Il Principe del Deserto

Tradizione e modernità contraddette dalla realtà

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di Luisa Cotta Ramosino

ROMA, sabato, 14 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Arabia, inizio del XX secolo. Nesib, emiro di Hobeika, dopo aver sconfitto il rivale Amar, sultano di Salmaah, ha preteso in garanzia della pace i due figli del nemico, oltre a una striscia di terra (la Striscia Gialla) a fare da cuscinetto tra i due regni. Quando però, quindici anni dopo, proprio lì viene individuato un giacimento di petrolio, Nesib è pronto a rompere il trattato per ricavare le ricchezze necessarie a modernizzare il suo paese. Sarà il principe Auda, il più giovane e apparentemente meno “guerriero” dei figli di Amar, a giocare un ruolo fondamentale nel confronto tra i due emiri, contrapposti anche da una differente visione del rapporto con gli occidentali e la modernità…

Alla magniloquente glorificazione di un leader capace di unire fedeltà alla tradizione e istanze di modernità non si può del resto evitare di contrapporre la realtà tutta contemporanea di un paese come l’Arabia Saudita dove le donne solo tra qualche tempo avranno per la prima volta la possibilità di votare

La scarsa definizione dei personaggi e la confusione delle motivazioni, lungi dal dare il senso di una complessità che infine si riesce a decifrare, producono un andamento del racconto a strappi.

Fa una certa impressione leggere la sfilza di “nomi” coinvolti in questa operazione epico-didascalica messa in piedi dal produttore tunisino Tarak Ben-Ammar insieme all’istituto cinematografico del Qatar.

Intanto perché a recitare i ruoli principali, tutti arabi, sono in realtà attori di tutt’altra nazionalità: Banderas, spagnolo, che però aveva già fatto l’arabo ne Il tredicesimo guerriero, Mark Strong, britannico, che però era stato capo dei servizi segreti giordani in Nessuna verità, e Freida Pinto, indiana, abbonata però ai ruoli di bella statuina vagamente esotica come nel recente Immortals. A garantire il pedigrée arabo basta forse il protagonista Tahar Rahim (diventato famoso con Il profeta) e un certo numero di comprimari (come il brillante Riz Ahmed).

Straniero, francese, è anche il regista, che tuttavia ha nel curriculum altre produzioni “esotiche” come Sette anni in Tibet o Due fratelli.

Tanto dispiego di connessioni internazionali, del resto, è perfettamente in linea con l’orizzonte di tutta l’operazione che, ripercorrendo in modo largamente romanzato i passi della formazione del regno dell’Arabia Saudita, mira con ogni probabilità a normalizzare una certa visione della saga del petrolio che sottolinei la legittimità di alcuni rivendicazioni arabe (“essere un arabo è essere un cameriere al banchetto del mondo” dice l’emiro Nesib) ma anche le spinte “riformatrici” di un nuovo islam aperto all’occidente e alla modernità.

Peccato che il risultato finale, da alcuni incautamente paragonato addirittura a Lawrence d’Arabia, rischi di risultare deludente sia sul piano del ritmo del racconto che su quello di una reale comprensione della situazione raccontata, per non parlare del vago fastidio per il non troppo sottile effetto spot filo-islamico.

La scarsa definizione dei personaggi (alcuni secondari appaiono e scompaiono a piacimento, cosa che capita, per la verità, anche con il personaggio di Mark Strong, che però fortunatamente compensa in carisma la mancanza di approfondimento) e la confusione delle motivazioni (il conflitto tra istanze di modernizzazione, rigurgiti di conservazione quasi fondamentalista e generico mood anti-occidentale si sovrappongono nei vari campi), lungi dal dare il senso di una complessità che infine si riesce a decifrare producono un andamento del racconto a strappi.

Indeciso tra il tono romantico (ma la storia d’amore tra Auda e Leyla, la figlia di Nesib, non è raccontata abbastanza perché possa appassionare) e quello, più sentito, del romanzo di formazione di un leader, Annaud presta alla pellicola la sua capacità di creare afflato epico, ma non riesce ad abbattere fino in fondo la barriera di una comprensione di eventi e personalità che vada oltre l’immediata lettura delle azioni.

Il moltiplicarsi di situazioni tutto sommato canoniche del percorso di un giovane capo (l’attraversamento “impossibile” del deserto, la prima improbabile vittoria, la conquista della stima e della fedeltà dei futuri sudditi) toglie spazio a un reale approfondimento dei percorsi psicologici, nonché al chiarimento delle opposizioni valoriali fondamentali entro cui si muove il racconto.

Se non altro va detto che il film non prende nemmeno la strada di una facile quanto schematica demonizzazione degli Occidentali, portatori del disvalore del denaro e dell’avidità. I trivellatori texani, infatti, sono più che altro l’occasione per far scoppiare contrasti già presenti in nuce nella realtà araba.

Un’ultima precisazione, però, è d’obbligo: alla magniloquente glorificazione di un leader capace di unire fedeltà alla tradizione e istanze di modernità (di questo è naturalmente trasparente sintesi il giovane e coraggioso principe Auda) non si può del resto evitare di contrapporre la realtà tutta contemporanea di un paese come l’Arabia Saudita dove le donne solo tra qualche tempo avranno per la prima volta la possibilità di votare e a tutt’oggi devono andare in giro completamente coperte e senza la possibilità nemmeno di guidare un’auto… 

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Titolo Originale: Black Gold

Paese: Francia/Italia/Qatar

Anno: 2011

Regia: Jean-Jacques Annaud

Sceneggiatura: Menno Meyjes, Alain Godard e Jean-Jacques Annaud dal romanzo di La sete nera di Hans Ruesch

Produzione: Carthago Films s.a.r.l./The Doha Film Institute/France 2 Cinéma/Prima Tv/Quinta Communications

Durata: 130

Interpreti: Tahar Rahim, Freida Pinto, Mark Strong, Antonio Banderas

Per ogni approfondimento: http://www.familycinematv.it

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ZENIT Staff

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