Interventi per la quarta Congregazione generale nel pomeriggio del 6 ottobre

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 7 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito gli interventi tenutisi martedì pomeriggio nella quarta Congregazione generale del Sinodo dei Vescovi sull’Africa.

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– S. E. R. Mons. François Xavier MAROY RUSENGO, Arcivescovo di Bukavu (REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO)

Partendo dai danni provocati dalle guerre e dalle violenze nella parte orientale del nostro paese, la Repubblica Democratica del Congo e, in particolare, nella nostra arcidiocesi di Bukavu, riteniamo che la riconciliazione non possa più limitarsi semplicemente ad armonizzare le relazioni interpersonali. Essa deve inevitabilmente prendere in considerazione le cause profonde della crisi delle relazioni che si collocano a livello degli interessi e delle risorse naturali del Paese, da sfruttare e gestire nella trasparenza e nell’equità a vantaggio di tutti. Dato che le cause delle violenze nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo sono essenzialmente le risorse naturali.
A tale scopo, ricordiamo il lavoro che la commissione Giustizia e Pace sta facendo nell’arcidiocesi di Bukavu affinché la riconciliazione si attui attraverso la ricostruzione comunitaria.
L’obiettivo è di aiutare le persone a riconciliarsi fra loro e con la propria storia nonché ad impegnarsi per costruire assieme un nuovo futuro.
Un’attenzione tutta speciale viene data ai giovani. Per loro, proponiamo attività ricreative e culturali in grado di favorire la riconciliazione al loro livello, grazie al coinvolgimento di tutti e di ciascuno di essi nella ricostruzione del proprio ambiente.
Questo tipo di approccio va inteso come risposta ai traumatismi comunitari spesso dimenticati, allo scopo di rendere la gente responsabile e protagonista di un cambiamento positivo. Esso richiede il potenziamento dell’educazione basilare e dell’organizzazione delle popolazioni in vista di una migliore presa in carico comunitaria. Richiede anche la creazione di spazi e quadri di scambio e di dialogo per un’effettiva partecipazione della popolazione alla gestione delle ricchezze che devono ormai concorrere alla ricostruzione, allo sviluppo, alla riconciliazione e ad una coabitazione pacifica.
Mentre prendiamo la parola in queste riunioni, gli agenti pastorali nella nostra arcidiocesi vengono attaccati dai nemici della pace. Una delle parrocchie della nostra arcidiocesi è stata incendiata venerdì 2 ottobre 2009, i sacerdoti sono stati maltrattati, altri presi in ostaggio da uomini in uniforme che hanno preteso grosso riscatto che siamo stati costretti a pagare per risparmiare la vita dei nostri sacerdoti che essi minacciavano di massacrare. Con queste azioni, è la Chiesa, rimasta l’unico sostegno di un popolo terrorizzato, umiliato, sfruttato, dominato, che si vorrebbe ridurre al silenzio. Signore sia fatta la tua volontà, venga il tuo regno di pace” (cfr. Mt 10, 6-7).

[Testo originale: francese]

– S.Em.R. Card. Walter KASPER, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani (CITTÀ DEL VATICANO)

