In carcere… ma liberi!

Cesare deve morire, di Paolo ed Emilio Taviani, è stato premiato con l’Orso d’Oro al Festival di Berlino 2012

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di Elisabetta Pittino

ROMA, sabato, 24 marzo 2012 (ZENIT.org) – Carcere di Rebibbia, sezione di massima sicurezza: Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti, Vittorio Parrella, Rosario Majorana, Vincenzo Gallo, Gennaro Solito, Francesco Carusone, diretti da Fabio Cavalli rappresentano il Giulio Cesare di Shakespeare. Sono detenuti con pene che vanno dai 15 anni a “fine pena mai”. Massima sicurezza vuol dire che in questa sezione sono rinchiusi i condannati per mafia, camorra, ‘ndrangheta!

Trasformato in docufilm dai fratelli Taviani, Cesare deve morire, vince, meritatamente, l’Orso d’Oro al 62° Festival di Berlino 2012. L’Orso torna così in Italia dopo ben 21 anni.

“Aiutami a morire”: così, con l’ultimo atto del Giulio Cesare, si apre la prima sequenza di Cesare deve morire. Inizia a colori poi si passa al bianco e nero per tornare all’inizio del progetto: “Giulio Cesare cede alla tentazione di farsi tiranno e viene ucciso dai suoi colleghi”, dice Fabio Cavalli, il regista teatrale, ai sorprendenti provini dove, spiegano i Taviani, “ognuno di loro (degli attori) ha detto l’esatta verità. È come se gridassero al mondo ‘guardate che noi siamo qui, ricordatevi il nostro nome’ e la cosa ci ha molto commosso”. Alla selezione di Cesare, Bruto, Cassio, Decio, Antonio… Alle prove, lì dentro nel carcere, nelle celle, nell’ora d’aria, nei corridoi, tra le sbarre.

Bianco e nero, spiega Vittorio Taviani, “perché volevamo dare una sensazione non realistica per rievocare come nasce e rinasce l’anima di Bruto. Girare a colori sarebbe stata una scelta eccessivamente naturalistica”.

Recitano nei loro dialetti d’origine, perché spiega Fabio Cavalli “era importante restituire il senso nascosto delle parole dei grandi autori usando il dialetto. La traduzione è sempre un tradimento, ma quando gli attori recitano in calabrese, siciliano, napoletano, romano, recitano nella loro lingua madre, per così dire”.

Non c’è confine tra la vita degli attori e la “finzione” e, in una catarsi che è degli attori ma è anche del pubblico, si vivono e poi si guardano, da lontano, quelle passioni che sono dell’uomo. In ogni vita c’è la lotta, in ogni vita c’è una galera, in ogni vita c’è la possibilità di essere liberi.

I Taviani hanno scelto Giulio Cesare perché “parla di potere, tradimento, morte, congiura. C’è un capo che va ucciso e loro agiscono come se appartenessero ad una setta. Abbiamo voluto farli identificare con questi personaggi. Sinceramente non avremmo mai creduto di poter vivere alla nostra età un’esperienza così coinvolgente, che ci ha rivelato un’umanità dolente, da riscattare”.

Alla loro prima esperienza in digitale, i Taviani con la macchina da presa scrutano le grate del carcere, l’esterno, i volti intensi degli attori che sembrano quasi più veri nei panni dei personaggi shakespeariani. La colonna sonora di Giuliano Taviani e Carmelo Travia è preziosa nel sottolineare la forza dello sguardo.

“Molti di loro – raccontano i Taviani – recitavano benissimo, ma in maniera diversa dal ‘benissimo’ del grande attore. Salvatore-Bruto dice davvero con sofferenza che ha ucciso Cesare. Dietro le sue parole c’era un dolore che gli attori, anche i più bravi, non hanno. È stata un’emozione giorno dopo giorno”.

Questo di stasera forse è il premio più importante di tutta la nostra vita – dicono i fratelli Taviani – perché è un film che ha rappresentato un’esperienza nuova sia per il testo affrontato che per le ambientazioni. Era triste vedere questi uomini, più o meno giovani, starsene sdraiati per ore sul letto a guardare il soffitto, nel loro entusiasmo verso il teatro abbiamo percepito una grande voglia di riscatto, ricordo con commozione quando uno di loro, parlando con la moglie, disse che mentre recitava sentiva in cuor suo di potersi perdonare. Non ci dimentichiamo che seppur con colpe enormi sulla coscienza, parliamo sempre e comunque di uomini”.

“La giustizia non è uno scannatoio… questo non è un assassinio è un sacrificio… se si potesse strappare lo spirito di Cesare senza squarciargli il petto…”, dice Bruto, interpretato da Salvatore Striano, oggi libero e di professione attore. Hanno una forza diversa queste parole.

“Continua a sorprendermi la modernità di Shakespeare – afferma Salvatore Striano -. La cosa bella di questa esperienza è che ognuno dei protagonisti ha fatto i conti con le proprie colpe, quasi chiedendo perdono attraverso l’arte, in un luogo come il carcere che ti ferma sì, ma ti spinge anche a ripartire”.

Paolo Taviani rivela che “i ragazzi sono riusciti a mettere in scena la memoria drammatica del loro presente in prigione, il loro inferno, e Salvatore Striano ci è riuscito perfettamente, è stato uno dei migliori attori in assoluto con cui abbiamo avuto il piacere di lavorare”.

Usando un assai complesso meccanismo di incastri e piani della narrazione il film rilegge sottilmente gli schemi del prison-movie, i topoi del cinema carcerario partendo dal rapporto difficile tra detenuti e gruppi fino a quello con le guardie, attraverso le parole del dramma teatrale, in un dialogo tra teatro e cinema decisamente riuscito.

Tutti sappiamo cos’è il carcere – affermano i Taviani – ma ciò che non immaginiamo è che si possa creare con i detenuti un rapporto di affetto, magari lavorando assieme e diventando loro complici. Anche i nostri familiari ed amici si dicevano stupiti da questa cosa, perché quando tornavamo a casa parlavamo di ognuno dei detenuti con vero affetto. Ci rimproveravano perché sostenevano che avessero fatto male ad altre persone e che questa cosa non potesse essere dimenticata. Credo che il destino degli uomini sia misterioso e complesso e spero che questo film aiuti a comprendere meglio la realtà del carcere”. 

Libertà, libertà, la tirannia è morta, la tirannia delle passioni, degli odi, delle vendette, degli omicidi… In carcere, ma liberi!

*

Cesare deve morire, docufilm, di 76 min. diretto da Paolo Taviani, Vittorio Taviani e interpretato da Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti, Vittorio Parrella, Rosario Majorana, Vincenzo Gallo, Gennaro Solito, Francesco Carusone, Italia, 2012.

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ZENIT Staff

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