Il testamento biologico può indurre all’abbandono delle cure?

Se ne è discusso al V Congresso nazionale della Promed Galileo

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di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 17 novembre 2009 (ZENIT.org).- “Il testamento biologico da strumento pensato per proteggere dall’accanimento terapeutico finisce in molti casi per diventare veicolo di abbandono terapeutico”. Lo ha detto il dottor Renzo Puccetti, membro dell’Unità di Ricerca della European Medical Association, intervenendo al V Congresso nazionale della Società Medico-Scientifica “Promed Galileo” che si è concluso sabato 14 novembre a Pisa.

Il dott. Puccetti ha riportato i dati di uno studio da poco pubblicato sulla rivista di bioetica “Medicina & Morale”, da cui risulta che “i pazienti ricoverati negli ospedali degli Stati Uniti per infarto del miocardio hanno una probabilità 13,7 volte maggiore di morire in ospedale se hanno il testamento biologico scritto in cartella”.

All’incontro della Società Medico-Scientifica Promed Galileo si è molto discusso di medicina predittiva. Un’intera sessione del congresso è stata dedicata alla questione del testamento biologico.

Per comprendere quanto le legislazioni in favore del biotestamento possano influire negativamente sulla cura delle persone, ZENIT ha intervistato il dr. Renzo Puccetti.

Di quale studio si parla e quale metodo avete seguito?

Puccetti: La ricerca che abbiamo effettuato, di cui peraltro sono soltanto uno degli autori, avendo partecipato come estensori anche la prof.ssa Maria Luisa Di Pietro, il prof. Vincenzo Costigliola e la dott.ssa Maria Cristina Del Poggetto, è nata come collaborazione interdisciplinare “problem-oriented”. Abbiamo individuato oltre seicento pubblicazioni selezionandone più di cento che fossero metodologicamente idonee a fornire alcune risposte a questioni che riguardano le dichiarazioni anticipate di trattamento. Tra queste la stabilità delle preferenze quando si tratta di decidere dei trattamenti, la capacità di trasferire le volontà in un testo scritto, la modalità con cui le dichiarazioni sono recepite dai medici, la capacità di questi di modificare l’atteggiamento clinico in presenza del testamento biologico.

Che cosa emerge dallo studio?

Puccetti: Innanzitutto l’idea che le persone abbiano delle preferenze che si mantengono stabili nel tempo è una generalizzazione inaccettabile. La maggior parte dei dati non va oltre i due anni, ma già in questo intervallo di tempo, non poi così ampio, il 20-40% delle persone cambia idea sui trattamenti che vorrebbe ricevere; con casi in cui la cifra giunge al 70%. Sono molti i fattori in grado di favorire tale mutamento di opinione, ma non vi è la possibilità di prevedere con un’accuratezza accettabile il cambiamento nel singolo.

I sostenitori della Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT) affermano che la persona può in qualsiasi momento cambiare o integrare il proprio testamento biologico, questo non farebbe superare il problema?

Puccetti: Purtroppo no, perché, sembrerà strano a dirsi, ma i dati sono univoci, la maggioranza delle persone che cambia idea non si rende conto di averlo fatto. Se le persone non si rendono conto che la propria opinione è cambiata sarà molto difficile che si adoperino per aggiornare le volontà scritte in precedenza.

Vi sono molte iniziative tese a promuovere un uso di massa del testamento biologico. Che cos’ha da dire in proposito?

Puccetti: È dimostrato che le informazioni che si possiedono circa i vari trattamenti di sostegno vitale influenzano le scelte delle persone, purtroppo spessissimo i testamenti biologici vengono sottoscritti senza avere alcuna informazione o sulla base di informazioni erronee. Questo fa sì che in molti casi si tratti di un testamento disinformato.

Ma in concreto che cosa dicono le esperienze degli altri paesi?

Puccetti: Negli Stati Uniti il testamento biologico ha iniziato ad essere riconosciuto giuridicamente da oltre trent’anni; è quello il paese che per esperienza e mezzi fornisce il maggior numero d’informazioni, ma vi sono dati provenienti da numerose nazioni, anche europee.

