Inculturazione e musica: tra il dire e il fare…

di Aurelio Porfiri*

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MACAO, martedì, 19 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Avete mai sentito parlare di inculturazione? E certamente un concetto che si sente continuamente citare, specialmente negli ultimi decenni (anche se ovviamente è un concetto con sui ci si confronta da secoli, millenni). è una parola che vuole denotare la capacità di un dato messaggio, spesso proveniente da una data cultura di essere “tradotto” nelle categorie pertinenti ad un’altra cultura. Questo significa che il messaggio deve essere fatto proprio dalla cultura ricevente usando categorie a lei proprie. Come tutti i bei concetti, è stato anche usato in modo che a mio avviso ne ha snaturato la forza e pregnanza originaria. Non è certo stato fatto con intento negativo, è solo che talvolta si tende ad appropiarsi di alcuni nobili concetti e a forzarli in modo che si adattino alle idee che più ci piacciono.

In questi giorni, durante il Sinodo per il Medio Oriente, si è fatto accenno ad alcuni problemi concernenti l’incontro tra diverse culture liturgiche e musicali è un tema che non invecchierà mai. Ognuno si scontra con la necessità di fare propri forme e concetti prevenienti da culture altre. Per il cristianesimo, esperienza del soprannaturale, ogni incontro culturale è una inculturazione. Direi prima di tutto che l’inculturazione, che è un concetto a cui si fa riferimento in special modo quando si parla di liturgia (ma naturalmente è un concetto che riguarda ambiti più vasti), ha avuto le sue belle ricadute anche nell’ambito della musica liturgica. Quante volte si è sentito dire che ogni popolo deve usare nelle celebrazioni la musica che è più vicina alla propria cultura. Bel concetto che in se stesso ha molto di vero ma che nasconde anche alcune insidie se usato malamente, specialmente quando alcuni, con le migliori intenzioni voglio ripetere, se ne appropriano per comprimerlo dentro le proprie idee (prego enfatizzare la parola “comprimerlo”).

Io credo fermamente che si debbano rispettare tutte le culture e lo dico con piena coscienza vivendo in una cultura che non è la mia di origine. Ma credo anche che per una inculturazione sana bisogna rispettare prima di tutto ciò che la storia ci ha consegnato e che durante i secoli si è sviluppato in un certo modo per determinati motivi. Si vuole affermare che il cristianesimo è proprietà di una determinata cultura? No, certamente. Esso è patrimonio dell’umanità. Si vuole negare che il cristianesimo, per disposizioni inscrutabili, si è incarnato e sviluppato prima in certe culture che a sua volta ha contribuito a ricreare? Non si può negare neanche questo. La storia cristiana che abbiamo alle spalle è comunuqe un patrimonio di santità, arte e cultura che non può essere passato sotto silenzio. Ci sono state zone oscure, come in ogni storia. Ma anche le zone luminose sono state parecchie. Questo non dà nessuna superiorità alla cultura europea, greca o ebraica. Sono momenti della cultura che vanno però considerati seriamente prima di metterseli alle spalle senza rimorsi. Credo che sia sano recuperare un senso della storia. Talvolta, quando mi capita di visitare un dottore per scongiurare possibili pericoli per la salute mi vengono fatte delle domande riguardanti la mia famiglia, se certe malattie si sono presentate in precedenza. Ecco, io credo che conoscere la nostra storia ci permetta di percorrere vie probabilmente più adeguate dello sperimentalismo a tutti i costi, dell’abbracciare indistintamente tutto ciò che è nuovo. La musica è parte di questo.

Mi è capitato sotto gli occhi un interessante articolo di Anthony J. Gittins in una rivista accademica, Irish Theological Quarterly (2004, 69, 47-72). L’articolo, dal titolo Beyond Liturgical Inculturation: Transforming the Deep Structures of Faith (Al di là della inculturazione liturgica: trasfomare le strutture profonde della fede) è molto istruttivo da un punto di vista terminologico e fa alcune osservazioni interessanti anche sull’uso del termine “cultura”. In effetti questo termine è oggi uno dei più abusati. Devo dire che quando sento parlare di “cultura” in vari contesti mi viene sempre un sano e salutare sospetto. Nell’articolo si soppesano vari modi di intendere l’inculturazione nell’epoca moderna. Si prendono poi in prestito alcuni concetti mutuati dall’intellettuale americano Noam Chomsky e dalla sua Grammatica generativa. I concetti interessanti sono quello di struttura profonda e struttura di superficie. Nella prima abbiamo alcune regole che sono alla base della intepretazione che noi possiamo dare a date frasi. Nella struttura profonda c’è quello che permette ad un dato enunciato di essere comprensibile. Dalla struttura profonda e attraverso alcune trasformazioni giungiamo alla struttura di superficie, che è poi una frase concreta. Come possiamo andare dalla struttura profonda, il contenuto essenziale della fede, ad una manifestazione esteriore che non ne tradisca la natura originaria? Il professor Gittings ci informa che non basta un intervento esterno per cambiare le strutture profonde di ciò in cui crediamo “culturalmente” in strutture profonde orientate cristianamente. Egli fa l’esempio del linguaggio (che va bene anche per la musica, come esempio): come tradurre i testi da una sistema linguistico senza che si perda il senso originario ma facendo in modo che possa essere compreso nella cultura di arrivo, il cui sistema lnguistico potrebbe seguire regole molto diverse dalla lingua originaria? Problemi enormi, che hanno rilevanza anche per il nostro ambito.

Così per la liturgia e la musica: qual è la struttura profonda che deve essere salvata per poi incarnarsi nelle strutture di superificie? Come avviene la trasformazione tra le strutture profonde e quelle di superficie? Il nostro autore offre le sue risposte, anche a volte molto nette. Io vorrei concentrarmi sulla musica liturgica prendendo spunto dalle suggestioni offerte dall’articolo citato. Quali sono le strutture profonde della musica per la liturgia? Il canto gregoriano (o per meglio dire, Romano-Franco), la Polifonia rinascimentale ed altri repertori sono state intepretazioni riuscite di queste strutture profonde, ne sono state buone strutture di superificie. Ma per capire come si possa dare vita ad altri repertori in altri contesti culturali che possiedano altrettanta dignità dovremmo forse cercare di capire cosa c’è alla loro base, da cosa partono, cosa le rende quello che sono. Come si vede l’inculturazione si intreccia con le ragioni fondanti della musica per la liturgia. Ci si dovrà riflettere ulteriormente per cercare una risposta a quella che sembra essere la vera domanda essenziale. Infatti noi spesso preferiamo ragionare sulle strutture superficiali (in questo contesto questa parola non ha nessun significato banalizzante) ma non sempre ci concentriamo in ciò che c’è all’origine. Ci piace “sacralizzare” certi momenti ma non riusciamo a sondare le profondità. Ecco quello che credo vada fatto con coraggio e fermezza. Cercare di capire cosa si cela dietro il momento storico musicale, cercare di vagliare le costanti, cercare di intendere perchè si fallisce e dove si cela il problema. In questo modo, capito questo (e non dico sia semplicissimo) ogni inculturazione partirà perlomeno da presupposti validi che non potranno che portare frutti saporosi, per quanto esotici possano essere.

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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Pro
fessori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

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ZENIT Staff

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