Interventi per la nona Congregazione generale nel pomeriggio del 9 ottobre

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 11 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito gli interventi pronunciati venerdì pomeriggio nella nona Congregazione generale del Sinodo dei Vescovi sull’Africa.

 

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– S. Em. R. Card. Leonardo SANDRI, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali (CITTÀ DEL VATICANO)

Rendo grazie al Signore che ci consente di avvicinare la Chiesa di Dio che è in Africa. Nella sua singolare varietà ecclesiale l’Africa annovera la Chiesa patriarcale di Alessandria dei Copti cattolici e la Chiesa Alessandrina Cattolica di rito ge’ez dell’Etiopia e dell’Eritrea. L’Egitto, insieme alla Chiesa latina, vanta la presenza delle comunità armena, caldea, greco-melchita, maronita e sira. Porgo il mio saluto ai confratelli orientali qui presenti, e lo estendo a tutti i pastori latini e orientali dell’Africa, spiritualmente uniti a questa assemblea a cominciare da Sua Beatitudine Antonios Naguib, Patriarca di Alessandria dei Copti Cattolici: li ringrazio tutti per le innumerevoli fatiche apostoliche. È una Chiesa in espansione. La valenza sociale della sua missione religiosa si misura sulla fedeltà a ciò che le è peculiare: salvare l’uomo integrale, la cui vocazione è ultraterrena. Il primo impulso da parte dei Vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose e fedeli è quello di promuovere la riconciliazione grazie alla personale conversione perché Dio continui a compiere anche in Africa quella “divinizzazione” di tutti e di tutto messa in luce dai Padri Greci. Il Sinodo intende riproporre il “servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. La proposta è urgente. La sua efficacia, però, si misurerà sempre dall’irrinunciabile visione teologica e pastorale che la accompagnerà. Senza alcun timore le Chiese in Africa, sentendosi in comunione col Successore di Pietro e con la Chiesa universale, continuino a confessare il nome santo di Cristo Dio, l’opera di salvezza che egli ha compiuto una volta per tutte e la cui grazia rifluisce su di noi perennemente, testimoniando che il vero nome della riconciliazione, della giustizia e della pace coincide con il nome di Gesù Cristo, il Crocifisso Risorto, datore di Spirito, Pietra angolare e Sposo della Chiesa. Solo in una forte coscienza cristologica ed ecclesiologica potrà procedere proficuamente la riflessione sinodale. Senza mai rinunciare ad essa dovranno essere compiuti i passi possibili per ridisegnare le strategie ecumeniche ed interreligiose più consone al progresso spirituale e sociale dell’Africa. Diversa è la situazione rispetto a quella del Sinodo del 1994, ma permangono gravi problemi del passato. È importantissimo che i cristiani d’Africa, pastori e fedeli, abbiano coscienza certa che l’Africa ha dato molto in sangue, sudore e lacrime, in testimonianza di fede, speranza e amore, che è quanto dire in risposta alla santità. Vorrei rilevare una particolarità etiope/eritreo: fra i Santi annoverati nel § 36 dell’Instrumentum Laboris non figura, infatti, Giustino De Jacobis (1800-1860), il Lazzarista che aveva capito l’importanza della liturgia ge’ez per il cristianesimo del Corno d’Africa e si era “inculturato” (cfr. § 73). L’Africa, infatti, non si deve stancare di lavorare per un’adeguata inculturazione del messaggio cristiano. E’ l’esortazione apostolica Orientale lumen a presentare le Chiese Orientali come “esempio autorevole” di “riuscita inculturazione” (O.L. cfr n. 7). Una sana ed equilibrata relazione tra la “Religione e Tradizione Africana” consentirà alla Chiesa di curare con la comunità civile le piaghe dell’ Africa. Salute, educazione, sviluppo socio-economico, tutela dei diritti umani, guarigione della ferita del tribalismo, lotta all’emigrazione con programmi economici in loco che limitino la fuga dei giovani(§ 25; § 65); sfruttamento e neo-colonialismo (§§ 12, 64, 72, 140), analfabetismo (§ 31), corruzione (§ 57), situazione di soggezione delle donne, chiedono risposte di carità operosa e formazione a tutto campo (cfr. §§ 54, 60, 85,93,97, 111, 116, 123, 126-128, 129, 133-136). Si impongono la convivenza e la collaborazione sincera tra tutti i cattolici dei vari riti. Senza questa intesa si preclude il dialogo ecumenico, che dà forza ai cristiani nella difesa della libertà personale e comunitaria e nella professione pubblica della fede, permettendo alla Chiesa di essere libera e missionaria e all’ Africa di essere una “società plurale”. Lungi del costituire un ostacolo all’unità, inserite come sono nella situazione e nella mentalità locali, le Chiese orientali cattoliche possono “costruire ponti” (cfr. § 90) in vista della riconciliazione, della giustizia e della pace e dell’incontro con l’Islam già in atto in diversi Paesi. Questo è anche il mio augurio, mentre con le comunità di Etiopia ed Eritrea considero la portata simbolica di quel “lembo di terra africana” che possono vantare entro le mura vaticane: la Chiesa di Santo Stefano degli Abissini e il Pontificio Collegio Etiopico. Vedrei in essi un’immagine della Chiesa che, finito il Sinodo, si lancia con forza e speranza sulle strade della riconciliazione, della speranza e della pace in Africa, sentendosi con gioia “sub umbra Petri”.
La Fondazione, istituita nel 1984, celebra oggi 25 anni di vita. Il suo fine è quello di favorire la formazione di persone che si mettano al servizio del proprio paese e dei propri fratelli, senza discriminazione alcuna, in uno spirito di promozione umana integrale e solidale, per lottare contro la desertificazione e le sue conseguenze.
Nata dalla preoccupazione per il benessere e lo sviluppo delle popolazioni del Sahel, la Fondazione Giovanni Paolo II ha ben presto iscritto le sue azioni nell’intervento a favore dell’ecologia e della salvaguardia dell’ambiente. Così facendo, essa contribuisce alla realizzazione di modi di gestione più razionale delle risorse naturali e partecipa alla lotta contro la povertà.
Opera della Chiesa, la Fondazione Giovanni Paolo II sostiene, attraverso il finanziamento di progetti, gli stati, le associazioni, i gruppi o le cooperative nell’area del Sahel, quale che sia l’appartenenza religiosa o confessionale dei promotori. In tal modo essa contribuisce in modo efficace alla cultura della pace e della riconciliazione tra i popoli.
La Fondazione Giovanni Paolo II conta sempre sull’aiuto fraterno dall’esterno per portare avanti la sua missione. Tuttavia, essa è ormai risolutamente impegnata a suscitare presso gli abitanti del Sahel uno spirito di corresponsabilità e di solidarietà.
Le risposte positive già registrate in tal senso autorizzano a sperare che, parallelamente alla lotta contro la desertificazione, nel cuore degli abitanti del Sahel si radichi un’autentica civiltà dell’amore ispirato dal Vangelo.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Henryk HOSER, S.A.C., Arcivescovo-Vescovo di Warszawa-Praga (POLONIA)

L’educazione ai valori familiari è una necessità urgente nel mondo e, in modo particolare, in Africa, in un momento in cui le crescenti pressioni esterne rimandano l’esercizio della paternità e della maternità responsabili alla sfera puramente sanitaria e ospedaliera, negando in ciò la doppia natura, spirituale e sensibile, dell’amore coniugale. La pastorale familiare e, in particolare, la trasmissione della vita sono state quasi demandate alla medicina e alla tecnica.
Esistono già dei programmi: ventisei paesi africani beneficiano di programmi di educazione alla vita familiare e di pianificazione naturale (EVF e PFN) allo stato embrionale o strutturato. Ma si è troppo deboli per potersi permettere di avanzare in ordine sparso. La Federazione africana d’Azione familiare, fondata a Cotonou nel 2001, offre, su richiesta dei vescovi, incontri di formazione per gli educatori e le coppie.
Il Sinodo precedente considerava “l’evangelizzazione della famiglia africana come una delle priorità maggiori, se si vuole che essa assuma, a sua vol
ta, il ruolo di soggetto attivo nella prospettiva dell’evangelizzazione delle famiglie mediante le famiglie”.