Mentre, grazie a Dio, vi è stata una rapida crescita della Chiesa in Africa, purtroppo si è verificata anche una frammentazione sempre più grande tra i cristiani. Pur non essendo, questa situazione, peculiare dell’Africa, è troppo facile ritenere che tali divisioni derivino dall’eredità del cristianesimo diviso che l’Africa ha ricevuto, poiché in Africa vi sono anche numerose nuove divisioni – basti pensare più di recente alle comunità carismatiche e pentecostali, alle chiese cosiddette indipendenti e alle sette. La loro diffusione a livello mondiale è estesa e la loro vitalità nel continente africano è rispecchiata dall’aumento delle Chiese indipendenti africane, che ora hanno creato un’istituzione ufficiale, l’OAIC con sede a Nairobi. Attualmente è in corso, ad un certo livello, un dialogo attraverso il Global Christian Forum, che si è di recente riunito a Nairobi.Ad altri livelli, il dialogo con questi gruppi non è facile e spesso è del tutto impossibile a causa del loro comportamento aggressivo e – per non dire altro – per il loro basso standard teologico. Dobbiamo affrontare questa sfida urgente con un atteggiamento di autocritica. Infatti, non basta dire che cosa è sbagliato in loro, dobbiamo domandarci che cosa è sbagliato o che cosa manca nel nostro lavoro pastorale. Perché tanti cristiani abbandonano la nostra Chiesa? Che cosa manca loro da noi e che cosa cercano altrove? Il PCPCU ha cercato di fornire qualche risposta con due simposi per vescovi e teologi, celebrati uno a Nairobi e l’altro a Dakar. Siamo pronti ad aiutare anche in futuro. In questo contesto, vorrei menzionare solo due punti importanti: la formazione catechetica ecumenica e la costituzione di piccole comunità cristiane in seno alle nostre parrocchie.
Consentitemi ora di parlare di alcune delle altre numerose sfide e dei compiti:
1. Possiamo ora guardare indietro a quasi cinquant’anni di dialogo ecumenico. Dal Concilio Vaticano II sono stati compiuti progressi ecumenici importanti, ma il cammino verso la piena comunione ecclesiale probabilmente è ancora lungo e arduo a causa delle difficoltà che continuano a esserci nei nostri dialoghi teologici. Occorre fare adesso dei passi adeguati per impegnarci insieme con i nostri interlocutori ecumenici in un processo di accoglimento dei frutti del dialogo. L’impegno della Chiesa a livello universale deve essere tradotto e recepito nelle Chiese locali. Ciò deve avvenire nella catechesi e nella formazione teologica, a livello diocesano e parrocchiale.
2. Mentre la Chiesa cattolica in Africa tradizionalmente ha mantenuto un dialogo costante con le tradizioni protestanti storiche e oggi anche con quelle più giovani, la recente rapida diffusione dell’ortodossia nel continente rende fondamentale, per la Chiesa cattolica in Africa, impegnarsi in un dialogo e in rapporti positivi anche con i nostri fratelli e le nostre sorelle ortodossi.
3. La Chiesa cattolica in Africa deve dare slancio alle relazioni ecumeniche con i movimenti evangelici, carismatici e pentecostali nel continente africano, anche per la rilevanza delle loro espressioni indigene e della loro affinità con la visione del mondo culturale tradizionale africana. Un tale impegno ecumenico esige una fedeltà ispirata ai principi della Chiesa sull’ecumenismo da una parte (UR, 2-4), e una comprensione specifica delle espressioni culturali africane, dall’altra. Il dialogo e la ricerca dell’unità devono pertanto tener conto del contesto delle radici culturali africane. Infatti, le radici di alberi diversi separati ma vicini tra loro si intrecceranno, anche se continuano ad essere distinte nella lotta per accedere alle stesse sorgenti di vita che sono il suolo e l’acqua. Questo intrecciarsi è emblematico dell’avvicinamento ecumenico, collegato all’intera questione dell’inculturazione e della rilevanza del contesto.
4. La nostra ricerca di unità nella verità e nell’amore non deve mai perdere di vista la percezione che l’unità della Chiesa è opera e dono dello Spirito Santo e va ben oltre i nostri sforzi. Pertanto, l’ecumenismo spirituale, specialmente la preghiera, è il cuore dell’impegno ecumenico (UR, 8). Tuttavia, l’ecumenismo non darà frutti duraturi se non sarà accompagnato da gesti concreti di conversione che muovano le coscienze e favoriscano la guarigione dei ricordi e dei rapporti. Come afferma il Decreto sull’Ecumenismo, “non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione” (UR, 7). Una tale metanoia (UR, 5-8; UUS 15s; 83ss) ci porterà più vicino a Dio, al centro della nostra vita, in modo tale da avvicinarci di più anche gli uni agli altri.
Pertanto, il tema del sinodo rappresenta una sfida alla Chiesa in Africa affinché acuisca la propria visione ecumenica e offra ai popoli dell’Africa la ricerca dell’unità come tesoro autentico del Vangelo. La Chiesa cattolica in Africa viene incoraggiata a continuare a costruire ponti di amicizia e, attraverso un ecumenismo spirituale orante e il conseguente discernimento
della volontà di Dio, a impegnarsi nel “ministero della riconciliazione” (2Cor 5, 18), che ci è stato affidato per mezzo di Cristo. È questa la base del nostro impegno ecumenico. Il rinnovamento della vita interiore del nostro cuore e della nostra mente è il punto cruciale di ogni dialogo e riconciliazione, facendo dell’ecumenismo un impegno reciproco di comprensione, rispetto e amore, affinché il mondo creda.

[Testo originale: inglese]

– S. E. R. Mons. François EID, O.M.M., Vescovo del Cairo dei Maroniti (EGITTO)

Faccio questo intervento a nome mio personale e mi riferirò ai nn. 102, 126 e 128 che parlano dei rapporti con le religioni, pur insistendo sulla necessità di passare dal dialogo fra le culture alla cultura del dialogo, attraverso la formazione dei futuri sacerdoti in Africa.
Un pensatore asiatico, Wesley Ari raja, diceva: “Abbiamo bisogno non solo della conoscenza dell’altro, ma piuttosto dell’altro per conoscerci meglio”. Premesso ciò, possiamo constatare che la questione del dialogo si pone come una problematica culturale e spirituale per eccellenza, dato che è collegata piuttosto alla comprensione di noi stessi che alla nostra presa di posizione nei confronti dell’altro.
La storia ci insegna che la sorgente del dinamismo che rinnova le identità culturali sta nella sua massima apertura universalista che lo porta ad abbracciare le diversità e a creare una continua osmosi che arricchisce; l’isolamento culturale, invece, porta alla perdita dell’identità.
Il termometro della buona salute di un popolo o di una comunità sta nella centralità dell’altro nel suo cammino comunitario. Ciò spiega la centralità dell’amore per il prossimo nel cristianesimo che fa della Chiesa una diaconia al servizio dell’uomo.
In tal senso, una delle Lettere dei Patriarchi cattolici d’Oriente affermava che “la presenza degli altri nella nostra vita rappresenta la voce di Dio e la nostra relazione con loro è una componente essenziale della nostra identità spirituale: perciò occorre andare oltre la convivialità verso una comunione fraterna più responsabile”.
Traggo qualche conclusione:
1. A mio avviso, la formazione dei futuri sacerdoti africani alla sola appartenenza a Nostro Signore Gesù, maestro e modello, costituisce l’unica alternativa per fare di questi sacerdoti degli strumenti di pace e di riconciliazione. Così, la loro missione non sarà più considerata luogo in cui concorrono interessi personali, familiari o tribali, ma, al contrario, luogo di incontro tra fratelli amati dal Signore e chiamati a costruire insieme, nella carità, il suo Regno di Pace e di Giustizia.
2. A questo punto, vedo l’urgenza di una formazione sacerdotale adeguata che metta davanti a tutte le altre priorità il passaggio dal dialogo fra le culture alla cultura del dialogo. Questa missione farà dei futuri sacerdoti africani i messaggeri del Vangelo della pace, per un’Africa nuova, dove la solidarietà spirituale e umana induca tutti e ciascuno a portare le difficoltà, le sofferenze, le speranze e le sfide dell’altro che è nostro fratello davanti a Dio. Passiamo così dall’emarginazione all’accoglienza, dal rifiuto all’accettazione e dalla rivalità alla fraternità.
La cultura del dialogo fa eco a quanto diceva sant’Agostino: “Et in omnia caritas”.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Simon NTAMWANA, Arcivescovo di Gitega, Presidente dell’Associazione delle Conferenze Episcopali dell’Africa Centrale (A.C.E.A.C.) (BURUNDI)

