un insegnamento sulle diverse religioni in Africa, nell’ambito della formazione al sacerdozio e alla vita religiosa, organizzando sul posto sessioni di formazione per i formatori.
Sarebbe opportuno che l’Assemblea Sinodale incoraggiasse lo studio della religione tradizionale africana, che invitasse a una maggior cura pastorale nei confronti di coloro che vivono a contatto con la RTA e che suggerisse ciò che è possibile fare insieme per il bene comune.
La Chiesa cattolica possiede uno strumento particolarmente adatto alla promozione della riconciliazione, della giustizia e della pace: le scuole e le università cattoliche.
Lo sviluppo delle sette può essere considerato anche un invito rivolto ai pastori a curare maggiormente la trasmissione del contenuto della fede nel contesto culturale africano. Se vogliamo rispondere alla domanda: cosa ha da dire di nuovo agli africani il Vangelo?, è fondamentale conoscere e apprezzare le radici religiose dei popoli di questo continente poiché, secondo un proverbio africano, “solo affondando le proprie radici nella terra fertile, l’albero può crescere”.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Tarcisius Gervazio ZIYAYE, Arcivescovo di Blantyre, Presidente della Conferenza Episcopale, Presidente dell’Associazione dei Membri delle Conferenze Episcopali in Africa Orientale (A.M.E.C.E.A.) (MALAWI)

In quanto Chiesa in Africa non dobbiamo gioire soltanto per il numero crescente di cattolici; scopo autentico della nostra evangelizzazione dovrebbe essere quello di far sì che, alla base dell’evangelizzazione dei cuori umani, vi sia un adeguato approccio alla Parola di Dio, che preparerà il cammino a una vita cristiana orientata più alla qualità che non alla quantità.
Siamo chiamati a passare a una catechesi più matura, che promuova una vera identità cristiana e una profonda conversione dei cuori. È scoraggiante osservare che i cattolici oggi in Africa partecipino a scontri politici ed etnici, che i politici cattolici possano essere coinvolti in gravi casi di corruzione nella pubblica amministrazione e che alcuni dei nostri cattolici ricorrano a pratiche occulte nei momenti di difficoltà: tutto ciò ci dice che c’è ancora molto da fare per promuovere una fede che trasformi i cuori e una fede che renda giustizia.
Occorre una formazione più seria, a tutti i livelli della Chiesa in Africa, nella dottrina sociale della Chiesa (CST) e una migliore penetrazione dell’inculturazione nella nostra teologia e non solo nei nostri rituali.
A questo scopo ripeto ciò che la gerarchia cattolica del Malawi ha sottolineato nella sua Lettera pastorale “Approfondendo la nostra vita cristiana”. Il messaggio è quello di intensificare nei nostri cuori il desiderio ardente di vivere una buona vita cristiana che rifletta una Chiesa di preghiera, di testimonianza e di servizio.
Il modo più sicuro per superare persecuzioni, ingiustizia, tribalismi, regionalismi, corruzione politica ed economica, è un cuore umano completamente catechizzato!
Con la riconciliazione, quanti si sono allontanati possono prendersi per mano in amicizia e le nazioni cercare insieme la via della pace.

[Testo originale: inglese]

– S. E. R. Mons. Robert SARAH, Arcivescovo emerito di Conakry, Segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli (CITTÀ DEL VATICANO)

