Il saluto dell'Arcivescovo Rowan Williams per la celebrazione ecumenica

Una visione benedettina per i nostri giorni

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ROMA, sabato, 18 settembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell’indirizzo di saluto al Papa rivolto dall’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, Primate della comunione anglicana, in occasione della celebrazione ecumenica con la recita dei Vespri tenutasi il 17 settembre nella Westminster Abbey.

* * *

Santità, membri del corpo della collegiata, distinti ospiti, fratelli e sorelle in Cristo. I cristiani in Gran Bretagna, in particolare in Inghilterra, ricordano con gratitudine gli eventi del 597, quando Agostino approdò su queste coste per predicare il Vangelo agli anglosassoni per mandato di Papa Gregorio Magno. Per i cristiani di tutte le tradizioni e confessioni, san Gregorio è un personaggio di irresistibile attrattiva e autorità spirituale, pastore e capo, studioso ed esegeta, guida spirituale. Il fatto che la prima predicazione del Vangelo ai popoli inglesi nei secoli vi e vii sia stata originata da lui crea una speciale connessione per noi con la sede degli apostoli Pietro e Paolo. La testimonianza e l’eredità di Gregorio rimangono una fonte feconda di ispirazione per la nostra missione in questi tempi straordinariamente diversi. Due dimensioni della sua visione possono essere di particolare importanza mentre riflettiamo oggi sul significato della visita di Sua Santità presso di noi.

San Gregorio fu il primo a spiegare ai fedeli la grandezza del dono offerto alla Chiesa di Cristo attraverso la vita di san Benedetto, al quale lei, Santità, ha dimostrato devozione nella scelta del suo nome di Pontefice. Dai dialoghi di san Gregorio possiamo evincere l’impatto di san Benedetto, un uomo straordinario che, a partire dal vi secolo, grazie a una Regola di vita relativamente breve, diede a tutta la civiltà europea la possibilità di vivere in gioia e servizio reciproco, in semplicità e abnegazione, secondo un modello equilibrato di lavoro e preghiera in cui ogni istante parlava di dignità umana pienamente realizzata nell’abbandono a un Dio amorevole. La vita benedettina si è dimostrata un fondamento saldo non solo per generazioni di monaci e religiose, ma anche per un’intera cultura in cui lavoro produttivo, silenzio contemplativo e ricettività, dignità e libertà umane, venivano onorati.

Nella nostra cultura, in cui così spesso sembra che «l’amore si sia raffreddato», possiamo vedere gli effetti disumanizzanti dell’abbandono dell’idea benedettina. Il lavoro genera spesso ansia e ossessività come se tutto il nostro valore di esseri umani dipendesse da esso. Di conseguenza la disoccupazione, che è ancora una piaga e una minaccia in questi tempi di incertezza economica, giunge a sembrare una perdita di dignità e di significato nella vita. Viviamo in un’epoca in cui c’è un bisogno disperato di riscoprire il senso della dignità del lavoro e del tempo libero e la necessità di un’apertura silenziosa a Dio che permetta al nostro carattere autentico di svilupparsi e prosperare condividendo l’amore eterno.

In una serie di encicliche profonde ed eloquenti, lei, Santità, ha analizzato questi temi per i giorni nostri, fondando ogni cosa sull’amore eterno della Santa Trinità, sfidandoci a sperare sia per questo mondo sia per il prossimo, ed esaminando i modi in cui le nostre abitudini economiche ci hanno intrappolato in uno stile riduttivo e indegno della vita umana. In questo edificio dalla lunga tradizione benedettina, riconosciamo con gratitudine il suo contributo a una visione benedettina per i nostri giorni e preghiamo affinché il tempo che trascorre con noi, in Gran Bretagna, ci aiuti tutti a rinnovare la speranza e l’energia di cui abbiamo bisogno come cristiani per testimoniare la nostra convinzione del fatto che gli uomini e le donne nel loro rapporto con Dio possono raggiungere libertà e bellezza di spirito totali.

E, in questo, ci viene ricordata anche l’importanza dei titoli dei Vescovi di Roma, dell’autodefinizione di san Gregorio come «servo dei servi di Dio», di certo il titolo che punta più direttamente all’esempio del Signore che ci ha chiamati. Come sappiamo, non c’è autorità nella Chiesa che non sia autorità di servizio, ovvero di edificazione del popolo di Dio nella piena maturità. Il servizio di Cristo è semplicemente il modo in cui incontriamo la sua forza onnipotente: la forza di rifare il mondo che Egli ha creato, effondendo nella nostra vita, individualmente e collettivamente, ciò che è necessario per divenire in pienezza quello che dobbiamo essere: l’immagine della vita divina. È quell’immagine che il pastore nella Chiesa cerca di servire, inchinandosi riverente di fronte a ogni persona umana nella consapevolezza della gloria per cui ella è stata fatta.

I cristiani hanno diverse opinioni sulla natura della vocazione della sede di Roma. Tuttavia, come il suo grande predecessore ha ricordato a tutti noi nella sua enciclica Ut unum sint, dobbiamo imparare a riflettere insieme su come il ministero storico della Chiesa romana e il suo Capo possano parlare alla Chiesa cattolica — occidentale e orientale, al sud e al nord del mondo — dell’autorità di Cristo e dei suoi apostoli di edificare il Corpo nell’amore e su come ciò si possa realizzare come ministero di pazienza e di riverenza verso tutti, un ministero di amore creativo e di dono di sé che ci conduce tutti lungo lo stesso cammino di ricerca, non della nostra comodità o del nostro profitto, ma del bene dell’intera comunità umana e della gloria di Dio, creatore e redentore.

Preghiamo affinché la sua permanenza fra noi sia un passo ulteriore per tutti noi verso il mistero della croce e della resurrezione, cosicché crescendo insieme possiamo divenire canali più efficaci per lo scopo di Dio di guarire le ferite dell’umanità e di ripristinare ancora una volta, sia nelle nostre società sia nel nostro ambiente, l’aspetto della sua gloria così come è rivelata nel volto di Cristo.

[Traduzione del testo in inglese a cura de “L’Osservatore Romano”]

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ZENIT Staff

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