Diverse categorie e gruppi, nella nostra sub-regione, soffrono oggi sotto il peso di diversi mali che sono stati appena ricordati. Le famiglie sono dislocate, destabilizzate, impoverite. Alcune non hanno né case adeguate in cui abitare, né terre da coltivare per sopravvivere, né mezzi per educare i figli, né di che pagare le cure mediche, ecc. A queste carenze si aggiungono fenomeni come la violenza contro le donne, l’arruolamento di bambini nei gruppi armati, ecc. Se la responsabilità di questa situazione è da addebitarsi a tutti le componenti della società, alcune di queste hanno però una responsabilità maggiore rispetto ad altre. Pensiamo soprattutto alla classe politica dirigente. In effetti, tra le altre cose, si deplora il fatto che uomini politici si servano dei conflitti etnici per conquistare il potere e per mantenerlo. Alcuni di essi considerano la loro funzione unicamente comune una fonte di arricchimento personale o delle loro famiglie e dei loro amici, facendo in tal modo trionfare il clientelismo e il tribalismo sui valori autentici e compromettendo gravemente la pace sociale.
In questo processo la Chiesa ha avuto un ruolo, con i suoi messaggi e le sue esortazioni, ma anche attraverso la sua testimonianza di fraternità al di là delle frontiere e delle barriere generate dai conflitti armati e dalle guerre. Alcuni nostri fratelli nell’episcopato hanno perfino dovuto dirigere delle Conferenze Nazionali Sovrane per assicurare la mediazione tra le diverse componenti del loro paese. D’altronde, le nostre commissioni di “Giustizia e pace” in alcuni paesi hanno partecipato alla preparazione delle elezioni fornendo un’educazione civica ed elettorale. Le commissioni Caritas-Sviluppo hanno, in queste situazioni di guerra, soccorso migliaia di persone indifese.
Tuttavia, non c’è solo la povertà spirituale da curare, ma anche l’impoverimento generalizzato e la sfrontata pauperizzazione dei nostri popoli, per i quali occorre trovare dei rimedi adeguati. In effetti, è proprio perché le popolazioni sono povere o impoverite che sono diventate vulnerabili. Persone ricche le manipolano a piacimento; e alcuni, pescando in acque torbide, utilizzano per esempio le separazioni etniche per dividere la gente, allo scopo di continuare ad arricchirsi in una situazione di conflitto in cui le persone non possono rivendicare i propri diritti.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Martin MUNYANYI, Vescovo di Gweru (ZIMBABWE)

La Chiesa nello Zimbabwe apprezza moltissimo che l’Instrumentum laboris si sia occupato di questioni di grande preoccupazione per il nostro paese – quali la povertà, la violenza, la mancanza di riconoscimento delle donne, dei bambini e dei gruppi di minoranza – e anche di problemi relativi all’ingiustizia nella Chiesa, come le condizioni di lavoro dei suoi impiegati.
Lo Zimbabwe ha vissuto esperienze socio-politiche molto difficili ed inumane risalenti ai periodi precoloniale, coloniale e postcoloniale che devono essere trattate con urgenza. Nella ricerca di una riconciliazione durevole, sarebbe un errore chiedere alle persone di dimenticare semplicemente il passato.
C’è bisogno di riconciliazione non solo nel paese in generale, ma anche nella Chiesa, dato che vediamo ribollire la tensione in alcune nostre parrocchie a causa delle differenze linguistiche ed etniche.
In Africa, quando parliamo di giustizia, parliamo certamente di parti coinvolte, che comprendono anche le famiglie. Le comunità hanno bisogno di riunirsi a discutere i loro problemi in uno scenario di “arbre à palabre”. E dovrebbe esserci una giustizia retributiva e riparatrice prima della morte di una delle parti in causa.
Le questioni di giustizia nella Chiesa riguardano ovviamente il non pagare ai nostri lavoratori
la somma corrispondente al giusto salario e il cattivo uso delle risorse della Chiesa da parte di sacerdoti a spese delle comunità. Alcune pratiche della Chiesa tendono ad avere pregiudizi contro le bambine. Per esempio la bambina viene punita mentre il bambino no.
In quanto Chiesa locale abbiamo istituito strutture come la Commissione per la giustizia e la pace per dedicarci agli aspetti storici negativi della nostra esperienza.
L’intero compito dovrebbe cominciare in un luogo quale la famiglia come ha precisato giustamente Papa Benedetto XVI: “La famiglia è la prima e insostituibile educatrice alla pace… perché permette di fare determinanti esperienze di pace”.Nel far ciò si dovrebbero prendere sul serio, lette
ralmente, le parole di Giovanni Paolo II: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Questo è il regno della giustizia propugnato nell’Instrumentum laboris che riassume il messaggio evangelico di riconciliazione, giustizia e pace.