La “teoria del genere” è un’ideologia sociologica piuttosto bizzarra (sociologizzante) occidentale sui rapporti uomo-donna, che si oppone all’identità sponsale della persona umana, alla complementarietà antropologica tra l’uomo e la donna, al matrimonio, alla maternità e alla paternità, alla famiglia e alla procreazione. È contraria alla cultura africana e alle verità sull’uomo alla luce della Rivelazione divina in Gesù Cristo.
L’ideologia del genere separa il sesso biologico dall’identità maschile o femminile affermando che essa non è intrinseca alla persona, ma è una costruzione sociale. Tale identità può – e deve – essere demolita per consentire alla donna di accedere a un’eguaglianza di potere sociale con l’uomo e al singolo di “scegliere” il proprio orientamento sessuale. I rapporti uomo-donna sarebbero così governati da una lotta di potere.
In nome di questa ideologia irrealistica e disincarnata, che nega il disegno di Dio, si afferma che all’origine noi siamo indeterminati: è la società che forgia il genere maschile e femminile a seconda delle scelte mutevoli dell’individuo. Essendo il diritto di scelta il valore supremo di questa nuova etica, l’omosessualità diventa una scelta culturalmente accettabile, e la possibilità di questa scelta viene in tal modo promossa.
La nuova ideologia è dinamica e si impone al tempo stesso alle culture e alle politiche. Esercita pressioni sul legislatore perché rediga leggi che favoriscano l’accesso universale alle informazioni e ai servizi della contraccezione e dell’aborto (concetto di “salute riproduttiva”), come pure l’omosessualità.
Nella cultura africana l’uomo non è nulla senza la donna e la donna non è nulla senza l’uomo. L’una e l’altro non sono nulla se il bambino non è al centro della famiglia costituita da un uomo e una donna e cellula fondamentale della società. L’ideologia del genere destabilizza il senso della vita coniugale e familiare che l’Africa ha custodito fino a oggi.
La società ha bisogno di verità nei rapporti. Non ci possono essere pace, giustizia e stabilità in una società senza famiglia, senza la collaborazione tra l’uomo e la donna, senza padre e senza madre. In nome della non-discriminazione queste ideologie provocano gravi ingiustizie e compromettono la pace.
L’Africa deve proteggersi dalla contaminazione del cinismo intellettuale dell’Occidente. È nostra responsabilità pastorale illuminare la coscienza degli africani riguardo ai pericoli di questa ideologia omicida.

[Testo originale: francese]

– Rev. Raymond Bernard GOUDJO, Segretario della Commissione “Justitia et Pax” della Conferenza Episcopale Regionale de l’Africa dell’Ovest Francofona (CERAO) (NIGERIA)

La pace non è un contenitore che si può riempire con qualunque cosa, non può essere usata come un trampolino per qualunque idea. La pace è un fine costantemente perseguito che implica l’applicazione di alcuni valori tanto condivisi quanto numerosi.
Di fronte a situazioni sociali critiche, o persino esplosive, assistiamo allo sviluppo di moduli di educazione alla pace. Questi moduli puntano molto più al meccanismo comportamentale che ai valori strutturali. I valori strutturali formano in modo permanente e immediato l’essere umano sia sul piano spirituale che su quello psicologico e morale, conferendogli la capacità di scegliere con forza, in un dato contesto, il proprio bene che coincide anche con il bene comune.
Con il termine educazione, va intesa la pedagogia dell’as
similazione dei valori da parte dell’essere umano, cioè l’opera pedagogica che consiste nell’aprire l’essere umano a una visione integrale di tutto l’uomo e di ogni uomo affinché nelle relazioni, che malgrado la costante della conflittualità, sono finalizzate all’amicizia, egli sia in grado di condurre se stesso, in virtù dello Spirito di consiglio, verso il più elevato bene personale e sociale.
Mi permetto di fare due proposte:
1. La Chiesa-famiglia di Dio in Africa (richiamo al SECAM – SCEAM), in sintonia con la Congregazione per l’Educazione Cattolica, dovrebbe formare il prima possibile una équipe di ricercatori nell’ambito della pedagogia e della comunicazione dei valori sociali e cristiani. Questi ricercatori dovranno ideare e mettere a punto un prontuario e una grammatica del sociale di riferimento per le diverse Conferenze Episcopali regionali e Nazionali. Queste ultime, a loro volta, li arricchiranno grazie alla dedizione delle loro Commissioni Giustizia e Pace, Pastorale Sociale (Caritas), Insegnamento Cattolico, Apostolato dei Laici e della Pastorale Familiare.
2. La Chiesa-famiglia di Dio in Africa (SECAM – SCEAM) dovrebbe essere luogo privilegiato di educazione, di formazione elementare (la famiglia come contesto naturale di trasmissione dei valori umani ai i bambini) e del difficile dialogo senza pregiudizi con la classe dirigente ed elitaria (essa deve confrontarsi anche con problemi immediati e pressanti che i puri enunciati morali non sono in grado di risolvere; anzi, essi tendono ad allontanare dalle verità della fede e dai costumi, in una parola, dalla carità della Chiesa-famiglia di Dio).