In linea generale possiamo individuare due atteggiamenti fondamentali. In alcuni casi la rilevanza delle DAT (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento) nel processo clinico è quasi assente; tra le varie ricerche che lo dimostrano si può citare lo studio SUPPORT, un’ampia indagine che ha dimostrato come su quasi seicento pazienti che avevano redatto il proprio testamento biologico questo è risultato applicabile in soli 22 casi ed è poi stato effettivamente eseguito in appena 9. C’è poi lo studio ETHICUS, condotto nelle rianimazioni di 17 paesi europei, secondo cui il testamento biologico guida le decisioni cliniche in solo l’1% dei casi.

E l’altro atteggiamento?

Puccetti: È ancora più preoccupante del precedente sotto il profilo della salute pubblica.

Ce lo può spiegare?

Puccetti: Vi è una serie di studi che indicano un atteggiamento dei medici volto all’omissione di terapie essenziali quando si trovano di fronte a pazienti portatori di varie forme di testamento biologico. I dati sono per adesso confinati al settore cardiovascolare.

Pazienti colpiti da infarto, o affetti da scompenso cardiaco in possesso del testamento biologico hanno un rischio maggiore di non ricevere terapie salva-vita di pressoché nessuna invasività come l’aspirina, i beta bloccanti, gli ACE-inibitori, tutti farmaci previsti all’interno delle linee-guida per la gestione di queste patologie. Il testamento biologico pertanto da strumento pensato per proteggere dall’accanimento terapeutico finisce in questi casi per diventare veicolo di abbandono terapeutico.

Non sappiamo se vi sia un nesso causale, ma si registra un incremento veramente notevole della mortalità ospedaliera nei pazienti portatori del testamento biologico.

Qual è l’atteggiamento dei medici in Italia?

Puccetti: Mi pare che la situazione sia ancora assai fluida. Accanto ad istanze che denotano un’incondizionata ed entusiasta adesione dei medici a direttive vincolanti espresse in precedenza – entusiasmo che ricorda le attese che circolavano in america agli inizi degli anni ’90 -, vi sono posizioni più equilibrate che a mio giudizio rispecchiano maggiormente una certa disillusa cautela che oggi caratterizza le opinioni di vasti settori della classe medica d’oltreoceano.

Questi dati hanno un riflesso sulle leggi?

Puccetti: Credo proprio che dovrebbero averlo. Parlare del testamento biologico come un’estensione del consenso informato è parlare di qualcosa al di fuori della realtà. La mia opinione è quella che si dovrebbe andare verso un diritto mite, ma forse non nel senso in cui alcuni usano tale espressione. Il diritto è mite quando rinuncia ad imporre una visione ideologica indifferente, o addirittura ostile alla realtà. E la realtà è che il testamento biologico è uno strumento con limitazioni enormi e allo stato attuale largamente insuperabili.

Pur non volendo considerare le notevoli ed ineliminabili implicazioni etiche connesse a certe decisioni cliniche, rimane un fatto: pensare di stabilire oggi che in un indeterminato futuro le persone riceveranno cure di intensità e qualità effettivamente desiderate è, come dice il geriatra Antony Perkins “una irrealistica, anche se piacevole, illusione di certezza sul futuro”. Ma credo tutti siano concordi nell’affermare che dovere di noi medici è quello di non alimentare false illusioni. In particolare quando i desideri sono formulati al di fuori di un processo di pianificazione delle cure a malattia già insorta, il principio soggettivo di autonomia non potendo essere identificato se non con margini di errore inaccettabili, deve cedere il passo al principio oggettivo di beneficialità e di non maleficienza, o, se vogliamo dirla in maniera più semplice, sull’incertezza della volontà si deve fare prevalere la certezza dell’appropriatezza e della prop
orzionalità delle cure.

Nessuno spazio, quindi, per le DAT o per il testamento biologico?

Puccetti: Credo si possa e debba prevedere uno spazio limitato ed estremamente rispettoso delle indicazioni offerte dal testo della convenzione bioetica di Oviedo. Credo che il modo più intelligente di usare le DAT sia quello di assorbirle nel processo decisionale quale elemento di estensione delle informazioni sulla vita dei pazienti che può risultare prezioso nei casi caratterizzati da elevata incertezza sul da farsi.

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ZENIT Staff

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