[Testo originale: inglese]

– S. E. R. Mons. Daniel MIZONZO, Vescovo di Nkayi (REPUBBLICA DEL CONGO)

L’obiettivo di questo Sinodo – ci sembra – è l’impegno di tutti gli attori e le istituzioni ad instaurare una pace autentica, reale e duratura in Africa, in altri termini la venuta del Regno di Dio in questo continente. Per raggiungere questo obiettivo, il nostro principale compito consiste nella ricerca onto-teologica della Verità.
Infatti, in quasi tutti i nostri paesi, in Africa, in particolare in quelli che hanno conosciuto o ancora conoscono la guerra, abbiamo avuto cerimonie e atti di riconciliazione nazionale, processi agli autori dei genocidi in nome della giustizia, gesti simbolici di pace e altre iniziative. Ma nonostante tali sforzi, la pace autentica, reale e duratura, benché all’ordine del giorno, in Africa non è ancora giunta. Perché? Perché è mancata la verità.
“Quid est veritas?”, Gv 18, 38. L’interrogativo di Pilato rimane attuale in Africa. Le risposte di Gesù sono illuminanti: “Io sono la via, la verità e la vita”, Gv 14, 6. “Per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità”, Gv 18, 37b. Nel Regno di Dio “Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo” Sal 84(85), 11.12.
La pace è di Gesù: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi”, Gv 14, 27a.
Anche san Paolo sottolinea che Cristo “è la nostra pace”, Ef 2, 14 perché è ontologicamente Verità.
Incoraggiamo l’Istituzione dei Tribunali Internazionali (TPI), delle Commissioni di verità e riconciliazione per la pace, che sono stati un bene per l’Africa del Sud, perché solo “la verità ci farà liberi”, Gv 8, 32b e ci porterà la pace autentica, reale e duratura. “Africa semper novi”.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Claude RAULT, M. Afr., Vescovo di Laghouat (ALGERIA)

La nostra Chiesa del Nordafrica si trova in una posizione di “crocevia” geografico e umano che ci colloca all’incrocio di Europa, Medio Oriente e Africa Sub-sahariana. La popolazione è composta da Arabi e Berberi, ma anche, cosa che spesso dimentichiamo, da una frangia di popolazioni nere nella parte meridionale di questa vasta regione. La religione dominante e quasi esclusiva è l’islam, anch’esso attraversato da molteplici correnti. È in questo universo geografico, umano e religioso che noi, cristiani e cristiane, viviamo la nostra vocazione all’Incontro e al Dialogo.
– Prima di tutto, bisogna dire quanto è difficile per noi situarci e ancorarci al cuore della Chiesa d’Africa. Eppure, il nome stesso dell’Africa ha avuto origine nel Maghreb, derivando da “Ifriqiya”, paese di sant’Agostino. Facciamo parte della Chiesa d’Africa e il nostro desiderio profondo è di consolidare la nostra appartenenza in seno a questa Chiesa.
– L’eredità coloniale pesa ancora sulle nostre spalle. La Chiesa del Maghreb ne è ancora segnata. A questo, aggiungiamo una relazione storica difficile fra il mondo arabo e il mondo africano, dovuta in parte alla schiavitù che non è stata, purtroppo, l’unico fatto degli Occidentali. – Ma la nostra situazione è una grazia da cogliere. Siamo una Chiesa sempre più multiculturale, grazie alla marcata presenza di religiosi, religiose, sacerdoti e laici, studenti e migranti venuti da oltre il Sahara o da altri continenti.
Questi elementi danno, della Chiesa, un’immagine più universale. Ma questo fatto pone una seria sfida alla nostra Chiesa del Maghreb: quella della sua unità e della sua comunione. La partecipazione alla nostra vita ecclesiale di cristiani e cristiane di ogni condizione venuti dall’Europa, dall’America, dall’Asia, dal continente africano, dal Medio Oriente, ma anche dell’Africa del Nord, tutto questo costituisce una novità che esige da parte nostra un’apertura all’universale. È con tutte le nostre differenze e le nostre complementarità coniugate che, malgrado la nostra piccolezza, uomini e donne, costruiamo la Chiesa di Cristo, una Chiesa della Pentecoste.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Antoine NTALOU, Arcivescovo di Garoua (CAMERUN)