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Ambroise OUÉDRAOGO, Vescovo di Maradi (BURKINA FASO)

Nel Niger l’islam è presente in modo massiccio e colora tutte le attività della vita sociale, culturale, economica e politica. Moschee e madrase sono presenti ovunque. Assistiamo anche alla creazione di orfanatrofi, centri sanitari ed enti di solidarietà. Alcuni nuovi movimenti islamici riformisti sostengono radio e televisioni private di indirizzo religioso allo scopo di formare i fedeli musulmani perché vivano e pratichino meglio la religione.
Vivendo al centro di tale contesto socioculturale e religioso, la Chiesa famiglia di Dio nel Niger, consapevole della sua situazione di minoranza, si impegna a vivere e testimoniare l’amore di Dio per essere al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace.
La Chiesa di Dio nel Niger fa del dialogo islamo-cristiano una priorità pastorale della sua missione evangelizzatrice. Senza pretendere di compiere atti straordinari o di prendere iniziative eccezionali, le comunità cristiane, sostenute e incoraggiate dai loro pastori, si impegnano a ricercare e vivere la fraternità universale in uno spirito di gratuità nei confronti dei loro fratelli e sorelle musulmani, attraverso il dialogo di vita, l’ascolto e il rispetto dell’altro, il servizio reciproco in occasione degli avvenimenti fondamentali della vita umana.
A livello della commissione interdiocesana che si occupa delle relazioni islamo-cristiane, abbiamo messo a punto sessioni di formazione che comprendono cristiani e musulmani. Tali sessioni, animate congiuntamente da sacerdoti e imam, hanno permesso non soltanto che cristiani e musulmani sedessero insieme attorno a un tavolo, ma soprattutto che pregassero, si scambiassero opinioni e riflettessero insieme sul ruolo dei capi religiosi nell’educazione civica, nella prevenzione dei conflitti e nella lotta contro la povertà in Niger.
Infine la presenza dell’arcivescovo di Niamey nel comitato ad hoc che si occupa della prevenzione dei conflitti politici e sociali in Niger la dice lunga sulla stima e la credibilità che le autorità politiche nutrono nei confronti della Chiesa in Niger.
Siamo convinti, oggi, che il dialogo tra cristiani e musulmani non solo è possibile, ma necessario e urgente a motivo dei conflitti, delle guerre e delle violenze che affliggono la nostra Africa e il nostro mondo. Se vogliamo un’Africa riconciliata, in cui regnino la Giustizia e la Pace, è utopico e controproducente che i fedeli africani operino in ordine sparso. Occorre che uniamo le nostre forze e i nostri talenti per pregare e operare insieme a favore dell’avvento e della nascita di un’Africa di pace, di giustizia e di perdono. Non dobbiamo avere paura di rischiare le nostre vite sostenendoci con la Parola di Dio che ci salva e ci libera da tutti i mali.

[Testo originale: francese]

– S. Em. R. Card. Francis ARINZE, Prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (NIGERIA)

