Il Rapporto McKinsey e la “Centesimus Annus”

Mentre i grandi media e gli istituti di ricerca ammettono il declino del modello economico imperante, emerge l’attualità della dottrina sociale della Chiesa.

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Uno studio saggistico in voga negli anni Novanta – Capitalismo contro capitalismo di Michel Albert – si interrogava sulle conseguenze di quella che appariva ormai, in modo evidente, come la “vittoria” del capitalismo, sancita dal crollo del muro di Berlino e dalla dissoluzione dell’impero sovietico.
Già, ma quale capitalismo? si chiedeva Albert. Due erano infatti i modelli di capitalismo individuati dall’autore. Il primo era il modello “neoamericano”, che aveva il suo punto di riferimento negli Stati Uniti, fondato sui valori individuali, la massimizzazione del profitto a breve termine e lo strapotere del mercato finanziario. Mentre il secondo era il modello “renano”, praticato in Europa e, con qualche variante, in Giappone, fondato sull’economia sociale di mercato, la ricerca del consenso e le prospettive a lungo termine.
Dal prevalere dell’uno o dell’altro modello – concludeva il volume di Albert pubblicato in Italia dall’editrice Il Mulino – dipenderanno l’istruzione dei nostri figli, l’assistenza sanitaria dei nostri genitori, l’aumento delle sacche di povertà nei paesi ricchi, le politiche nei confronti degli immigrati, i nostri stipendi, i nostri risparmi e le tasse che pagheremo.
Quale capitalismo? Il decennio successivo avrebbe risposto a questa domanda in modo netto, certificando il trionfo del modello “neoamericano” – ormai ribattezzato “neoliberista” – trascinato al successo dalla “new economy”, legata alla diffusione delle tecnologie informatiche e digitali. Successo che avrebbe aperto le porte, di lì a breve, all’avventura della globalizzazione.
E la solidarietà, la coesione sociale, la giustizia distributiva, che avevano alimentato la riflessione sociologica e il dibattito politico lungo tutto l’arco del secondo ‘900? Tamquam non esset (“come se non esistesse”) dicevano i latini. Non era nemmeno più il caso di parlarne: reminiscenze obsolete di intellettuali nostalgici, aggrappati a ideologie ormai espulse dalla storia.
Venne così l’era delle nuove rivoluzioni, finanziaria e delle comunicazioni, e l’avvento delle società senza frontiere. Le banche impararono ad internazionalizzarsi e a partecipare al sistema universale di scambio operante 24 ore su 24. Le multinazionali dislocarono linee di assemblaggio, laboratori di ricerca e centri distributivi ai quattro angoli del globo. Uffici tecnici ed istituti commerciali offrirono i loro servizi ai nuovi mercati emergenti. Potenti gruppi multimediali acquisirono testate e case editrici. Compagnie aeree sempre più grandi solcarono i cieli del mondo…
Insomma: il migliore dei mondi possibile, come garantiva il “pensiero unico” dominante, supportato dai grandi media di massa e dalle più prestigiose istituzioni internazionali. Un pensiero che s’incarnava in personaggi simbolo, come il “guru” Milton Friedman, fondatore del pensiero monetarista e Premio Nobel per l’economia, le cui teorie economiche diedero linfa allo sviluppo del “turbo capitalismo”.
E poi? Il “poi” lasciamolo dire alla McKinsey&Company, società di consulenza strategica di livello internazionale, che proprio in questi giorni ha emanato un Rapporto intitolato Poorer than their parents? A new perspective on income inequality (“Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull’ineguaglianza dei redditi”).
Questo studio, dal titolo fin troppo esplicativo, certifica che, nel nuovo millennio, l’equilibrio economico mondiale è stato stravolto e l’impoverimento dei popoli su scala planetaria è diventato un fenomeno di massa, coinvolgendo in un analogo declino sia le ex nazioni ricche che gli ex paesi emergenti.
L’Italia è tra i paesi più colpiti. Cosa persino ovvia – al di là dei difetti endemici ben noti – considerando che il nostro paese è povero di materie prime e fonda la propria economia sulle attività di trasformazione (trascurando colpevolmente la cultura che, da un punto di vista economico, potrebbe essere il nostro unico, autentico “petrolio”…).
Ma ciò che più sorprende è che persino negli Stati Uniti, il paese che, per tutto il dopoguerra, è stato la locomotiva economica del mondo, la stagnazione e l’arretramento colpiscono l’81% della popolazione.
Le conseguenze sono tanto più negative – osserva il Rapporto McKinsey – nella misura in cui la crisi ha colpito una società culturalmente consumista, del tutto impreparata ad affrontare i disagi legati alla povertà, alla mancanza di lavoro e al welfare inadeguato.
Un altro grave elemento destabilizzante consiste nel fatto che la crisi colpisce soprattutto i giovani, il cui futuro è destinato ad essere molto più precario ed incerto di quello delle generazioni che li hanno preceduti.