In Camerun, come in diversi altri paesi africani, si osserva che molti cittadini in posizioni di responsabilità si riconoscono figli della Madre Chiesa; li troviamo praticamente in tutti i settori della vita, sia nell’ambito della sanità che in quello dell’educazione, della politica, degli affari economici, della cultura, della vita associativa, ecc.; del resto, non di rado queste persone sono fiere di ciò che hanno ricevuto dalla Chiesa nella loro infanzia o in gioventù. Ma spesso facciamo anche amara esperienza del divario non trascurabile che esiste fra l’organizzazione della vita sociale e le esigenze del messaggio evangelico.
Ci troviamo qui di fronte ad un problema molto serio, del quale occorre determinare la causa principale per trovare un rimedio. Da parte mia, ritengo che, anche a causa dell’età delle nostre Chiese in Africa, alcune carenze nell’organizzazione della pastorale nella maggior parte delle nostre diocesi spieghino, senza per questo giustificarla, la situazione di cui intendo parlare. Si tratta della carente formazione dottrinale dei cristiani che oggi assumono ruoli di responsabilità in seno alle strutture dei nostri paesi. Per la maggior parte di loro, dunque, l’unico bagaglio dottrinale è quello ricevuto al momento della preparazione ai sacramenti d’iniziazione. Non bisogna quindi stupirsi che spesso, nel dialogo sociale, non hanno molto da offrire laddove invece altri gruppi d’interesse o di pressione sono dotati di armi potenti per la lotta ideologica; i nostri fedeli non hanno altro da offrire che la loro buona volontà.
È dunque più che mai urgente assicurare una formazione cristiana solida ai figli e alle figlie della nostra Chiesa che s’impegnano nella politica, nell’economia e negli altri settori chiave della vita dei nostri paesi africani. Il programma di tale formazione, tra le altre materie dovrà lasciare ampio spazio alla dottrina sociale della Chiesa, alla Bibbia, alla teologia, alla morale e alla storia della Chiesa. Ci si dovrà preoccupare soprattutto di formare la coscienza delle nostre élite. Ringraziando Dio, qua e là nel continente sono già nate iniziative positive (scuole di teologia) e sta incominciando a formarsi un laicato consapevole delle proprie responsabilità in un mondo che deve essere trasformato dall’interno. Attualmente, queste esperienze sono ancora troppo limitate perché l’impatto del fermento evangelico sia chiaramente percepibile nei riflessi e nelle abitudini degli individui e dei gruppi. Ma la direzione intrapresa è quella giusta.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Michael WÜSTENBERG, Vescovo di Aliwal (SUDAFRICA)

I laici e la gerarchia spesso non sono in perfetta sintonia. È necessaria la riconciliazione in seno alla Chiesa. Un piano pastorale ha portato allo sviluppo di una comunità migliore. Questa riconciliazione in seno alla Chiesa ha inciso sull’impegno di evangelizzazione dei laici per riconciliare un mondo diviso. L’unità e cooperazione della Conferenza episcopale sostiene i laici nel creare reti di collaborazione. Le piccole comunità cristiane – radicate nella fede – collaborano nel campo sociale per trasformare la società a livello locale. Questo impegno si svolge anche attraverso diverse istituzioni. Con la mancanza, largamente constatata, di una catechesi più profonda, questo impegno in “tutti gli strati dell’umanità” richiede un’accurata formazione. Le istituzioni che lavorano a diversi livelli assistono gli operatori di pastorale e i
laici con una formazione integrale. Tuttavia, occorre fare di più per creare reti solide ed efficienti. La collaborazione dei vescovi con i laici nei forum pastorali può essere ulteriormente sviluppata perfino a livello regionale o continentale. Il ministero di riconciliazione dei laici deve essere riconosciuto attraverso celebrazioni che consolidino, confermino e addirittura preparino per questa missione. L’esperienza sacramentale offre una formazione aperta al divino. La celebrazione spesso carente del sacrificio della riconciliazione durante l’Eucaristia impedisce un’esperienza regolare del rapporto intimo con Cristo, con se stessi e con gli altri. Questo squilibrio nella vita sacramentale della Chiesa deve essere eliminato per il bene della spiritualità comprensiva della riconciliazione.

[Testo originale: inglese]

– S. E. R. Mons. Armando Umberto GIANNI, O.F.M. Cap., Vescovo di Bouar, Presidente della Conferenza Episcopale (REPUBBLICA CENTROAFRICANA)

Abbiamo cercato di approfondire la crisi che ci ha portato sofferenze fisiche e morali. Ci siamo riuniti per dar modo a tutti di esprimere il proprio pensiero.
In tutti c’è il desiderio di venirne fuori, di ritrovare la via del dialogo, della conversione.
Ci aspetta il delicato ma necessario compito di aiutare i sacerdoti che hanno problemi a ritrovare il cammino di verità. Aspettiamo dal sinodo una parola chiara e persuasiva su questo tema.
Poi la sfida più grande: come aiutare i sacerdoti a formare delle vere famiglie sacerdotali. Si sente l’esigenza di avere un direttorio di vita sacerdotale.
Se la nostra crisi ci ha apportato sofferenza ci aiuterà a crescere più armoniosamente. Abbiamo bisogno di intensificare l’unione profonda con Cristo.
Il nostro paese da più di 15 anni è alla ricerca di una pace sociale, di un equilibrio che apporti più sicurezza e stabilità, necessarie per attirare investimenti, far ripartire l’attività economica, sviluppare i servizi sociali: scuola, sanità, dialogo sociale.
Purtroppo l’impunità continua a coprire crimini e ingiustizie varie. I conflitti di interesse che affliggono il Darfour, si ripercuotono anche nel nostro paese.
La Chiesa è rimasta presente dappertutto nel paese. Anche nelle zone cosiddette rosse, cioè insicure; ha continuato a prestare la sua opera nelle scuole, nella sanità, vicino alle persone sfollate e handicappate.
Voglio far rimarcare la disponibilità data dal personale delle missioni in questo contesto di insicurezza per assicurare il servizio della mediazione tra forze governative e ribelli, a volte anche con i banditi.
Con questi accordi ha potuto far giungere dappertutto cibo, medicine, ed assicurare incontri di dialogo fra le parti in causa, che hanno contribuito a far diminuire le tensioni.
Mi pare che la Chiesa abbia vocazione ad essere là, in questi luoghi umili e nascosti, per aiutare a spegnere sul nascere questi conflitti di casa. La sua voce è ascoltata e cercata, perché gode di credibilità.