Per offrire alla Chiesa maggior credibilità e coraggio nella sua missione profetica di predicare la riconciliazione, la giustizia e la pace, occorre preoccuparsi che riconciliazione, giustizia e pace vengano vissute all’interno delle strutture della Chiesa, soprattutto da parte di operatori ecclesiali di rilievo quali vescovi, sacerdoti, religiosi e laici. Offriamo dei suggerimenti che sono presenti in vari articoli dell’Instrumentum laboris (per es. 17, 38, 45, 53, 61, 109 e 110)
Le persone giustamente guardano ai vescovi per una guida. Essi rappresentano le persone più importanti per dimostrare che l’appartenenza etnica, la lingua o il ceto sociale non sono importanti nell’assegnare i compiti nella Chiesa, e che la Conferenza episcopale nazionale opera come un organismo collegiale unico e parla con una sola voce, senza lasciarsi influenzare da considerazioni tribali.
I sacerdoti danno esempio di unità e armonia quando il presbiterio diocesano opera come una fraternità sacramentale, quando sono felici di vivere in comunità di due o tre sacerdoti piuttosto che fare i parroci, che vivono da soli, e quando accolgono con gioia un nuovo vescovo nominato dal Santo Padre senza organizzare fazioni con la miope mentalità dei “figli della terra”. Il successo della Chiesa nel nominare vescovi al di fuori della propria area linguistica rappresenta un messaggio forte per alcune comunità cristiane colpite dal virus politico-sociale di un estremo etnicismo. Dobbiamo qui ricordare con rispetto alcuni sacerdoti che, da quanto riferito, sono stati uccisi durante i massacri tribali perché predicavano la carità e l’armonia senza e al di là di confini tribali.
Le congregazioni religiose offrono una bella testimonianza all’universalità, in quanto i loro membri provengono generalmente da diversi ambienti etnici.
Giustizia: Per servire la giustizia del Regno di Dio, la Chiesa “ha il dovere di vivere la giustizia innanzitutto al suo interno, tra i suoi membri” (IL 45). Le diocesi devono onorare i contratti con le congregazioni religiose e soprattutto far sì che gli uomini e le donne consacrati, i catechisti, quanti lavorano nelle case parrocchiali e altri dipendenti della Chiesa vengano adeguatamente retribuiti. È uno scandalo quando alla fine del mese questi umili lavoratori hanno solo l’acqua santa da portare a casa. Inoltre i parroci dovrebbero ricordare che le offerte dei fedeli durante l’Offertorio non sono soltanto a favore del clero ma per i poveri e per la Chiesa in generale, ivi compresi i consacrati e i catechisti (cfr. Messale Romano, 73; RS, 70).
In alcune diocesi la presenza femminile nei consigli non è sufficiente (cfr IL, 61). Dove la loro collaborazione è adeguatamente apprezzata, si sono avuti risultati molto positivi.
Questo Sinodo può aiutare la Chiesa di ogni paese a rendere una maggiore testimonianza alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. “La vita di una comunità ecclesiale che incarna la Parola diventa allora lampada sui passi della società in generale, affinché siano evitati i cammini di morte e si intraprendano invece quelli che conducono alla vita, cioè alla sequela di Gesù ‘via, verità e vita’” (IL, 38).

[Testo originale: inglese]

– S. E. R. Mons. Adriano LANGA, O.F.M., Vescovo di Inhambane (MOZAMBICO)

È risaputo che, sin dalla Riforma, la Chiesa Cattolica ha affrontato
molte sfide a vari livelli, rispetto ad altre chiese e fedi religiose. Tali sfide, recentemente, sono aumentate e si sono intensificate con la nascita e l’incremento dei Movimenti Evangelici. Oggigiorno, in tale situazione assistiamo all’esodo dei cattolici verso le file di quelle Chiese e di quei movimenti. A testimonianza di ciò vi sono l’aumento vertiginoso di quei gruppi religiosi nonché la nascita di quel cattolicesimo con uno “stile e un linguaggio strani”, un fenomeno questo che non deve essere visto in linea con l’ecumenismo, bensì come una deviazione derivante dalla sconfitta di chi si sente in svantaggio. Come nasce tale fenomeno? Sono varie le ragioni che si possono menzionare, ma qui vorrei sottolinearne una particolare, che è un fatto importantissimo, ovvero la mancanza o l’insufficienza di Inculturazione nei suoi diversi aspetti.
Infatti, discriminando, disprezzando e persino combattendo le culture africane, sottovalutando le lingue locali e incentrando l’evangelizzazione soprattutto sui bambini e non sugli adulti, come è accaduto anche nel recente passato, o proibendo la lettura della Bibbia, come accadeva in un passato non troppo lontano, o, ancora, non traducendo le stesse Scritture nelle lingue locali, la Chiesa Cattolica non è ancora riuscita a dare ai cattolici dell’Africa un linguaggio e uno stile propri. È per questo che i cattolici africani rispetto ai credenti di altre religioni hanno sviluppato un complesso di inferiorità e una certa alienazione. Ed è per questo che i cattolici dell’Africa, desiderando allontanarsi dallo stile europeo e latino-americano nella volontà di sentirsi veramente cristiani cattolici africani, sono ben disposti verso i fratelli africani appartenenti ad altre fedi e altre denominazioni e ne adottano il linguaggio e lo stile.