[Testo originale: francese]

– S.Em.R. Card. Bernard AGRÉ, Arcivescovo emerito di Abidjan (COSTA D’AVORIO)

Come tutti i paesi organizzati, le giovani nazioni dell’Africa hanno dovuto fare ricorso a banche internazionali e ad altri organismi finanziari per realizzare i numerosi progetti volti al loro sviluppo. Molto spesso i dirigenti poco preparati non sono stati molto attenti e sono caduti nelle trappole di coloro, uomini e donne, che gli intenditori chiamano “gli assassini finanziari”, sciacalli mandati da organismi avvezzi ai contratti sleali, destinati ad arricchire le organizzazioni finanziarie internazionali abilmente sostenute dai loro stati o da altre organizzazioni immerse nel complotto del silenzio e della menzogna.
I profitti strabilianti vanno agli assassini finanziari, alle multinazionali e ad alcuni personaggi potenti del paese stesso che fanno da paravento agli affari stranieri. Così la maggior parte delle nazioni continua a marcire nella povertà e nelle frustrazioni che questa genera.
Gli “assassini finanziari”, che portano enormi finanziamenti si mettono d’accordo con i loro interlocutori locali, affinché gli ingenti importi prestati col sistema degli interessi composto non possano mai essere rimborsati in breve tempo e interamente. I contratti di esecuzione e di manutenzione sono devoluti abitualmente, sotto forma di monopolio, ai rappresentanti dei prestatori. I paesi beneficiari ipotecano le loro risorse naturali. Gli abitanti, per generazioni, sono incatenati, prigionieri per lunghi anni.
Per rimborsare questi debiti inestinguibili, che sono una minaccia, come la spada di Damocle sulla testa degli stati, “la voce del debito ” incide pesantemente sul bilancio statale, nell’ordine del 40-50% del Prodotto nazionale lordo.
Legato in tal modo, il paese respira male, deve stringere la cintura davanti agli investimenti, le spese necessarie per l’istruzione, la salute, lo sviluppo in generale.
Il debito diviene esso stesso un paravento politico per non soddisfare le legittime rivendicazioni, con il seguito di frustrazioni, disordini sociali, ecc. Il debito nazionale sembra una malattia programmata da specialisti degni dei tribunali che giudicano i crimini contro l’umanità, la cospirazione malvagia per soffocare intere popolazioni. John Perkins (Edizioni Al Terre) ha descritto bene i retroscena di un aiuto internazionale mai efficace in termini di sviluppo durevole.
Il problema-chiave dei nostri giorni è il desiderio, la volontà di abolire ogni forma di schiavitù.Le nuove generazioni, i giovani in alcuni paesi sviluppati e del terzo mondo, prendono coscienza che cambiare il mondo, i suoi miti e i suoi fantasmi, è un progetto realistico e possibile. Nascono delle ONG per proteggere l’ambiente materiale e difendere i diritti dei popoli oppressi.
Luce del mondo, la Chiesa, per svolgere il suo ruolo profetico, dovrebbe impegnarsi concretamente in questa lotta per far emergere la verità.
Gli esperti sanno che da anni la maggior parte dei debiti è stata effettivamente rimborsata. Sopprimerli, puramente e semplicemente, non è più un atto di carità, ma di giustizia. Così l’attuale Sinodo dovrebbe considerare questo problema dell’annullamento dei debiti che incidono in modo troppo pesante su alcuni popoli.
Per non fermarsi soltanto all’aspetto sentimentale, la mia proposta sarebbe che una Commissione internazionale, composta di esperti dell’alta finanza, pastori bene informati, uomini e donne del Nord e del Sud, prendesse in mano il problema. A questa Commissione verrebbe affidata la triplica missione di:
– studiare la fattibilità dell’operazione essendo evidente che non tutto è uguale dappertutto;
– prendere ogni tipo di provvedimento per evitare di ricadere nelle stesse situazioni;
– sorvegliare concretamente l’uso trasparente delle somme così economizzate, perché siano effettivamente utili a tutti gli elementi della piramide sociale: contadini e abitanti della città.
– evitare che dalle ricadute di questa abbondante manna del secolo traggano vantaggio sempre le stesse persone, del luogo e gli stranieri.

[Testo originale: francese]

– Rev. Pierre Noël NIAVA, Cappellano Nazionale dei Militari (COSTA D’AVORIO)

Nel quadro della ricerca di una soluzione alla crisi in Costa d’Avorio sono stati organizzati diversi incontri sotto l’egida della comunità economica dell’Africa Occidentale e della comunità internazionale. Si sono inoltre tenuti degli incontri su iniziativa delle forze belligeranti.
Il 4 marzo 2007 sono stati firmati dei nuovi accordi a Ouagadougou (Burkina Faso). Si è instaurato un dialogo diretto tra le due forze belligeranti. Da allora, il processo ha compiuto grandi progressi con molti effetti positivi come il disarmo, la smobilitazione degli ex combattenti, l’integrazione dei ribelli nell’esercito, la soppressione della zona di sicurezza, ecc., ma soprattutto è stata stabilita la data delle elezioni presidenziali, che si svolgeranno il prossimo 29 novembre.
La Conferenza episcopale si è adoperata molto per la riconciliazione. I vescovi hanno avuto diversi incontri con i leader politici e le forze belligeranti per riportarli alla ragione. Inoltre, sin dall’inizio della crisi, hanno indirizzato diversi messaggi alla popolazione. Ne citiamo solo quattro (4), con i concetti principali in essi contenuti:
1° messaggio: appello alla calma. Si tratta di un appello a cessare le proteste popolari e gli atti di vandalismo, a porre fine alla paralisi dei servizi pubblici e alle marce infinite. Ognuno deve quindi mantenere la calma e operare per il ritorno della pace.
2° messaggio: appello alla coscienza. I vescovi invitano ogni ivoriano a prendere coscienza che il paese va ancora costruito; occorre quindi evitare errori e menzogne per risparmiare al paese la catastrofe.
3° messaggio: esortazione agli abitanti della Costa d’Avorio e alla Comunità internazionale. I vescovi esortano gli ivoriani a evitare l’odio, la vendetta e la menzogna e a sforzarsi di vivere nell’amore, nella giustizia, nella verità e nella fiducia reciproca. Esortano parimenti la comunità internazionale ad agire con sincerità nella sua partecipazione alla ricerca della pace.4° messaggio: messaggio di riconciliazione e di pace. Cito le parole dei vescovi, che dicono: “Oggi la pace è possibile e alla nostra portata… Non è più tempo di accuse e di condanne. Macchiando questo paese con il sangue umano, abbiamo sbagliato, agito male. Dobbiamo chiedere sinceramente e umilmente perdono a Dio per questo e perdono gli uni agli altri, pubblicamente; perciò proponiamo che si organizzi una giornata di lutto nazionale, di digiuno, di preghiera per tutti, senza distinzione di religione e di fede. Tutti noi dobbiamo, nella tradizione autentica africana e religiosa del timore di Dio e del rispetto per la vita, chiedere perdono per il sangue umano versato”.

[Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Denis Komivi AMUZU-DZAKPAH, Arcivescovo di Lomé (TOGO)

Il Capitolo II dell’Instrumentum laboris ci porta al centro stesso della problematica della riconciliazione, della giustizia e della pace, che rappresentano una vera urgenza per l’Africa. Non occorre precisare che a questo imponente trinomio bisogna aggiungere la verità.
L’esigenza della fedeltà al Signore invita noi, che siamo suoi discepoli, a essere ambasciatori della riconciliazione, intesa come dono di Dio e annuncio della salvezza che egli ci dona già adesso (cfr. 2 Cor 5, 11-21). Il compimento di una tale missione s’inscrive nella durata ed esige un certo numero di condizioni che dovremmo tener presente durante tutti i nostri lavori:
1. L’elaborazione di un progetto realistico di educazione alla cultura della pace per tutte le nostre strutture educative e formative in Africa.
2. La creazione di una banca per la raccolta di dati socioculturali ed economici, in grado di essere di aiuto nella promozione della riconciliazione, della giustizia e della pac
e nell’amore e nella verità.
3. La creazione di un osservatorio per la prevenzione, la gestione e la risoluzione dei conflitti, coinvolgendo maggiormente la Chiesa-Famiglia di Dio in Africa.
4. Assicurare una diffusione molto vasta e giudiziosa della Dottrina sociale della Chiesa, pegno della creazione di un nuovo ordine socioculturale, economico e politico più giusto, più umano e più fraterno; in grado di favorire l’instaurazione in Africa del Regno di Dio; Regno di giustizia, di riconciliazione, di verità, d’amore e di pace.
5. È evidente che la Bibbia, Parola di Dio, in questo senso deve essere presentata ovunque come fonte inesauribile di riconciliazione, di giustizia e di pace; accolta e vissuta con coerenza, essa può diventare lo strumento più sicuro ed efficace per instaurare il Regno di Dio in Africa e nel mondo.
In quest’ottica, la Conferenza dei vescovi del Togo avrebbe voluto che il tema della nostra seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi fosse così formulata: “La Chiesa-Famiglia di Dio in Africa, al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”.
Comunque non c’è niente di grave, poiché ci comprendiamo bene e ci capiamo perfettamente, anche se non tutto viene “esplicitato”.

[00150-01.04] [IN105] [Testo originale: francese]

– S. E. R. Mons. Ignatius CHAMA, Vescovo di Mpika (ZAMBIA)

Vorrei sottolineare qui la crisi economica locale che io e il mio popolo viviamo nella nostra diocesi rurale nel nord-est dello Zambia. È la crisi dei raccolti dei nostri instancabili agricoltori che non riescono a raggiungere i mercati o a ottenere il giusto prezzo. È la crisi percepita quando investitori stranieri riforniscono i loro supermercati di raccolti importati dall’estero. È la crisi causata da pratiche commerciali, sia interne che internazionali, il che significa che merci sovvenzionate importate dall’Europa limitano la concorrenza leale con le merci locali.
Inoltre, oggi nello Zambia le nostre zone rurali devono anche affrontare la campagna per l’adozione di un modello di agricoltura geneticamente modificata, una cosa giustamente criticata nel n. 58 dell’Instrumentum laboris.
Queste dinamiche inique sono segno di un più profondo divario esistente fra città e campagna che minaccia nel complesso lo sviluppo integrale e sostenibile dello Zambia oggi. Il nostro stesso governo ci dice che, mentre la povertà urbana negli ultimi anni è diminuita, la povertà delle zone rurali è aumentata in modo significativo.
Ma cosa può fare un Sinodo per tutto ciò? Voglio ricordare semplicemente ai miei fratelli vescovi che fu il Sinodo del 1994 a cogliere una simile richiesta di giustizia economica nell’invito ad esso rivolto a sostenere la campagna del Giubileo per la cancellazione del debito dei paesi africani in difficoltà. La Chiesa ascoltò l’appello e parlò a favore della cancellazione del debito, che divenne, in Zambia e altrove, un importante passo verso l’umanizzazione dell’ordine economico. Oggi abbiamo bisogno di un simile appello alla giustizia, per esempio, nell’affrontare le questioni di politica commerciale come gli Accordi di partenariato economico (Epa) tra l’Africa e l’Europa e le preoccupazioni ambientali come il riscaldamento globale.
Chiedo, dunque, che la nostra Assemblea dia il suo sostegno alle richieste per un ordine economico più giusto che salvaguardi i diritti e il futuro delle nostre popolazioni rurali.

[Testo originale: inglese]

– S. E. R. Mons. Benedito Beni DOS SANTOS, Vescovo di Lorena (BRASILE)

Il tema di questa Assemblea sinodale “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace” riguarda, in certo modo, il Brasile, a causa di un passato segnato dall’ingiustizia verso coloro che sono venuti dall’Africa in Brasile.
Abbiamo bisogno di una “purificazione della memoria” espressa mediante atti concreti, soprattutto nell’ambito dell’educazione, del lavoro, della politica. In questo senso sono stati adottati alcuni provvedimenti governativi. Essi hanno bisogno di essere approfonditi e ampliati.
In campo ecclesiale, abbiamo una pastorale afro, organizzata a livello nazionale dalla Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile.
Anche in campo ecclesiale esiste una speciale sensibilità verso l’immagine della Chiesa-Famiglia di Dio. Questo ci avvicina all’esperienza ecclesiale della Chiesa in Africa. Questa immagine della Chiesa non interpella solamente la nostra intelligenza, ma anche la nostra affettività, il nostro cuore e la nostra immaginazione.
Tale modo di intendere la Chiesa possiede una centralità eucaristica e una dimensione trinitaria. In effetti, l’Eucaristia è la Cena che il Padre preparò per la sua Famiglia, che è la Chiesa. È soprattutto nella celebrazione dell’Eucaristia che la Chiesa si percepisce come “Famiglia di Dio”. A loro volta, il pane e il vino diventano nutrimento eucaristico per potere dello Spirito Santo, invocato nell’epiclesi.
Per tutto quanto appena detto, credo che i frutti di questa Assemblea sinodale alimenteranno la vita e la missione della Chiesa non solo in Africa, ma anche in Brasile. Questo Sinodo contribuirà a dare nuovo impulso alla collaborazione missionaria che la Chiesa in Brasile offre a diverse diocesi dell’Africa.