[Testo originale: italiano]

– S. E. R. Mons. Giovanni Innocenzo MARTINELLI, O.F.M., Vescovo titolare di Tabuda, Vicario Apostolico di Tripoli (LIBIA)

Sappiamo che nel continente africano vi sono più di dieci milioni di sfollati, di migranti che cercano una patria, una terra di pace.
Il fenomeno di questo esodo rivela un volto d’ingiustizia e di crisi sociopolitica in Africa. In Libia viviamo tutta la tragedia di questo fenomeno… Venire in Libia per essere respinti dall’Europa…
Vi sono migliaia di immigrati che entrano in Libia ogni anno, provenienti dai paesi dell’Africa sub-sahariana. La maggior parte di questi fugge dalla guerra e dalla povertà del proprio paese e arriva in Libia, dove cerca un lavoro per aiutare la famiglia oppure un modo per andare in Europa nella speranza di trovarvi una vita migliore e più sicura. Molti di loro si sono lasciati ingannare dalle promesse di un lavoro ben retribuito e si trovano costretti a svolgere lavori mal pagati e pericolosi oppure non ne trovano affatto. Molte donne, fatte venire nel paese, sono costrette alla prostituzione e alla schiavitù. Tutti gli immigrati illegali rischiano il carcere, la deportazione o, peggio ancora, non hanno accesso né all’assistenza legale né ai servizi sanitari.
In Libia vi sono diversi centri di raccolta di tutti i clandestini, ma tutti coloro che si rivolgono al Centro di Servizio Sociale della Chiesa sono originari dell’Eritrea e della Nigeria, etiopi, sudanesi e congolesi…
L’immigrazione è per molti una tragedia, soprattutto perché fatti oggetto di traffico, sfruttamento (le donne in particolare) e del disprezzo dei diritti umani. Ma ringraziamo il Signore per la loro testimonianza cristiana. È una comunità che soffre, che cerca, precaria ma piena di gioia nell’espressione della fede! E che in un contesto sociale e religioso musulmano rende la Chiesa credibile… e vive il dialogo della vita con molti musulmani. Sono la nostra Chiesa in Libia, pellegrina e straniera, luce di Gesù e sale per la gente che ci circonda.
Chiedo ai loro Pastori di non dimenticarli in questo esodo forzato!

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Lucius Iwejuru UGORJI, Vescovo di Umuahia (NIGERIA)

Le multinazionali sfruttano le risorse naturali in Africa in una misura che non ha precedenti nella storia. Utilizzano le risorse che si sono accumulate in tanto tempo senza preoccuparsi se le generazioni future verranno lasciate senza mezzi di sussistenza. Questo sfruttamento sconsiderato dell’ambiente ha un impatto negativo sugli africani e minaccia le loro prospettive di vivere in pace.
Collegato a questo problema è il degrado ambientale in Africa. Aree intere vengono distrutte a causa della deforestazione, dell’estrazione di petrolio, come pure dello smaltimento dei rifiuti tossici, di contenitori di plastica e materiale in cellofan. Inoltre, l’erosione causata dall’uomo porta via terreni agricoli, distrugge le strade e insabbia le sorgenti d’acqua. Questi fattori impoveriscono le comunità africane, aumentando le tensioni e i conflitti.
I doni del creato provengono da un Padre amorevole. Ogni generazione ne ha bisogno per il proprio sostentamento. Devono essere custoditi (Gn 2, 15) e utilizzati con moderazione. Le attuali sfide ecologiche sono il risultato dei peccati dell’uomo: egoismo, avidità, mancanza di sensibilità verso i danni ambientali e incapacità di prendersi cura della terra.
La Chiesa in Africa deve suscitare una “conversione ecologica” attraverso un’educazione intensiva. Deve educare le persone in Africa ad essere più sensibili verso il crescente disastro ambientale e la necessità di ridurlo. Tutti devono essere resi sempre più consapevoli che le generazioni future hanno il diritto di vivere in un ambiente intatto e sano e di godere delle sue risorse.