[Testo originale: portoghese]

– S. E. R. Mons. Francisco João SILOTA, M. Afr., Vescovo di Chimoio, Primo Vice Presidente del Simposio delle Conferenze Episcopali d’Africa e Madagascar (S.C.E.A.M.) (MOZAMBICO)

Al numero 66 del II capitolo dell’Instrumentum laboris, si afferma: “Alcuni ritengono che la ragione profonda dell’instabilità delle società del continente sia legata all’alienazione culturale e alla discriminazione razziale che, nel corso della storia, hanno generato un complesso d’inferiorità, il fatalismo e la paura” (IL 66).
Proseguendo su questa linea di ricerca delle ragioni più profonde, mi rendo conto che il crearsi di questo complesso di inferiorità e di altre questioni è andato ancora più lontano, producendo qualcosa di estremamente grave in molti africani, che chiamerei, bene o male, un’alienazione antropologica. Poiché i fatti dimostrano che molti africani non solo negano quei valori che sono tipicamente loro, ma arrivano anche a negare se stessi. Non accettano la propria “Africanità”. L’orgoglio legittimo che L. Senghor volle infondere con l’ideologia della “Negritudine” è, per molti, una cosa che scivola loro addosso. La campagna per la “Autenticità” intrapresa a modo suo da D. Mobutu, è stata messa in ridicolo! Il “Comunalismo africano” con cui K. Nkrumah ha voluto contraddistinguere il modo di essere dell’uomo africano, è guardato con scetticismo e considerato come qualcosa di anacronistico!
Allora, le domande che sorgono sono: “Dove sei, Africa? Dove ti collochi? Non sarà per caso questo vuoto, questa mancanza di terreno o di base su cui poggi, a costituire paradossalmente la base del tuo dramma? Infatti, come si può conciliare il tuo spirito di accoglienza e di ospitalità con la discriminazione etnica, tribale e regionale che regna in seno alle tue società, ma anche nella Chiesa? Non sarà, questa discriminazione, il frutto di un “transfert” che alcuni dei tuoi figli attuano nei confronti degli altri per il fatto che negano sé stessi? Come spiegare l’evidente contraddizione che esiste fra l’amore incondizionato per la vita, che è tipico dell’africano, e i tradimenti che alcuni dei tuoi figli commettono contro i propri fratelli, causando loro sofferenze disumanizzanti o perfino togliendo loro la vita?
Africa, qual è la via d’uscita da questa contraddittoria situazione?

[Testo originale: portoghese]

– S. E. R. Mons. Fulgence RABEMAHAFALY, Arcivescovo di Fianarantsoa, Presidente della Conferenza Episcopale (MADAGASCAR)

In famiglia, i figli hanno un ruolo insostituibile perché i genitori possano sperimentare la pace e il perdono. In qualsiasi momento, sono capaci di rompere tutto ma sono anche strumenti di pace per far capire ai genitori che non è necessario usare la violenza per una correzione importante. La violenza in famiglia è intollerabile.
Tra fratelli e sorelle, i figli sono strumenti di pace; la saggezza ancestrale esige che i più grandi siano meno intransigenti con i più piccoli. Si correggono anche attraverso linguaggi usuali. Imparano le parole di pace, con dignità e rispetto. I genitori sono i loro modelli di comportamento e trasmettono lo spirito della condivisione, dell’amore al fratello, l’obbedienza e la riconciliazione.
In una famiglia con diversi figli, molti comportamenti vengono appresi facilmente. La situazione è diversa da quella di una famiglia con un solo figlio che, di fatto troppo viziato, si comporta come un principino e i genitori non osano più contraddirlo. Il bambino vorrà sempre essere servito e si esporrà continuamente al pericolo di essere manipolato e traviato.
Perciò, direi, se vogliamo la pace, impariamo ad educare bene i nostri figli, in famiglia. È la pace vissuta in ogni casa a risplendere nella società, il saper vivere, il senso del bene comune, il rispetto per le persone anziane, il senso della condivisione, la cura dei più piccoli e l’ascolto dei genitori.
I bambini che non hanno avuto la fortuna di vivere in una comunità familiare solida, non avranno abbastanza il senso e il valore del sacrificio e dell’obbedienza. La famiglia, prima comunità di vita, è quindi l’educatrice per eccellenza alla pace; e la stessa cosa dovremmo essere noi, Chiesa-Famiglia di Dio del nostro tempo.I valori importanti nella società, tra cui la giustizia, l’amore, il rispetto reciproco, il perdono e la riconciliazione, vengono appresi in famiglia. Il problema è che nel mondo di oggi, il diritto familiare viene messo alle strette; i paesi ricchi pensano che, con il denaro, si possa far tacere tutti, i piccoli e i poveri, e con la violenza, calpestano tutto ciò che è giustizia e riconciliazione, pur di farsi servire.
Noi come Chiesa, siamo chiamati a rispondere in modo obiettivo, più umano e cristiano, alle suppliche dei nostri connazionali afflitti dalla violenza, dall’ingiustizia e dall’insicurezza sociale. Siamo i genitori all’interno della nostra società. Siamo la madre, l’educatrice e la protettrice. Dobbiamo essere sempre all’altezza del nostro compito.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Louis PORTELLA MBUYU, Vescovo di Kinkala, Presidente della Conferenza Episcopale (REPUBBLICA DEL CONGO)