[Testo originale: portoghese]

– S. E. R. Mons. Peter J. KAIRO, Arcivescovo di Nyeri (KENYA)

I nomadi vivono e sono attivi da secoli in 52 diocesi dei paesi dell’AMECEA; sono presenti anche in Africa Occidentale e nel Nord Africa. Talvolta hanno causato e dato inizio a conflitti armati a causa della carenza di acqua e di pascoli, soprattutto durante i periodi di siccità.
La Chiesa deve promuovere il dialogo tra queste diverse tribù, dove il ruolo degli anziani è molto importante visto che i guerrieri non possono fare scorrerie senza la loro benedizione.
Il governo dovrebbe impegnarsi anche a realizzare pozzi e dighe nelle zone aride. Le strutture sanitarie ed educative dovrebbero anche essere offerte e promosse fra i pastoralisti. La commissione giustizia e pace dovrebbe fornire al popolo nomade un’educazione sui diritti umani. I genitori dovrebbero essere incoraggiati a educare le figlie femmine.
Nelle parrocchie di quest’area diventa estremamente difficile per il sacerdote dedicare un’attenzione pastorale adeguata alla gente. Pertanto, i nomadi che si spostano spesso rimangono indietro rispetto alle comuni attività parrocchiali tradizionali. Occorre che la Chiesa metta in atto nuove forme di evangelizzazione e di attenzione pastorale per la popolazione nomade. Ciò dovrebbe includere la nomina di sacerdoti nomadi, di coordinatori pastorali nomadi e di catechisti nomadi, nonché scuole mobili, assistenza sanitaria per i pastori e centri ecclesiali mobili.
Si propone anche che nella nostra Chiesa cattolica vi siano un impegno nelle strutture sopra-diocesane e rapporti al di sopra dei confini, al fine di mettere in atto iniziative di pace da entrambe le parti dei confini e al di là del territorio delle diocesi. Possono essere utili anche gli incontri regolari del coordinatore pastorale dell’apostolato dei nomadi delle diocesi e dei paesi confinanti, come pure l’attuazione di strategie comuni che dimostrino la solidarietà umana e l’unità cristiana.

[Testo originale: inglese]

– S. E. R. Mons. Boniface LELE, Arcivescovo di Mombasa (KENYA)

Lo stigma associato all’Aids è troppo pesante perché le persone, come individui e come comunità, possano portarlo da sole. Ho visto paura e disperazione negli occhi della nostra gente. Le persone dovrebbero trovare in noi coraggio e speranza. Si sentono dire dai loro leader religiosi, dalla loro famiglia, che in qualche modo sono loro stesse responsabili della malattia.
Dobbiamo aiutare la nostra gente a capire che l’HIV/Aids è una malattia e che è sbagliato dare la colpa a se stessi. Forse non sono stati prudenti nel loro stile di vita, ma la malattia ci invita alla compassione.
Ho visto famiglie allontanare la nuora e i bambini a causa del sospetto. Respingere i bambini da parte della fa
miglia è un abominio. È un peccato grave agli occhi di Dio. È una distorsione del messaggio evangelico di Gesù, che è amore, perdono, riconciliazione, ritorno alla famiglia di Dio.
Dobbiamo stare vicini ai nostri giovani e ai nostri anziani per aiutarli a evitare di contrarre l’Aids/HIV. Dobbiamo aiutare le famiglie a comprendere che i bambini che vengono lasciati senza l’amore e la guida dei genitori sono molto più esposti al contagio rispetto a coloro che hanno il sostegno della famiglia.
L’Aids/HIV è un kairos che ci sfida a rivelare quanto siano profondi alcuni dei nostri peccati. C’era un uomo che stava morendo di Aids e io ho avuto l’onore di essergli accanto negli ultimi giorni. L’ho osservato lottare con le sue scelte di vita e con la vergogna per la sua malattia, lo stigma che la società gli aveva imposto. Ho iniziato a comprendere la mia umanità e la mia condizione di peccatore quando ha alzato la mano per toccare la croce che indossavo. Ho percepito la sua accettazione di sé e il perdono di Dio e la sua salvezza. È stato in quel momento che mi ha chiesto di prendermi cura dei suoi figli, poiché lui non poteva più farlo. Ho sentito la sua fiducia in me come fratello e Pastore. Dio mi ha sfidato ad accettare me stesso, ad essere riconciliato con me stesso.

[Testo originale: inglese]

Successivamente, è intervenuto il seguente Delegato fraterno:

– Sua Eccellenza Barnaba EL SORYANY, Vescovo della Chiesa Copta Ortodossa in Italia

L’Africa per noi ha portato dei cari ricordi dal momento in cui vi è arrivato il nostro padre Abramo e successivamente Giacobbe ed i suoi figli per vivere in Egitto, la terra in cui è nato e cresciuto Mosè e dalla quale egli, per mano di Dio, ha liberato il popolo d’Israele. La cara terra che ha accolto la Sacra Famiglia in fuga dalla persecuzione. L’Egitto di San Marco e della sua evangelizzazione delle genti. II paese dove è nato il monachesimo per opera di Sant’Antonio Abate. Sant’Attanasio e San Cirillo il grande e tanti Santi e Martiri che hanno sacrificato le loro vite in difesa della nostra fede cristiana.
Noi tutti sappiamo che questo continente ha sofferto molto dal colonialismo che ha sfruttato le risorse naturali e non si è occupato delle popolazioni, che sono state lasciate nella povertà, nella malattia, nella fame, nel degrado totale. Per non parlare poi delle guerre che hanno insanguinato e tuttora continuano a devastare la nostra amata Africa; lo sfruttamento dei bambini soldato, le persecuzioni e le violenze quotidiane dei cristiani nell’ambito sociale, la distruzione dei valori familiari.
Qui viene il compito della Chiesa nell’evangelizzare attraverso la cultura della carità, la promozione della pace e dell’amore che si concretizza nel curare i malati, aiutare i poveri, difendere gli oppressi, risollevare insomma l’essere umano. Di fondamentale importanza è la cura del culto, la catechesi ai bambini ed alle loro famiglie che si possano sentire accolte in una unica famiglia in Cristo.
Andiamo fratelli! Completiamo il cammino degli apostoli, quelli che sono andati nel mondo ad evangelizzare senza possedere nulla ma pieni di fede nell’opera dello Spirito Santo. Andiamo a portare il messaggio vivo di Gesù per tutti questi paesi che vivono nel bisogno e nella povertà ma sono ricchi spiritualmente con la grazia di Gesù.
Uniamoci tutti in preghiera per il compimento dell’opera di Dio nel servizio a questi paesi, forti nella pazienza e nella speranza che domani sarà migliore di oggi e che il mondo senta la voce di coloro che soffrono affinché la Provvidenza Divina porga loro la mano.
Andiamo! lasciamo le tante difficoltà da parte e guardiamo alla cosa più importante che è la costruzione del regno di Dio in questo continente, portare la parola di Dio ad ognuno, questo è il nostro fine.
Il mio augurio è per un buon risultato di questo Santo Sinodo che possa avere una grande risonanza nel mondo in modo che i lavori in esso prodotti si possano realizzare.

