Il ruandese necessita di una medicina spirituale

Intervista con Jean-Paul Kayihura, rappresentante continentale per l’Africa dell’Associazione World Family of Radio Maria

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di Daniele Trenca

ROMA, lunedì, 19 novembre 2012 (ZENIT.org).– Si è concluso ieri il “pellegrinaggio di fiducia sulla terra” organizzato dalla Comunità di Taizè, che ha fatto tappa a Kigali, in Ruanda. Un Paese che cerca di risollevarsi dopo il genocidio del 1994, costato la vita ad un milione di persone.

Nell’occasione, ZENIT ha intervistato Jean-Paul Kayihura, rappresentante continentale per l’Africa dell’Associazione World Family of Radio Maria, con il quale abbiamo voluto parlare delle sfide che si trova ad affrontare l’Africa. Di nazionalità ruandese, abbiamo chiesto a Lui inoltre gli obiettivi dell’Anno della Fede che saranno affrontati dalla Chiesa del suo Paese. 

Jean-Paul com’è la situazione del popolo africano oggi, in particolare di quello del Ruanda, dopo il genocidio del 1994?

Jean-Paul Kayihura: La popolazione del Ruanda è stata traumatizzata da questo genocidio, per questo ha bisogno della luce del Vangelo per uscire da questo grande problema e guarire la propria anima. Un bagliore necessario di cui ha bisogno chi ha conosciuto la morte e la vita dura. Dopo il genocidio del 1994, in Ruanda sono arrivate molte sette. Se prima della guerra erano più o meno una decina, a metà degli anni novanta erano circa quattrocento. La gente ha iniziato così a seguire queste sette, ma all’interno di queste organizzazioni ci sono interessi in ballo, così dopo un certo tempo ho visto persone che sono tornate nella Chiesa Cattolica, perché l’uomo, specialmente quello traumatizzato, ha bisogno di una referenza, ha sempre bisogno di Dio. Ovviamente l’uomo ruandese ha anche bisogno di una soluzione economica e sociale, tutte cose però si occupano del corpo e non fanno guarire la persona. I ruandesi hanno bisogno di un’altra medicina spirituale, che permette all’uomo di guarire la sua anima.

Qual è la sua esperienza diretta del genocidio del 1994?

Jean-Paul Kayihura: Ogni ruandese può raccontare la sua storia e può scrivere migliaia di pagine, perché è stata un’esperienza molto caotica e difficile da raccontare. Quello che posso dire io è che l’uomo alcune volte fa delle sorprese. Bisogna lavorare molto per diminuire la sua animalità, perché ci può essere un tempo (come quello successo in Ruanda) dove le persone sono più vicine ad essere animali che ad essere uomini. Per questo bisogna sempre cercare di umanizzare l’uomo, pensando anche alla sua anima.

In Ruanda è stato fatto molto dopo il genocidio, quali sono secondo Lei le prossime sfide che la Chiesa ruandese deve affrontare anche in vista dell’Anno della Fede?

Jean-Paul Kayihura: L’Anno della Fede è un anno benvenuto perché permette alla gente di interrogarsi e arrivare a capire che la fede cattolica è bella ed è da vivere. La Chiesa deve sempre essere accanto ad ogni persona,  una vicinanza per ascoltare le persone, le loro sofferenze e dare a loro la speranza di vivere e creare la possibilità di discutere. Avvicinarsi dunque alla persona per capire se ha compreso bene i principi della fede cattolica. Non bisogna essere solo contenti del fatto che la chiesa sia piena di persone la domenica durante la messa. Certamente è una cosa bella, ma non è tutto, perché bisogna approfondire ed incontrare le persone per vedere se la loro fede è matura. La Chiesa potrebbe fare quest’esercizio creando momenti di discussione, sentire le loro domande e dare loro le risposte. Su questo anche i mezzi di comunicazione sociale facilitano questo lavoro. La radio, ad esempio Radio Maria, può interrogare la gente comune e vedere come rispondono. Io ho una bellissima esperienza che ho avuto all’Università Cattolica dell’Ovest dell’Africa, dove ogni settimana organizzano ciò che chiamano la formazione teologica per i laici. Persone vengono all’università per un paio di ore e si confrontano con gli studenti. Questo aiuta le persone ad avere una conoscenza. L’Africa, il Ruanda e gli altri paesi potrebbero andare in questa direzione, dando la possibilità alle persone di fare le domande sulla propria fede. In Ruanda la sete di Dio è una cosa naturale. Un passo da fare è rendere più solida questa fede o fare più luce per rafforzarla. La storia ci ha mostrato che non è sufficiente dire di essere battezzato. Questo è il passo numero uno, ma bisogna capire bene. Le sfide della società traumatizzata sono tante, e questo è il momento in cui i cristiani del Ruanda devono dimostrarlo. 

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ZENIT Staff

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