La Chiesa ha una missione profetica urgente in Africa.
Di fronte allo spettacolo desolante offerto al mondo dal continente africano, i cui popoli sono praticamente derubati, spesso per mano dei loro stessi figli, della sovranità che spetterebbe loro, la Chiesa deve rivolgere uno sguardo lucido su tutte le situazioni in cui la dignità umana è calpestata, deve analizzarne le cause, rivelarne i meccanismi e chiamare in causa, senza stancarsi, i responsabili. Il rischio è che, di fronte a così tante ingiustizie e sfruttamenti, la Chiesa smetta di commuoversi, vi si abitui e non ne parli più, divenendo così complice dell’infelicità delle popolazioni, quando invece la sua missione consiste nell’essere “la voce dei senza voce”.
Ma questa missione profetica potrà essere esercitata con autorità morale solo nella misura in cui la Chiesa offrirà al suo interno la testimonianza di una comunità riconciliata. A tutti i livelli (comunità ecclesiali di base, movimenti, comunità religio
se e sacerdotali ecc.), la Chiesa è chiamata a essere uno spazio umano in cui la riconciliazione è sempre all’ordine del giorno. La fecondità della sua presenza è legata a questa testimonianza. Infine, alla Chiesa spetta il compito di partecipare attivamente all’elaborazione di un pensiero politico ed economico autonomo che possa favorire il sorgere di un’Africa riconciliata con se stessa e artefice del proprio destino.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Maurice PIAT, C.S.Sp., Vescovo di Port-Louis (MAURIZIO)

Affinché la Chiesa-Famiglia di Dio sia al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace e sparga così il sale del Vangelo nelle società africane, essa deve poggiare sulla famiglia, che ne è la cellula di base. Da qui l’urgenza sottolineata al n. 20 dell’Instrumentum laboris di essere creativi per rispondere ai bisogni spirituali e morali della famiglia.
Vorrei attirare l’attenzione su uno di questi bisogni, quello dei genitori. Disarmati dinanzi alla violenza che si abbatte sulla loro famiglia o scossi dalla modernità che sconvolge i canali tradizionali di trasmissione dei valori, hanno bisogno di essere sostenuti.
Quando la guerra lacera la loro famiglia, i genitori possono domandarsi che senso possa ancora avere la loro vita e quali valori possono ancora trasmettere ai propri figli. Hanno bisogno di parole che denunciando le cause profonde della violenza, consentano di lottare contro il fatalismo e mostrino il senso che può dare alla vita la lotta per una maggiore giustizia. Anche se non arriveranno mai alla fine di questa lotta, potranno almeno trasmettere ai propri figli il gusto di lottare e di soffrire per la giustizia.
I genitori che sono vittima della violenza hanno anche bisogno di essere accompagnati nel loro cammino di guarigione, che passa necessariamente attraverso la porta stretta della non-violenza che, sola, può restituire loro il gusto di vivere e renderli capaci di trasmettere ai propri figli una ragione di vita.
Per altri genitori sono l’indifferenza e l’aggressività dei figli, catturati nel vortice di una società di consumo e di comunicazione in tutti i sensi, ad essere fonte di profonda sofferenza. I meccanismi della trasmissione tradizionale della fede e dei valori sembrano essere guasti. Essi cercano degli luoghi dove parlarne e hanno bisogno di essere sostenuti.
Quando attraverso le “comunità ecclesiali viventi” i genitori trovano risposta al loro desiderio di ritrovare il gusto di trasmettere e vengono messi a contatto con la Parola di Dio, scoprono, a partire dalle loro prove, un’inaspettata vicinanza con le sofferenze di Cristo che li incoraggia e ridona un senso alla loro vita. Accompagnare le famiglie su questo cammino pasquale appare essenziale, oggi, perché la Chiesa, Famiglia di Dio, sparga il sale del Vangelo in terra africana.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Joseph AKÉ YAPO, Arcivescovo di Gagnoa, Presidente della Conferenza Episcopale (COSTA D’AVORIO)