Infine, sono intervenuti i seguenti Uditori e Uditrici:

– Sig. Laurien NTEZIMANA, Licenziato in Teologia, Diocesi di Butare (RWANDA)

Racconto qui brevemente la mia avventura di teologo laico alla ricerca di una spiritualità che renda giustizia all'”indoles saecularis”, questo “marchio della secolarità” che fa del laico un figlio della Chiesa vivente nel cuore del mondo per trasformarlo dal suo interno come fermento, sale, soffio e luce.
Nel 1990, al termine del mio terzo ciclo di studi teologici presso la Katholieke Universiteit te Leuven, ho scritto un libro pubblicato otto anni dopo dall’editrice Karthala con il titolo Libres paroles d’un théologien rwandais: joyeux propos de bonne puissance. La “bonne puissance” di cui parlo in questo libro è quella di Cristo, poiché le altre sono false potenze, vale a dire illusioni che ingannano i malcapitati che si fidano. La “bonne puissance” è un trinomio il cui primo aspetto è la sicurezza o non-paura, il secondo, la forza di vivere o non-rassegnazione e il terzo, l’accoglienza assoluta dell’altro o non-esclusione. Ciò che definisco il principio di “bonne puissance” è quindi una traduzione in termini pratici delle virtù teologali.
Tra il 1990 e il 1994 ho utilizzato il principio di “bonne puissance” nell’ambito del Servizio di animazione teologica affidatomi dal vescovo della diocesi di Butare, il compianto Mons. Jean Baptist Gahamanyi, per formare i responsabili delle comunità cristiane alla dimensione pubblica della fede; tra aprile e luglio del 1994, il principio di “bonne puissance” mi ha permesso di sopravvivere al genocidio e di aiutare con tutte le mie forze i miei fratelli e le mie sorelle tutsi; tra settembre del 1994 e settembre del 1999 ho utilizzato il principio di “bonne puissance” per formare animatrici e animatori che hanno saputo portare la Buona Novella sulle colline di Butare, nel terribile contesto dell’immediato dopo-genocidio; il premio per la pace di Pax Christi International del 1998 è giunto in riconoscimento del valore universale di questo lavoro; quando nel 1999 tra il clero e me è accaduto ciò che è accaduto a Paolo e Barnaba (At 15, 39), il principio di “bonne puissance” mi ha consentito di fondare l’associazione Modeste et Innocent (www.ami-ubuntu.org), che da febbraio del 2000, nonostante la prigione e altre tribolazioni, lavora con successo per la riconciliazione dei ruandesi. Il premio “Theodor Haecker Preis für politischen Mut und Aufrichtigkeit” della città tedesca di Esslingen am Neckar è giunto nel febbraio del 2003, in riconoscimento del fondamento di tale impegno.

[Testo originale: francese]

– Fr. Armand GARIN, Piccolo Fratello di Gesù (Francia), Responsabile regionale dei Piccoli Fratelli di Gesù per l’Africa del Nord (Algeria e Marocco), Annaba (ALGERIA)

Nei paesi del Maghreb, dove la quasi totalità delle persone è musulmana, secondo l’esempio di Gesù di Nazaret e sulla scia di Charles de Foucauld, nella fedeltà al Vangelo, alcuni/e cristiani/e si sforzano di vivere in fratellanza con i loro vicini e amici musulmani. Ritengono che sia possibile vivere una vita autentica di condivisione, di ascolto, di accoglienza e di servizio facendosi prossimo ai musulmani, soprattutto ai piccoli e ai poveri. Ciò presuppone che si conosca l’altro dall’interno delle sue tradizioni culturali e religiose. Lo straniero, senza saperlo, ci porta ad approfondire la nostra fede e a vivere il Vangelo in modo più autentico. Le parabole e gli esempi della vita di Gesù ci appaiono sotto una nuova luce. Allora, con gli amici musulmani, che credono nell’unico Dio, può nascere una vera solidarietà spirituale, attraverso gesti che talvolta hanno il sapore dell’eternità e sono il segno di una comunione autentica.
Ciò è possibile perché come cristiani e musulmani crediamo fortemente nella fraternità in Adamo (siamo tutti creature di Dio) e in Abramo. Ma, dalla venuta di Gesù, per noi la fraternità tra tutti gli uomini ha la sua fonte nella nostra fede in Gesù morto e risorto p
erché tutti abbiano la vita. Crediamo che Gesù è misteriosamente presente nei nostri incontri.

[Testo originale: francese]

– Prof. Raymond RANJEVA, Già Vice-Presidente della Corte Internazionale di Giustizia (Paesi Bassi), Membro del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace (Città del Vaticano) (MADAGASCAR)

Aspetti della Verità:
– verità dei fatti – prevenzione contro le rivelazioni malevole, una realtà materiale e sensibile;
– verità degli impegni – pacta sunt servanda
– verità nell’esercizio delle responsabilità – testimonianza attiva
La Verità e le sue funzioni nella riconciliazione:
– rifiuto della strumentalizzazione dell’odio e della riconciliazione; cfr. giustizia politica
– conoscenza e valutazione delle situazioni d’ingiustizia e di rottura della pace
– messa in atto: a) della correzione e della cessazione della situazione d’ingiustizia
b) dello sradicamento delle cause produttrici di falsa giustizia in false verità
Carattere carente di un approccio puramente umano alla Verità
– assenza di garanzia dinanzi al relativismo: rapporto di forza, calcolo, furberia
– necessaria messa in conto delle considerazioni religiose della fede
a) eliminare le sovrapposizioni dal fatto religiosob) domanda permanente sulla base della Parola di Dio
Dottrina sociale della Chiesa
– quadro intellettuale e dottrinale dell’analisi degli aspetti della riconciliazione, della giustizia e della pace
a) al triplice livello etico, normativo, istituzionale
b) nel quadro della modifica delle mentalità e delle strutture
– compito di tutta la Chiesa – interazione permanente orizzontale e verticale.

[Testo originale: francese]

– Dott.ssa Elena GIACCHI, Ginecologa del Centro Studi e Ricerche per la Regolazione Naturale della Fertilità, Università Cattolica Sacro Cuore, Roma; Presidente di WOOMB-Italia (Coordinamento nazionale del Metodo dell’Ovulazione Billings-Italia) (ITALIA)

L’insegnamento e la diffusione del Metodo dell’Ovulazione Billings (MOB) in tutto il mondo, sono stati sempre accompagnati dalla proposta di uno stile di vita che promuove l’amore coniugale, l’unità della famiglia, il rispetto per la donna e l’apertura generosa all’accoglienza della vita. Per la sua semplicità il MOB può essere usato da tutte le coppie indipendentemente dal livello di istruzione, dalla religione o dallo stato socioeconomico, ed accolto non solo da Cattolici ma anche da Musulmani, Hindù e persone di ogni credo religioso. La coppia, può gestire la propria fertilità in modo naturale, sia per ottenere,· sia per evitare la gravidanza in ogni situazione della vita fertile: cicli regolari, irregolari, allattamento al seno, premenopausa. L’insegnamento del metodo contribuisce a: 1 )promuovere la famiglia e la procreazione responsabile nel rispetto della vita, dell’ amore e della fedeltà coniugale; 2)promuovere la dignità della donna; 3)prevenire l’aborto; 4)evitare il ricorso alla fecondazione artificiale consentendo alle coppie sub-fertili di ottenere la gravidanza nel rispetto dei valori etici; 5)prevenire le malattie a trasmissione sessuale, educando i giovani ad una sessualità matura che integra la dimensione spirituale, corporea, psicologica. Il MOB può favorire la diffusione di valori umani e cristiani contribuendo all’impegno pastorale e all’evangelizzazione.