[Testo originale: inglese]

– Rev. Guillermo Luis BASAÑES, S.D.B., Consigliere Generale per la Regione Africa-Madagascar della Società Salesiana (STATI UNITI D’AMERICA)

Alla luce del tema di questo Sinodo credo che il contributo più prezioso e più urgente della Vita Consacrata sia oggi quello della profezia della comunione: il suo essere oggi nella Chiesa e per i popoli d’Africa signum fraternitatis.
Là dove oggi alcune popolazioni in Africa sono tentate di dichiarare l’impossibilità di coesistere, di vivere insieme, di condividere la stessa terra, i religiosi e le religiose, chiamati a vivere la carità perfetta in comunità, non solo annunciano a tutti i popoli ed etnie in Africa che è possibile vivere insieme nella diversità o che è possibile tollerarsi, ma che vivere e lavorare insieme è fecondo, è utile e perfino bello.
Propongo dunque che più che parlare delle “persone consacrate” come attori di riconciliazione, di giustizia e di pace, si sottolinei piuttosto le “comunità di vita consacrata”.
A questo proposito vedo con molta urgenza la necessità che i nostri Pastori in Africa possano continuare ad aiutare la Vita Consacrata perché sia fedele alla sua vocazione di profond
a comunione e di riconciliazione:
– promuovendo nelle Chiese la conoscenza della natura della Vita Consacrata e più specificamente della sua profezia di comunione;
– esortando perchè nella formazione alla Vita Consacrata in Africa, si dia centralità alla formazione alla vita comunitaria interculturale, internazionale, interetnica;
– evitando che la richiesta di servizi pastorali, ogni volta più vasti, urgenti e diversificati, arrivi a minare la testimonianza comunitaria della Vita Consacrata con il rischio che il sale perda il suo buon sapore;
– incoraggiando i diversi Istituti Religiosi nati in Africa ad aprirsi al più presto alla missione ad gentes per mostrare con chiarezza che nessun carisma è legato di modo esclusivo ad una etnia o nazione (cf. VC 78).

[Testo originale: italiano]

– S. E. R. Mons. Berhaneyesus Demerew SOURAPHIEL, C.M., Arcivescovo Metropolita di Addis Abeba, Presidente della Conferenza Episcopale, Presidente del Consiglio della Chiesa Etiopica (ETIOPIA)

Spero che questo sinodo per l’Africa studi le cause che sono alla base del traffico di esseri umani, delle persone sfollate, dei lavoratori domestici sfruttati (specialmente le donne in Medio Oriente), dei rifugiati e dei migranti, specialmente degli africani che giungono sui barconi e dei richiedenti asilo, e che sortisca posizioni e proposte concrete per mostrare al mondo che la vita degli africani è sacra e non priva di valore, come invece sembra essere presentata e vista da molti media.
Come è noto, l’Unione Africana (UA) ha sede ad Addis Abeba, dove è stata fondata. L’UA è il forum della leadership politica in Africa. È utile sapere che quasi il 50% dei membri dell’UA appartengono alla Chiesa cattolica. Finora, il Nunzio Apostolico in Etiopia è stato invitato a partecipare come osservatore alle assemblee generali dell’UA quando si svolgono ad Addis Abeba. È mio auspicio che la Santa Sede nomini un rappresentante permanente presso l’UA, che partecipi a tutti gli incontri ogniqualvolta si svolgano e che possa mantenere un contatto personale con i membri cattolici di questa importante istituzione.Questo rappresentante speciale dovrebbe preferibilmente possedere le stesse credenziali diplomatiche di un Nunzio Apostolico. Verrebbe nominato per dedicarsi a tempo pieno alla sua missione e per essere sempre disponibile, così da poter partecipare agli incontri e incontrare le persone che hanno una influenza determinante nel processo decisionale.
Sempre presso l’UA, è necessario anche un rappresentante del Simposio delle Conferenze Episcopali dell’Africa e del Madagascar (SECAM), perlomeno a livello di osservatore, affinché la Chiesa cattolica in Africa abbia voce presso l’UA e sia di incoraggiamento per i fedeli laici cattolici che vi lavorano.
Da parte nostra, come Chiesa locale in Etiopia, ci impegniamo a fare del nostro meglio per accogliere un tale rappresentante speciale della Santa Sede o del SECAM e, se desidera risiedere ad Addis Abeba, per facilitarne il lavoro e collaborare con la sua missione. Sono certo che l’Unione Africana sarebbe disponibile ad accettare questi rappresentanti e che i membri laici cattolici di questo organismo si sentirebbero particolarmente sostenuti dalla Chiesa cattolica nella loro missione.

[Testo originale: inglese]

– S. E. R. Mons. Ildefonso OBAMA OBONO, Arcivescovo di Malabo, Presidente della Conferenza Episcopale (GUINEA EQUATORIALE)

Tralasciando il capitolo IV dell’Instrumentum laboris, mi riferisco agli attori e alle istituzioni chiamati a dare testimonianza della fede in Cristo in tutti gli ambiti e settori della società, tenendo in considerazione l’aspetto locale.
Anni fa – come riferimento storico – i cristiani conobbero difficoltà con quella persecuzione religiosa, ormai superata, di segno marxista e comunista. Attualmente i cristiani vivono l’inquietudine del materialismo nella vita, che pregiudica i valori del regno di Dio. Per questo il messaggio “combattere la povertà, costruire la pace” è molto attuale per la dignità di tutti e per il bene comune.
Quanto alle istituzioni, ci impegniamo a promuovere la fede con la Parola di Dio e a diffondere la celebrazione e adorazione della santa Eucaristia, vincolo di carità. Sappiamo che il contenuto della Nuova Evangelizzazione è Gesù Cristo, l’Inviato dal Padre. Per Lui, confidiamo nella forza della fede e della Parola di Dio in sé stessa, per purificare i cuori.
In questa prospettiva, la riconciliazione, la giustizia e la pace si fondano sull’amore, sul perdono e sulla misericordia di Dio in Cristo. Per questo, nella realtà pastorale, incide l’insegnamento della “Caritas in veritate” che afferma: “La carità è la via maestra della dottrina sociale” (n. 2). Con la sua diffusione e applicazione.
Conclusione: 1. – La cultura della solidarietà è un’urgenza dei nostri tempi di fronte a coloro che propugnano il motto “dividi e vincerai”, nelle ostilità e nelle rivalità tribali, e favoriscono la violenza, il terrorismo e le guerre: la cultura della morte. “La pace nasce in un cuore nuovo”. Crediamo nella speranza. Il Dio della pace ci darà la pace che gli uomini non possono dare. 2. – Il nostro compito è di instaurare la civiltà dell’amore. Una proposta valida per la presenza della Chiesa nella società è la conversione all’amore forte e sincero, come l’amore di Dio in Cristo morto e risorto, per la convivenza fraterna, l’umanizzazione e la salvezza integrale.
Per il resto, l’Africa è la riserva spirituale del mondo e nuova patria di Cristo.

