Il sacerdozio e la fede

Omelia di monsignor Bruno Forte per la Messa Crismale

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Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata il giorno di Giovedì Santo da monsignor Bruno Forte, arcivescovo metropolita di Chieti-Vasto, durante la Messa Crismale.

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Miei cari Sacerdoti e Diaconi,
cari Religiosi e Religiose,
cari Fedeli tutti!

In questa Messa Crismale dell’Anno della Fede vorrei riflettere con Voi sul rapporto costitutivo ed essenziale che c’è fra il sacerdozio e la fede. Allude ad esso il testo di Isaia che abbiamo ascoltato: “Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti” (61, 6). Il sacerdote si definisce per la sua appartenenza incondizionata a Dio, fondata sul sì della sua fede alla chiamata e all’opera divina, che è la garanzia dell’efficacia dell’opera sacramentale da lui compiuta. Questo sì della fede è così importante, che ho scelto di soffermarmi proprio su di esso in questa solenne celebrazione dell’unità diocesana, presieduta dal vescovo, circondato dal collegio dei presbiteri e dai diaconi, con l’attiva partecipazione dei rappresentanti di tutto il popolo di Dio.

Parto da una breve riflessione sulla fede. Che cosa significa credere? Vorrei notare subito quel che la fede non è: rassicurazione a buon mercato, facile certezza. Credere non vuol dire assentire a una tesi chiara e distinta o a un progetto privo d’incognite e di conflitti. Non si crede a qualcosa, che si possa possedere e gestire a proprio piacimento. Credere è fidarsi di Qualcuno, assentendo alla chiamata dello Straniero che invita e mettendo la propria vita nelle mani del Totalmente Altro, perché sia Lui a esserne l’unico, vero Signore. Una suggestiva etimologia medioevale interpreta il termine “credere” come “cor dare”, dare il cuore: crede chi si lascia far prigioniero dell’Invisibile, chi accetta di essere afferrato da Dio nell’ascolto obbediente e nella docilità della vita. Fede è resa, consegna, abbandono, non possesso, garanzia, sicurezza. Credere, perciò, non è evitare lo scandalo o fuggire il rischio, per avanzare nella luminosità del giorno: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi e in essi; chi crede cammina nella notte, pellegrino verso la luce. La sua è una conoscenza nella penombra della sera, non ancora un conoscere nella chiarezza della visione. “Credere – afferma Kierkegaard – significa stare sull’orlo di un abisso oscuro, e udire la voce che ti grida: Gettati, ti prenderò fra le mie braccia!”. Sull’orlo di quell’abisso si affacciano domande inquietanti: e se invece di braccia accoglienti ci fossero rocce laceranti? e se oltre l’oscuro vuoto non ci fosse nient’altro che il bacio mortale del nulla? Credere è sopportare il peso di queste domande: non pretendere segni, ma offrire segni d’amore all’invisibile Amante divino che chiama.

Anche per chi è stato chiamato al dono del sacerdozio la fede è così. Rispondere alla chiamata del Signore è abbracciare con fiducia e amore la Croce della sequela di Lui, non la croce retorica e gratificante che la logica mondana vorrebbe suggerirci, ma quella umile e oscura che ci viene offerta da Dio, per dare compimento “a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Crede chi confessa l’amore di Dio nonostante l’inevidenza dell’amore; crede chi spera contro ogni speranza; crede chi accetta di crocefiggere le proprie attese sulla Croce di Cristo e non il Cristo sulla croce delle proprie attese. Alla fede ci si avvicina con timore e tremore, togliendosi i calzari, disposti a riconoscere un Dio che non parla nel vento, nel fuoco o nel terremoto, ma nell’esile “voce del silenzio”, come fu per Elia sulla santa montagna, è stato, è e sarà per tutti i santi e i profeti (cf. 1 Re 19,11-13). Non per questo, però, credere è perdere tutto e non avere più sicurezza: pensarla così sarebbe dimenticare la tenerezza e la misericordia di Dio e rischiare il buio della ragione, proprio di ogni fondamentalismo. C’è sempre un Tabor per rischiarare il cammino di chi crede: un segno ci è stato donato, il Cristo crocifisso e risorto per noi, “l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”, come ci ha detto il testo dell’Apocalisse che abbiamo ascoltato (1, 8)! Gesù è vivo nei segni della grazia e dell’amore confidati alla Sua Chiesa. In essi è offerto un viatico ai pellegrini per sostenere il cammino, un conforto agli incerti, una strada agli smarriti: e se questi doni non vanno mai confusi con possessi gelosi, è pur vero che essi sono là per nutrirci; non per esimerci dalla lotta, ma per darci forza in essa; non per addormentare le coscienze, ma per svegliarle e stimolarle a opere e giorni, in cui l’Amore invisibile si faccia presenza e segno per chi non vuole o non sa credere alla forza dell’amore. Vivere la fede è conoscere la vera pace, che non è quella che dà il mondo! Accettare l’invito non è risolvere tutte le oscure domande, ma portarle ad un Altro e insieme con Lui. Il credente – anche il vescovo, il presbitero o il diacono – resta per tutto il tempo dei suoi giorni nient’altro che un povero ateo che si sforza ogni giorno di cominciare a credere. Proprio così la sua fede può essere umile e vera, audacia di un possibile, impossibile amore: impossibile all’uomo, possibile a partire da Dio e, proprio così, fonte di grandissima gioia.