[00144-01.03] [UD008] [Testo originale: italiano]

INTERVENTO DELL’INVITATO SPECIALE RODOLPHE ADADA, GIÀ RAPPRESENTANTE SPECIALE CONGIUNTO DEL SEGRETARIO GENERALE DELLE NAZIONI UNITE E DEL PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE DELL’UNIONE AFRICANA NEL DARFUR (SUDAN)

Introduzione

È un immenso onore per me potermi rivolgere, in presenza di Sua Santità, a questo areopago di Principi della Chiesa, riuniti in questa aula sacra.
Come sapete, non ho più l’incarico dell’UNAMID (African Union/United Nations Hybrid operation in Darfur) e le opinioni che esprimo, adesso, riguardano solo me. Il dibattito sul Darfur è divenuto così polarizzato che è difficile mantenere una posizione obiettiva. Questo è ancora più spiacevole perché solo un approccio neutro può garantire soluzioni durature.
Di fronte a Sua Santità, vorrei offrire una testimonianza il più imparziale possibile. So di poter parlare serenamente, poiché la Chiesa è una forza di pace e la pace esige la verità.
Alla fine del 2005, il Congo è stato eletto membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per il periodo 2006/2007 e nel gennaio del 2006, il Presidente Denis Sassou-Nguesso viene eletto presidente in carica dell’Unione Africana. Queste due decisioni hanno fatto del Ministro degli Esteri del Congo – quale ero all’epoca – un osservatore privilegiato dei grandi problemi che attanagliavano l’Africa, tra i quali, al primo posto, vi era la crisi del Darfur.
Ho così potuto seguire l’evoluzione di tale questione più da vicino. Quando il segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, e il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Alpha Oumar Konaré, hanno scelto la mia persona per dirigere la prima missione ibrida Nazioni Unite/Unione Africana e il presidente Denis Sassou-Nguesso ha dato il suo consenso, mi sono sentito investito di una triplice fiducia. Era mio compito meritarla.

Il conflitto

Tutti sanno che il conflitto del Darfur è esploso nel febbraio del 2003 quando un gruppo ribelle, il Sudan Liberation Army – SLA – guidato da Abdulwahid Mohammed Al Nur, ha attaccato Gulu, il capoluogo del Jebel Marra. Successivamente, ad aprile, questo gruppo attaccò l’aeroporto di El Fasher, capitale del Darfur. Venne poi formato un secondo gruppo, conosciuto come Justice and Equality Movement – JEM – guidato da Khalillbrahim.
La risposta del governo sudanese si manifestò con quella che alcuni hanno definito “contro-insurrezione al ribasso”, estremamente violenta e basata sullo sfruttamento delle rivalità etnico sociologiche tramite l’uso dei “Janjaweeds” dalla pessima reputazione.
Le conseguenze furono spaventose: centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati (IDP e rifugiati), incalcolabili violazioni dei diritti umani. Una crisi umanitaria senza precedenti.
A meno di 10 anni dal genocidio del Ruanda, la crisi del Darfur ha subito sollevato la questione del genocidio. Conoscete la controversia su questo punto delicato.
Tuttavia, un’analisi più profonda dimostrerebbe che il conflitto del Darfur affonda le sue radici nella storia del Sudan. La storia, l’emarginazione delle regioni periferiche e il loro sottosviluppo, il degrado dell’ecosistema sono fattori da non trascurare. È una “crisi del Sudan in Darfur”. Questa crisi è legata anche alla storia del vicino Ciad. Per esempio, il FROLINAT creato negli anni ’60 per lottare contro il presidente del Ciad, François Tombalbaye, è stato fondato a Nyala, nel Darfur, e non è un caso che il primo mediatore nel conflitto sia stato il presidente del Ciad, Idriss Deby. Il lungo conflitto del Tehad ha contribuito anche a far affluire armi leggere in Darfur.
Si diceva che “il Darfur degli anni ’90 era carente d’acqua, ma che invece era inondato di fucili”.
Già prima del 2003, la crisi attuale comincia in realtà con una guerra civile tra i Fur e gli arabi, durante la quale ogni parte accusava l’altra di tentato genocidio.
Ecco due citazioni:
1. “La sporca guerra che ci è stata imposta è iniziata come una guerra economica ma ha ben presto assunto il carattere di genocidio e aveva lo scopo di cacciarci dalla nostra terra ancestrale (…). Lo scopo è un olocausto totale e (…) l’annichilimento completo del popolo Fur e di tutto ciò che è Fur”.
2. “La nostra tribù araba e i Fur hanno convissuto pacificamente nel corso di tutta la storia del Darfur. Ma la situazione ha conosciuto una destabilizzazione verso la fine degli anni ’70 quando i Fur hanno lanciato il motto “il Darfur ai Fur”… Gli arabi sono stati dipinti come gli stranieri che dovevano essere espulsi dal Darfur… Sono i Fur che, nella loro ricerca di espansione della cosiddetta “cintura africana”, vogliono espellere tutti gli
arabi da questa terra”.Queste parole piene d’odio sono state pronunciate durante la conferenza di riconciliazione svoltasi a El Fasher, dal 29 maggio all’8 luglio 1989.
Eppure, questa dimensione etnica è solo la punta dell’iceberg. Questo conflitto è assai più complesso della descrizione manichea comunemente diffusa.

La risposta della Comunità Internazionale

Oltre alle organizzazioni umanitarie che continuano a fare un lavoro ammirevole a servizio del popolo sudanese del Darfur, l’Unione Africana è stata la prima a reagire. Nell’aprile del 2004, essa ha organizzato delle trattative per giungere alla firma del cessate il fuoco umanitario di N’Djamena tra il governo del Sudan e i due movimenti ribelli, cioè lo SLA di Abdulwahid El Nur e il JEM di Khalillbrahim. È questo accordo che permetterà di avviare la MUAS (Missione dell’Unione Africana in Sudan), con il sostegno di numerosi donatori tra i quali è giusto citare almeno l’Unione Europea, gli Stati Uniti d’America e il Canada.
La MUAS ha cominciato con 60 osservatori e una forza di protezione di 300 soldati ma successivamente è passata a 7000 uomini. Era la prima missione di peace keeping organizzata dall’Unione Africana e non è stata la più facile.
La MUAS è stata oggetto di molte critiche da parte dei media occidentali. Queste critiche sono ingiustificate e ingiuste.
Il lavoro svolto da questa missione è stato enorme e merita di essere elogiato. In condizioni in cui nessuno voleva intervenire, questi africani hanno assicurato con sacrificio e dedizione la presenza della comunità internazionale in Darfur.
Hanno dato testimonianza della compassione umana. Hanno gettato le basi di ciò che oggi è l’UNAMID. Sessantuno (61) di loro hanno fatto il supremo sacrificio.