Lo studio della McKinsey, che ha esaminato le 25 economie (un tempo) più floride del pianeta, conclude che molti cittadini hanno perduto la fiducia nell’economia di mercato e vedono nella globalizzazione una trappola senza uscita. Un declino che colpisce senza eccezioni tutto il mondo avanzato e che – sempre secondo il Rapporto McKinsey – contribuisce a spiegare la conflittualità e il disagio sociale crescente che alimentano fenomeni come il populismo e il rigetto dell’Europa sancito dalla Brexit.
Poco più di un mese fa, dopo l’esito referendario della Brexit, era stata un’autorevole testata economica a recitare il “mea culpa”. The Economist, settimanale inglese controllato dalla holding della famiglia Agnelli, il 1 luglio 2016, in un editoriale intitolato La politica della rabbia, scriveva: “A far vincere il NO al referendum sulla Brexit è stata soprattutto la rabbia di chi si è sentito lasciato indietro dalla globalizzazione e dal liberalismo economico. La loro rabbia è giustificata. I sostenitori della globalizzazione, incluso questo giornale, devono riconoscere che i tecnocrati hanno fatto degli errori e le persone comuni ne hanno pagato il prezzo…”.
“L’adozione di una moneta europea imperfetta – continua The Economist – ha portato stagnazione e disoccupazione, e sta facendo a pezzi l’Europa. Strumenti finanziari complessi hanno disorientato i legislatori e mandato in crisi l’economia mondiale, fino a comportare salvataggi di banche pagati dai contribuenti e, successivamente, tagli di budget…”.
Con la conseguenza – possiamo aggiungere – che le disuguaglianze sono aumentate in modo esponenziale e che, in base ad una stima recente effettuata da Oxfam International, i 62 miliardari più ricchi del mondo hanno un patrimonio che equivale a quello della metà più povera della popolazione globale.
Una situazione inedita che sembra sfuggire alla tradizionale logica dei cicli economici capitalistici e che apre un interrogativo inquietante: questa è “una crisi” del capitalismo o è “la crisi” del capitalismo?
Di fronte a questo squilibrio epocale che ipoteca il nostro futuro, una domanda sorge spontanea: era prevedile tutto questo? Risposta: Sì, era prevedibile. Anzi, era già stato ampiamente previsto. Basta rileggere alcuni estratti dell’Enciclica Centesimus Annus di Papa Giovanni Paolo II. L’Enciclica è datata 1 maggio 1991, ma, a rileggerla oggi, la sua attualità è impressionante…
Di fatto, oggi molti uomini non dispongono di strumenti che consentano di entrare in modo effettivo ed umanamente degno all’interno di un sistema di impresa. Lo sviluppo economico si svolge, per così dire, sopra la loro testa. Questi uomini sono culturalmente sradicati e si trovano in situazioni di violenta precarietà, senza possibilità di integrazione.
Il marxismo ha criticato le società borghesi capitalistiche, rimproverando loro la mercificazione e l’alienazione dell’esistenza umana. L’esperienza storica dei Paesi socialisti ha tristemente dimostrato che il collettivismo non sopprime l’alienazione, ma piuttosto l’accresce, aggiungendovi l’inefficienza economica.
L’esperienza storica dell’Occidente, da parte sua, dimostra che l’alienazione, con la perdita del senso autentico dell’esistenza, è un fatto reale anche nelle società occidentali. Essa si verifica nel consumo, quando l’uomo è implicato in una rete di false e superficiali soddisfazioni; si verifica anche nel lavoro, quando è organizzato in modo tale da “massimizzare” soltanto i suoi frutti e proventi e non ci si preoccupa che il lavoratore, mediante il proprio lavoro, si realizzi come uomo. 
Si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo? La risposta è ovviamente complessa. Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d’impresa” o semplicemente di “economia libera”. Ma se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa.
Dopo il crollo del totalitarismo comunista e di molti altri regimi totalitari, si assiste oggi al prevalere, non senza contrasti, dell’ideale democratico, unitamente ad una viva attenzione per i diritti umani. Ma anche nei Paesi dove vigono forme di governo democratico non sempre questi diritti sono rispettati. Le domande che si levano dalla società a volte non sono esaminate secondo criteri di giustizia e di moralità, ma piuttosto secondo la forza elettorale o finanziaria dei gruppi che le sostengono.
Simili deviazioni del costume politico col tempo generano sfiducia ed apatia con la conseguente diminuzione della partecipazione politica e dello spirito civico in seno alla popolazione. Ne risulta la crescente incapacità di inquadrare gli interessi particolari in una coerente visione del bene comune…
 

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Massimo Nardi

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