Come può, la Chiesa in Africa, essere sale della terra e luce del mondo se non si mette in causa nella sua gestione dei fedeli e dei sacerdoti, nel suo esercizio del potere e dell’autorità? Se la Chiesa vuole svolgere il proprio ruolo di operatrice di pace, di riconciliazione e di giustizia efficacemente, deve cominciare col mettere in pratica al suo interno ciò che insegna e preoccuparsi di creare le strutture necessarie e indispensabili per la formazione e l’educazione dei suoi fedeli.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Fulgence MUTEBA MUGALU, Vescovo di Kilwa-Kasenga (REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO)

Per promuovere una cultura di pace, di riconciliazione, di tolleranza, di dialogo e di convivialità nelle nostre popolazioni, le Chiese in Africa hanno interesse ad utilizzare efficacemente i media e ad assumere talune sfide. Nell’epoca del digitale si tratta di un imperativo inevitabile in un ambiente mediatico contaminato dalla manipolazione, dalla propaganda politica, da un clima di divertimento poco edificante e dall’attivismo delle sette, ma anche contrassegnato dall’imperialismo dei media stranieri che si propongono imponendosi.
Da un lato, per essere efficace, la comunicazione ecclesiale deve diventare una priorità pastorale. Per questo, i mezzi di comunicazione sociale devono essere realmente messi al servizio dell’evangelizzazione ed essi stessi evangelizzati. È auspicabile, a questo proposito, che le nostre strutture ecclesiali e le nostre istituzioni ecclesiastiche dispongano, nella misura delle loro risorse materiali disponibili, di loro propri mezzi di comunicazione (radio, giornale, bollettini di informazione, sito internet, televisione, telefono, ecc.) e li utilizzino realmente. In mancanza di mezzi materiali ed economici, si potrà usufruire del sostegno di organi mediatici di altri continenti come pure della solidarietà attiva delle persone di buona volontà. Gli agenti pastorali, ovvero i vescovi, i sacerdoti e i seminaristi, devono imparare ad utilizzare le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione pastorale, in particolare nella pastorale della giustizia, della pace e della riconciliazione. Le nostre popolazioni devono, anch’esse, essere educate all’utilizzo degli strumenti mediatici con discernimento e spirito critico, alla luce dei principi etici e dei diritti umani. Quanto agli operatori della comunicazione delle nostre società, è fondamentale che siano sensibilizzati sulla deontologia del loro lavoro e sulla responsabilità che hanno nella promozione della pace, della giustizia, della riconciliazione e della dignità della persona umana. Come ci raccomanda la dottrina della Chiesa, dobbiamo fondare associazioni di comunicatori cattolici.[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Jean-Bosco NTEP, Vescovo di Edéa (CAMERUN)