Dal MUAS al MINUAD

Dalla fine del 2005, di fronte alla complessità dei problemi di ogni genere posti dalla gestione della MUAS, è apparso difficile per l’Unione Africana continuare ad assumersi questa responsabilità. L’Unione Africana ha preso allora la decisione di passare il testimone all’ONU cui spettava la missione. Il governo del Sudan si oppose con forza a questa decisione. Tutto il 2006 è trascorso nel tentativo di convincere il governo sudanese della necessità di questo passaggio di responsabilità.
Soltanto il 16 novembre del 2006 il segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, in procinto di andarsene, fece la proposta di una missione ibrida. Il governo sudanese accettò e nacque così l’UNAMID, la Missione delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana in Darfur.
L’UNAMID è stata formalmente creata con la risoluzione 1769 del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, attraverso il rapporto congiunto del segretario generale delle Nazioni Unite e del presidente della Commissione dell’Unione Africana. Essa prevede 20.000 militari, 6.000 poliziotti e altrettanti civili, diventando così la più grande forza di peace keeping del mondo. Doveva essere dotata di tutti gli strumenti necessari allo svolgimento del suo mandato secondo il capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite e doveva essere preceduta da due “moduli di sostegno” (light support package e heavy support package) alla MUAS per rafforzarla prima del passaggio di potere.
L’UNAMID ha come mandato:
– contribuire a ristabilire le condizioni di sicurezza necessarie alla distribuzione degli aiuti umanitari;- garantire la protezione della popolazione civile;
– seguire e verificare l’applicazione dei diversi accordi del cessate il fuoco
– contribuire all’applicazione dell’accordo di pace di Abuja e di ogni altro accordo.
Lo spiegamento dell’UNAMID ha costituito una grande sfida. Si tratta della più grande missione al mondo nella regione più interna del più grande paese africano. In Africa, il punto più lontano dal mare è in Darfur. Le infrastrutture per i trasporti sono inesistenti. L’UNAMID succede alla MUAS che non ha potuto usufruire dei “moduli di sostegno” promessi. Tutto ciò ha costituito un insieme di ostacoli che abbiamo dovuto superare.
La reticenza, se non la resistenza, del governo sudanese nei confronti della presenza di una missione delle Nazioni Unite in Darfur ha rappresentato un ulteriore problema da gestire. Le condizioni del dibattito internazionale sul Darfur avevano stigmatizzato il governo del Sudan che, da parte sua, vedeva nella “comunità internazionale” semplicemente una forza il cui scopo era il rovesciamento del regime. Ma, con l’aiuto dell’Unione Africana, è stato possibile diminuire il sospetto nei confronti dell’UNAMID. A questo scopo, è stato necessario lavorare a stretto contatto con il governo. Credo che oggi il governo sudanese sia convinto che l’UNAMID è una forza di pace e non l’avanguardia di una forza di invasione. È stata creata una Commissione tripartita (ONU-UA e governo del Sudan) per risolvere ogni problema riguardante lo svolgimento dell’UNAMID.
Questo mio impegno presso il governo sudanese non è mai stato ben visto né tanto meno capito.
La maggior parte delle missioni di peace keeping si svolgono negli “stati in fallimento”, in cui il governo è o inesistente o impotente (Bosnia, Kosovo, Timor…). In questi casi, la missione dell’ONU diventa un vero governo e il rappresentante speciale quasi il capo di governo. In Sudan non è così. Le Nazioni Unite devono su questo punto effettuare una vera “rivoluzione culturale”.
Oggi possiamo considerare che il grosso delle truppe sarà sul campo verso la fine dell’anno. Occorre tuttavia sottolineare che alcuni mezzi tecnici promessi dai “moduli di sostegno” non sono ancora stati forniti e in particolare gli elicotteri militari che permetterebbero una maggiore mobilità in un territorio grande come la Francia. È una delle incongruenze delle decisioni della “comunità internazionale”.
L’UNAMID ha dovuto anche far fronte alla diffidenza e persino all’ostilità degli sfollati. Far accettare l’UNAMID agli sfollati e ai movimenti armati è stato più difficile. Molti di loro rifiutavano il suo “carattere africano”.
D’altra parte, la loro ostilità all’accordo di Abuja di cui l’UNAMID doveva assicurare l’attuazione complicava ancor più la situazione. Ma la nostra azione sul campo – soprattutto al tempo della crisi del campo di Kalma dove un'”operazione di polizia” ha portato alla morte di 38 sfollati, all’espulsione di tredici ONG internazionali e ai combattimenti di Muhajeriya e Umm Baru fra il JEM e le forze governative, l’UNAMID ha dato assistenza ai feriti dei due campi, pur proteggendo le migliaia di civili che avevano trovato rifugio presso di essa – la nostra azione sul campo, come dicevo, è riuscita a convincere gli sfollati dell’imparzialità dell’UNAMID nell’attuazione del suo mandato. Lo hanno dichiarato in una lettera commovente che abbiamo considerato come una vera e propria onorificenza.
Oggi l’UNAMID è presente ovunque in Darfur. Tutte le componenti della missione, i militari, la polizia, i civili (affari politici, affari civili, diritti umani e del DDDC – Darfur-Darfur Dialogue and Consultations) mantengono rapporti regolari con tutte le parti, con la società civile e con la popolazione in generale. Essi osservano la situazione giorno per giorno e possono fedelmente darne conto. Partecipano anche con successo alla risoluzione delle dispute locali.