[Testo originale: spagnolo]

– S. E. R. Mons. Emílio SUMBELELO, Vescovo di Uíje (ANGOLA)

Nel nostro contesto angolano, la giustizia deve procedere di pari passo con il perdono. Senza perdono non può esservi riconciliazione e, di conseguenza, la pace, visto che lo sviluppo di qualsiasi popolo o nazione risulta ritardato indefinitamente in assenza di meccanismi di perdono.
Negli ultimi 30 anni una buona parte dei paesi africani – e l’Angola non sfugge alla regola – ha subito cambiamenti profondi. Le innumerevoli ed enormi agitazioni della popolazione, collegate alla guerra, hanno trasformato la società africana. Attualmente oltre la metà della popolazione vive in zone urbane. Una delle prime conseguenze riguarda la sua identità etnico-tribale: popoli di origine e sostrato sociale diversi ora vivono insieme nello stesso ambiente urbano, dando origine a una fusione culturale. Seconda conseguenza sono i conflitti interetnici, generati dalle condizioni di disagio economico e di grande disuguaglianza sociale.
Il vero perdono deve comprendere la ricerca della verità. Fa parte di questa verità riconoscere il male fatto e, se possibile, porvi rimedio. Infatti, il perdono non elimina né diminuisce l’esigenza di riparazione che è propria della giustizia, ma che esige di reintegrare le persone e i gruppi nella società. Passi concreti: 1) promuovere attraverso le CIP, Pro Pace, opportuni studi sulle prevaricazioni dei gruppi etnici o sulle ingiustizie, per accertare la verità come primo passo per la riconciliazione. 2) Puntare sulla “ricostruzione umana” che passa attraverso la modificazione del comportamento della personalità male impostata e/o che ha sofferto qualche scossa nelle sue strutture e/o nelle strutture della sua società. La “ricostruzione umana” è quindi un lavoro che ci si attende dalla Chiesa, affinché l’“individuo distrutto” torni a farsi persona, ad accettare se stesso e impari a dare nuovi impulsi che si trasformino in capacità di accettare gli altri.

[Testo originale: portoghese]

– S. E. R. Mons. José NAMBI, Vescovo di Kwito-Bié (ANGOLA)

La cultura democratica sta progredendo, sebbene timidamente. In Angola ancora non si tengono elezioni con la periodicità che sarebbe auspicabile. Ci sono politici che desiderano un vero cambiamento della situazione, ma altri fanno resistenza, sono insensibili e si preoccupano solo dei propri interessi. I venti della democrazia si fanno sentire più nella
capitale che in altre zone del paese e con pochi mezzi di comunicazione sociale. Si constata la mancanza di una vera educazione civica dei cittadini, cosa che favorisce la manipolazione. Tutto ciò, unito all’analfabetismo in ambiente rurale, rende molto precaria la situazione. La coscienza critica delle persone è debole. Alcuni ritengono vero tutto quanto detto dai mezzi di comunicazione sociale. Per questo è urgente promuovere l’educazione civica dei cittadini e rafforzare la loro coscienza critica. Ciò significa anche promuovere la difesa della libertà di espressione e di opinione come appannaggio della democrazia e spazi di sviluppo. I laici che militano nelle diverse istituzioni civili, nei partiti politici, in Parlamento, sono chiamati a dare una vera testimonianza della riconciliazione, della giustizia e della pace. Perciò riteniamo fondamentale continuare a puntare sulla loro formazione a tutti i livelli.
Il continente africano è considerato un continente ricco, ma i suoi popoli continuano ad essere poveri. Si sta facendo qualcosa di positivo per ridurre la povertà. In Angola si osserva un grande sforzo per uscire dalla povertà. A questo scopo sono stati concepiti progetti grandi e piccoli. Ciononostante la differenza fra ricchi e poveri continua ad essere enorme. La concentrazione delle ricchezze nelle mani di poche persone è impressionante e ciò genera e può sempre generare conflitti. La popolazione delle zone rurali è attratta dalla vita delle città e questo comporta varie conseguenze sociali. L’immigrazione a partire dai paesi vicini si sta acuendo e porta con sé diverse conseguenze sociali. C’è il problema delle terre occupate a danno dei piccoli agricoltori, cosa che ha causato conflitti.

[Testo originale: portoghese]

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ZENIT Staff

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