In questa luce la vocazione al sacerdozio e la risposta ad essa ci appaiono per quello che sono veramente: un incontro d’amore, che la fede illumina e nutre, un incontro da vivere e rinnovare nella fedeltà di ogni giorno. Da questo incontro sempre vivo con Cristo consegue uno stile di vita, cui vorrei brevemente accennare. Se tutto ciò che dà senso all’esistenza e al ministero di un prete è la fede che gli ha fatto riconoscere la chiamata di Gesù e che lo ha motivato nel rispondere ad essa, non può esservi dubbio che una vita sacerdotale debba nutrirsi anzitutto alle fonti della fede: l’ascolto perseverante e profondo della Parola di Dio, una vita di preghiera fedele e generosa, la celebrazione intensamente vissuta dell’eucaristia quotidiana e dei sacramenti, a cominciare da quello della riconciliazione, cui ricorrere con fiduciosa frequenza, la carità pastorale, che animi ogni incontro e relazione umana nell’esercizio del ministero, sono altrettante sorgenti che rendono viva e autentica, luminosa e bella la vita sacerdotale. Senza una profonda dimensione contemplativa, vissuta nella fedeltà di ogni giorno, l’esistenza del ministro ordinato rischia di perdersi nell’esteriorità, fino a consumare ogni carica interiore e perdere il senso delle motivazioni che la sorreggono. Solo così, il dono ricevuto nell’ordinazione si attualizza come grazia di ogni giorno: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore… Oggi si compie questa Scrittura” (Lc 4, 18-19. 21). Il vescovo, il prete, il diacono, devono essere uomini in cui si realizzi l’“oggi” di Dio grazie alla preghiera fedele e alla carità operosa, vissute nella docile umiltà del cuore e nella novità sempre nuova del sì detto nella fede al Signore Gesù.

Da questo vissuto credente scaturisce lo stile di vita di un sacerdote fedele: anzitutto la sua povertà e il suo amore di predilezione per i poveri, i piccoli e i bisognosi, cui portare con le parole e la vita il vangelo della gioia. Un vescovo o un prete attaccati al denaro o ricercati nelle forme di vita danno una prova evidente di non credere nel vero tesoro da cercare e trovare al di sopra di tutto: la perla preziosa dell’amicizia con Dio e del piacere a Lui solo. Nel giorno del giudizio le ricchezze umane che potessimo aver accumulato saranno carboni ardenti sul no
stro capo, mentre la sobrietà di vita e il distacco dai beni dimostreranno quanto e come avremo amato il Signore e i fratelli. Spenderci per il prossimo, accompagnare il dolore e soccorrere l’indigente, anche nelle forme più umili e quotidiane, sono altrettanti volti di una vita sacerdotale spesa bene, nella fedeltà alla chiamata di Gesù e nella gioia del sì detto sempre di nuovo a Lui. L’obbedienza è un altro volto essenziale della vita di un sacerdote fedele: se avessimo voluto disporre della nostra esistenza a nostro piacimento, non avremmo promesso filiale rispetto e obbedienza al vescovo, segno di Cristo pastore. Sono gli occhi della fede che ci fanno leggere la voce del Signore nelle chiamate che dal vescovo ci vengono. Ogni resistenza a esse, ogni mancanza di distacco dai nostri calcoli e dai nostri progetti per seguire Cristo, lì dove Lui ci chiama attraverso il discernimento e la volontà del pastore che ha voluto darci, sono una triste mancanza di fede, la cui conseguenza è di far ricadere su di noi la responsabilità di tutto il male che potrà venire alle anime dalla nostra disobbedienza. Prego perché nessuno di noi cada in questa trappola diabolica della presunzione di capire la volontà di Dio meglio di chi Lui ha preposto a indicarcela, e supplico chiunque di noi fosse chiamato a fare un passo di distacco e di obbedienza al vescovo di non aver paura e di fidarsi del Signore. Infine, è nella fede che va vista e vissuta la nostra incondizionata dedizione alla causa di Dio espressa nell’impegno del celibato per il servizio del Suo Regno: non si tratta di amare di meno il prossimo o di non avere tenerezza e affettuosa paternità e fraternità verso gli altri. Al contrario, si tratta di non amare nessuno in maniera esclusiva, per amare così Dio solo e in Lui quanti Egli ci affida, per portarli al suo cuore divino e affidarli all’oceano del Suo amore. Certo, quest’incondizionato legame d’amore col Signore Gesù e di dedizione gioiosa agli altri esige anche vigilanza, custodia degli occhi e del cuore, prudenza ed equilibrio. Se c’è però una fede viva ad animarci, la fedeltà al divino Amato guiderà nella gioia e nella pace i nostri passi e ogni sacrificio risulterà possibile e perfino gradito per custodire il sì incondizionato del cuore a Colui che ci ha chiamato.

Chiediamo insieme al Dio che è amore di poter crescere nella fedeltà sempre nuova al dono ricevuto col battesimo e col sacerdozio. Lo facciamo con le parole di san Francesco nella sua preghiera alla Trinità, affidando a Dio in modo speciale i passi del nostro nuovo e già tanto amato Papa Francesco:

Onnipotente, eterno, giusto e misericordioso Iddio, concedi a noi miseri di fare, per Tuo amore, ciò che sappiamo che Tu vuoi, e di volere sempre ciò che a Te piace, affinché, interiormente purificati, interiormente illuminati e accesi dal fuoco dello Spirito Santo, possiamo seguire le orme del Tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, e con l’aiuto della Tua sola grazia giungere a Te, o Altissimo, che nella Trinità perfetta e nell’Unità semplice vivi e regni e sei glorificato, Dio onnipotente per tutti i secoli dei secoli. Amen.

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ZENIT Staff

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