La situazione attuale in Darfur

Durante i 26 mesi che ho appena trascorso in Darfur come responsabile dell’UNAMID, ho potuto osservare un miglioramento progressivo della situazione della sicurezza in Darfur e ciò malgrado il persistere di due gravi rischi: la proseguimento delle operazioni militari fra il JEM e le forze governative da una parte e il deterioramento delle relazioni fra il Ciad e il Sudan dall’altra. A questo è opportuno aggiungere le lotte inter-tribali e l’aumento del banditismo, dovuti in gran parte al crollo della legge e dell’ordine.
La criminalità e il banditismo sono oggi la preoccupazione principale in materia di sicurezza. Osserviamo inoltre una nuova tendenza al rapimento di persone a scopo di riscatto. La strategia dell’UNAMID per la protezione dei civili mira a control
lare tutte queste cause di pericolo per i civili innocenti. Si tratta per l’UNAMID di rafforzare la sua presenza nei campi profughi (ormai è presente 24 ore su 24 in 15 campi) e di moltiplicare il numero di pattuglie di polizia e dei militari nelle città e nei villaggi.
Ma, detto questo, la situazione è cambiata radicalmente dopo l’intenso periodo 2003-2004 quando venivano uccise decine di migliaia di persone. Oggi, in termini puramente numerici, possiamo dire che il conflitto del Darfur è un conflitto di bassa intensità. Non vorrei insistere su questa macabra contabilità che appassiona i media: un morto è un morto di troppo e i numeri che avevo citato al Consiglio di Sicurezza erano lì solo per sostenere l’analisi.
Questo non significa assolutamente che il conflitto in Darfur sia concluso! Infatti, il conflitto in Darfur continua. I civili continuano a correre rischi inaccettabili. Milioni di persone si trovano ancora nei campi profughi o sono rifugiati. A causa dell’insicurezza, non possono tornare a casa e riprendere una vita normale. Non è stata ancora trovata alcuna soluzione alle gravi ingiustizie e ai crimini commessi, in particolare durante il picco delle ostilità, nel 2003-2004.
I progressi che osserviamo sul campo devono essere consolidati con un accordo di pace che deve essere inclusivo. Esso dovrebbe comprendere non solo i movimenti armati ma anche l’insieme delle componenti della società del Darfur, inclusa la società civile, gli sfollati, i rifugiati, senza dimenticare gli arabi che vengono troppo spesso assimilati ai Janjaweeds. Infatti, solo un accordo politico accettato e condiviso da tutti è in grado di riportare una pace duratura in Darfur.
In realtà, è proprio ciò che manca di più, oggi, all’UNAMID: un accordo di pace. Infatti, questa missione di peace keeping non ha pace da mantenere.
Non c’è soluzione militare al problema del Darfur, non può esserci. Nessuno ha i mezzi per vincere militarmente. L’unica opzione è quindi un accordo politico e questo accordo deve tener conto di tutti gli aspetti del problema, locali, regionali, politici, socio-economici, senza dimenticare la grave questione umanitaria.
I vari tentativi di negoziazione dal 2003 non hanno portato a una soluzione. L’accordo di Abuja, firmato il 5 maggio 2006, non è stato inclusivo ed è stato rifiutato da gran parte della popolazione del Darfur. L’attuale mediazione UA-UN deve tenerne conto e puntare alla partecipazione di tutti.
I prossimi due anni saranno cruciali per il Sudan. Sono previste elezioni generali nell’aprile del 2010 e, nel 2011, ci sarà il referendum per l’autodeterminazione del Sudan meridionale. È necessario che il Darfur partecipi a elezioni giuste e trasparenti e, perché l’esercizio di autodeterminazione del Sud si svolga in condizioni ottimali, il problema del Darfur dovrebbe essere già risolto. A dir poco, il tempo stringe.

Pace, giustizia e riconciliazione

In Darfur sono state commesse terribili violazioni dei diritti umani, in particolare nel 2003-2004. Questi problemi non sono stati trattati. La pace e la giustizia sono due facce della stessa medaglia. La questione non è sapere se la giustizia deve essere promossa, ma piuttosto il come farlo.
Il procuratore della corte penale internazionale (CPI) ha chiesto e ottenuto l’emissione di una mandato d’arresto contro il presidente del Sudan.
L’UNAMID ha sempre insistito sul fatto che questa questione esulava dal suo mandato e non ha mai commentato questa decisione della giustizia. Ma è una questione che domina il dibattito e tutto il processo di trattamento del problema del Darfur. L’Unione Africana, pur precisando di non tollerare in alcun caso l’impunità, ha chiesto che questo mandato d’arresto venga differito per rendere la pace possibile, ma il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite non è giunto ad un accordo sull’applicazione dell’articolo 16 dello Statuto di Roma. Questo ha spinto l’Unione Africana a chiedere ai suoi membri di non eseguire il mandato d’arresto. Parlando a titolo strettamente personale, ritengo che ci troviamo oggi in una situazione di stallo. L’esecuzione di un mandato d’arresto contro un capo di stato in carica non è una cosa facile e si può comprendere la reticenza a negoziare, espressa da alcuni movimenti armati. “Perché negoziare con un criminale in procinto di essere arrestato?”.
L’Unione Africana ha creato una Commissione ad Alto Livello (AU High-Level Panel on Darfur), presieduta dal presidente Thabo Mbeki (ex presidente del Sudafrica) che comprende, fra gli altri, il presidente Abdusalami Aboubakar (ex presidente della Nigeria) e Pierre Buyoya (ex presidente del Burundi), per studiare questa questione della pace, della giustizia e della riconciliazione e avanzare delle proposte. La Commissione è composta da eminenti esperti e conoscitori dei problemi del Darfur, del Sudan e della giustizia. Sono stato ascoltato da questa Commissione come altre 3000 e più persone. L’UNAMID e, più precisamente, la sua componente DDDC (Darfur-Darfur-Dialogue and Consultations), ha offerto tutto il suo sostegno alla Commissione.
La Commissione ha dovuto presentare il suo rapporto ieri, 8 ottobre. Questo rapporto dovrebbe contenere le linee programmatiche per uscire dall’impasse. La comunità internazionale dovrebbe esaminare questo rapporto con obiettività e spirito costruttivo. La Chiesa, forza di pace, elevata autorità morale, potrebbe interessarsi al lavoro di questa Commissione. Forse potremmo trovarvi una via d’uscita alla situazione di stallo.
L’UNAMID è uno strumento straordinario di pace, unico nel suo genere, essendo nato dalla volontà di due organizzazioni, l’Unione Africana e le Nazioni Unite. Spetta alla “comunità internazionale” farne buon uso. C’è stato un tempo in cui l’ibridismo era sinonimo di bastardaggine e di tara ma oggi, quando si parla di automobile ibrida, siamo al culmine del progresso.
L’UNAMID rappresenta la comunità internazionale nel suo insieme e non questo o quel paese membro.
Bisogna dunque rafforzare l’UNAMID, darle tutti i mezzi di cui ha bisogno e soprattutto questo accordo di pace. Gli uomini e le donne che servono la comunità internazionale su questo fronte non cessano di dimostrare la loro dedizione e abnegazione.
La cosa più importante è che la cooperazione fra i promotori dell’UNAMID, l’Unione Africana, e le Nazioni Unite, rimanga sincera. Il carattere ibrido dell’UNAMID, che è stato il vero visto d’ingresso delle Nazioni Unite in Darfur, non deve sembrare una semplice astuzia, un “cavallo di Troia”. L’Unione africana non deve essere solo uno “sleeping partner” ma deve svolgere pienamente il suo ruolo. Altrimenti la sconfitta è assicurata.
Il Sudan è il più grande paese dell’Africa. È alla cerniera di due mondi, l’Africa e il mondo arabo; confina con nove (9) paesi africani. Dall’indipendenza (1 gennaio 1956) si può dire che ha conosciuto la pace solo sporadicamente.
L’accordo globale di pace (CPA) che ha messo fine a oltre 20 anni di guerra civile fra Nord e Sud, ha suscitato tante speranze. Per la prima volta si intravvedeva un Sudan democratico.
Nel momento in cui la violenza sembra diminuire in Darfur, è preoccupante vedere che proprio ora nel Sud riprendono i massacri; la pace sarà forse il “masso di Sisifo” che, per la massima sfortuna dei sudanesi, ricade giù non appena si crede di aver raggiunto la vetta della montagna?
Il Sudan è uno. Bisogna che la comunità internazionale pensi “Sudan” e non più “Darfur e Sud”. In questa visione olistica, la Chiesa ha un ruolo preminente da svolgere in un Sudan pluralista, fra il Sud cristiano e animista e il Nord musulmano, dove c’è il Darfur.
Era il sogno di un grande sudanese, John Garang, il sogno di un nuovo Sudan in pace, in un’Africa in pace.[Testo originale: francese]

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ZENIT Staff

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