Nel suo messaggio in occasione della giornata mondiale della pace del 2004, il compianto Papa Giovanni Paolo II, afferma che la vera pace non è possibile se non si fonda sul perdono e sulla riconciliazione. È affermare l’impotenza delle negoziazioni e delle armi.
Fin dall’inizio della democratizzazione in Africa, i governanti si sono rivolti alla Chiesa affinché li accompagni. Questo appello le ha conferito una nuova missione che ha fatto dire ai Padri del I Sinodo Speciale per l’Africa: “L’educazione al bene comune e al rispetto del pluralismo sarà uno dei compiti pastorali prioritari del nostro tempo” (Messaggio della Prima Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, 34). Papa Giovanni Paolo II rifiutava qualsiasi improvvisazione in una responsabilità così pesante.
Parlando delle “nuove prospettive della riconciliazione”, vogliamo fare eco a questo appello del Santo Padre e intendere la riconciliazione come un modo di essere e di vivere, cioè di costruire una vita piena di attenzioni, di tenerezza e di amicizia e un modo conseguente di vivere con l’altro, con Dio, con se stesso e anche con la natura. La riconciliazione dovrebbe manifestarsi in tutti gli aspetti della nostra vita sociale e religiosa e diventare una testimonianza d’amore.
La riconciliazione, come è stata organizzata in alcuni paesi africani, non ha dato i frutti sperati. Non ha cancellato né il risentimento né la paura. Non ha riscontrato molte adesioni dei cuori. In realtà, non potrebbe limitarsi all’aspetto sociale, pubblico. È innanzitutto un processo personale. La Chiesa ha il vantaggio di parlare al cuore dell’individuo più della politica. Essa deve rivolgersi direttamente alle coscienze individuali, alla capacità di riflessione e di decisione di ogni persona per la scelta della riconciliazione come fondamento della pace e quindi come garanzia di un ordine sociale credibile. Il cristiano sarà quindi condotto all’indispensabile necessità della conversione personale, alla riconciliazione, alla pace come base di una vita ecclesiale.
La nuova prospettiva della riconciliazione che auspichiamo fa appello alla cultura. Occorre instaurare nella Chiesa u
na cultura della riconciliazione, cammino necessario, anzi indispensabile per la pace.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. George NKUO, Vescovo di Kumbo (CAMERUN)

A parte l’avidità, la corruzione e la mancanza di fiducia nei nostri leader politici, uno dei maggiori ostacoli alla giustizia, alla pace e alla riconciliazione in Africa è la povertà. In Africa c’è povertà e in molte parti del continente africano c’è la fame. In Africa ci sono persone avide, compresi i nostri leader, che non si preoccupano dei loro fratelli e delle loro sorelle.
Povertà significa impossibilità di rispondere ai bisogni fondamentali che sono il cibo, l’acqua e la casa. Povertà significa che nella comunità non c’è sicurezza. Povertà significa che non ci sono i mezzi per curare la propria famiglia. Povertà significa che i nostri figli non possono sperare in un futuro in cui avranno una famiglia e mezzi di sostentamento. Povertà significa che la tristezza e la paura hanno preso il posto della gioia e della serenità. È questa la povertà in molte parti dell’Africa. La povertà è la causa principale della fame.
C’è povertà in Africa, eppure l’Africa possiede quasi tutto ciò che serve per essere il continente più ricco del mondo. L’Africa è pressoché il continente più ricco di risorse naturali. I coltivatori sono poveri in Africa perché la produttività della loro terra e del loro lavoro rimane molto bassa. In passato, questo genere di povertà rurale era comune anche in Europa e nell’America del Nord. Sembra che questa povertà debba essere vinta con modi che non abbiamo mai visto prima. È vero che non vi sono soluzioni pronte per risolvere la povertà su larga scala, ma da qualche parte dobbiamo cominciare.
In Europa e in America si riuscì a sfuggire a queste condizioni rurali di impoverimento quando le nuove scoperte della scienza furono applicate all’agricoltura. Fu l’accesso dei coltivatori a una nuova tecnologia produttiva a consentire all’Europa e all’America, intorno all’inizio e alla metà del ventesimo secolo, di porre definitivamente fine alla povertà diffusa.
Oggi ci troviamo dinanzi alla questione dell’introduzione di organismi geneticamente modificati in Africa. La domanda è: queste nuove tecnologie sono di per sé dannose o possono dare un contributo positivo alla vita delle persone nei paesi poveri dell’Africa? L’ingegneria genetica è intrinsecamente immorale o si tratta solo di una tecnologia tra le altre applicabili all’agricoltura? La biotecnologia è un impero del male come qualcuno vuol farci credere?
D’altro canto, questa nuova scienza dice che non solo la qualità della vita dei più poveri verrà notevolmente migliorata, ma che essi inizieranno anche il processo di sviluppo economico. È una tecnologia che offre ai coltivatori più poveri una delle chiavi principali per uscire dalla povertà.
Ma poiché questa tecnologia è ancora relativamente nuova ed esige uno studio a lungo termine degli impatti sull’ambiente e sulla salute dell’uomo, in Camerun suggeriamo che l’Africa non si affretti ad abbracciarla ciecamente. Questa tecnologia va ricercata con la massima attenzione, anche se promette la salvezza economica per l’Africa.

[Testo originale: inglese]
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ZENIT Staff

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