Il pellegrinaggio: una realtà antica e sempre attuale

Padre Caesar Atuire, amministratore delegato dell’ORP, racconta la sua esperienza in un libro edito da Fivestore

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di Luca Marcolivio

ROMA, martedì, 3 aprile 2012 (ZENIT.org) – È imminente l’uscita de Il viaggio della vita. Il pellegrinaggio (Fivestore, pp.192), a cura di padre Caesar Atuire, amministratore delegato dell’Opera Romana Pellegrinaggi (ORP).

Il volume, che sarà in libreria dal prossimo 17 aprile, rappresenta una riflessione a tutto tondo sulla pratica del pellegrinaggio. I punti affrontati nel libro sono fondamentalmente cinque: 1) chi sono i pellegrini del secolo XXI; 2) cosa cerca il pellegrino; 3-4) quando e dove partire per il pellegrinaggio; 5) come si vive il pellegrinaggio.

L’autore constata che “a un certo punto della nostra esistenza sentiamo il bisogno di uscire dal proprio io quotidiano che a un tratto ci sembra insufficiente, limitativo, fuorviante”. Il pellegrinaggio può dare sicuramente una risposta a queste sane inquietudini che rappresentano un cammino verso la Verità.

Sui pellegrinaggi, spiega padre Atuire a Zenit, “ci sono molti luoghi comuni”. Pesa molto ad esempio, lo stereotipo della “vecchietta povera e ignorante che parte per un lunghissimo e massacrante viaggio in pullman per luoghi come San Giovanni Rotondo o Lourdes”.

In realtà il pellegrinaggio, prosegue l’amministratore delegato di ORP, è “una realtà che coinvolge tutti i ceti sociali, persone con diversi livelli di aderenza alla fede e alla Chiesa. È un modo per riscoprire orizzonti nuovi sia dal punto di vista umano che del rapporto con Dio”.

Padre Caesar, come è stato strutturato il suo libro?

P. Atuire: L’ho strutturato secondo le modalità del giornalismo americano, attraverso le famose 5 “W”, quindi tutti i “chi” (who), “cosa” (what), “perché” (why), “dove” (where) e “quando” (when) del pellegrinaggio. Nel testo ho inserito anche delle lettere pervenute all’ORP negli ultimi 4-5 anni, in cui i pellegrini descrivono le loro esperienze vissute nei vari luoghi sacri.

Nell’ultima parte del libro ho fatto delle considerazioni finali: il pellegrinaggio si sta evolvendo verso la ricerca di qualcosa di più profondo ed è sempre più personalizzato, non è più un fenomeno di massa, anzi sta tornando simile ai pellegrinaggi di un tempo; ciò diventa un’occasione per educare alla consapevolezza della cittadinanza globale.

I pellegrini di oggi cercano le stesse cose dei pellegrini di un tempo?

P. Atuire: Non ci sono differenze antropologiche tra i pellegrini di una volta e quelli di oggi. Sicuramente ci sono differenze nei modi, nelle espressioni e nelle manifestazioni. Il pellegrinaggio, oltretutto, non nasce con il cristianesimo ed è diffuso nella religione ebraica, in quella islamica e in quella buddista. Il pellegrinaggio cristiano, sulla scia della tradizione ebraica, è una visita ai luoghi dove Dio si è manifestato o dove qualcuno ha vissuto in modo palese la santità cristiana. Pertanto i primi pellegrini andavano in Terra Santa, per conoscere i luoghi della vita terrena di Gesù o andavano nel deserto dove vissero Sant’Antonio Abate o altri grandi monaci, per conoscere la vita di queste grandi persone ed essere più vicine a Dio. Le tombe degli apostoli – come quella di Santiago de Compostela – e dei martiri, sono luoghi che testimoniano una vita santa.

Oggi questo tipo di ricerca è più sottile, non si va a Santiago per prendere delle reliquie da conservare a casa. Chi sta cercando qualcosa, ha compreso che c’è un orizzonte più largo di quello in cui viviamo. Si cerca un nuovo modo di vivere e interpretare la propria vita alla luce della fede, o anche alla luce di un’esperienza antropologica umana.

È possibile parlare di pellegrinaggio come vocazione?

P. Atuire: Se vogliamo parlare di vocazione, allora si tratta di una vocazione universale, come la chiamata alla santità (cfr. Lumen gentium). Esso è una metafora di ciascuno di noi: ognuno di noi entra in un nuovo mondo, è in pellegrinaggio, va incontro a Dio, nella speranza che sia un incontro felice. Quando uno vive un pellegrinaggio, vive in modo intenso e in pochi giorni quella che è la metafora della propria esistenza.

Lei è originario del Ghana e vive a Roma da molti anni, dirigendo un organo della Santa Sede che accompagna pellegrini in tutto il mondo: vive quindi il suo ministero sacerdotale in un ottica “cattolica” nel senso più stretto del termine, cioè universale. A volte c’è chi accusa la Chiesa di eccessivo ecumenismo e di tenere poco conto delle specificità dei popoli e delle tradizioni, puntando a livellare sempre le differenze e a “globalizzare”. È credibile questa affermazione?

P. Atuire: Mi sembra un’affermazione superficiale. La chiesa parte da un messaggio universale (da cui l’aggettivo “cattolico”). Il messaggio di Cristo è la salvezza per tutta l’umanità. Fatta questa premessa, le espressioni culturali vanno rispettate. La ricchezza della cattolicità deriva dalla molteplicità di intensione ed espressione di questa stessa fede.

Sono appena tornato dal Ghana, dove la messa che ho celebrato, che dura due ore e mezza, dove si canta e si balla non è meno cattolica della messa che ho celebrato a San Giovanni de’ Fiorentini a Roma, dove nessuno ballava ma ugualmente si pregava con la stessa fede. È questa la ricchezza del cattolicesimo: permette che ci siano diversità di sensibilità e di espressione all’interno della stessa fede. Gli stessi Vangeli sono quattro e non uno: ognuno di essi ha una diversa accentuazione dell’esperienza di Gesù Cristo ed è insieme che essi formano il corpus della fede.

Un’attività che promuoviamo durante i pellegrinaggi dell’ORP sono gli incontri con le comunità locali per cercare di condividere la loro vita e arricchirci della loro esperienza. In Palestina abbiamo avuto modo di assistere ad una messa in arabo, con canti in arabo: assistere in un’altra lingua alla stessa messa che ascoltiamo ogni domenica nella nostra parrocchia, entrando nella loro espressività, è un’esperienza commovente.

Sempre a proposito di universalità della Chiesa, giusto ieri il cardinale Ryłko ha affermato che i tempi sono maturi per una GMG in un paese africano…

P. Atuire: I tempi sono sempre stai maturi. In Africa c’è una chiesa giovane e in crescita, che vive la fede con un grande entusiasmo che può contagiare il mondo.

Ci stiamo avvicinando alla Pasqua: da cosa deve risorgere l’uomo di oggi?

P. Atuire: L’esperienza della Pasqua ci deve riportare alle virtù teologali. La fede ha bisogno di essere rinvigorita. Il Figlio di Dio viene schiacciato dalle forze del male, il male non ha avuto l’ultima parola e l’Amore è stato più forte, spalancando la tomba e facendo uscire un morto: questa è la nostra fede. Essa gira intorno alla Resurrezione: lo stesso San Paolo afferma che se Cristo non è risorto, è vana la nostra fede (cfr. 1Cor 15,17).

La speranza deve darci la certezza che se noi siamo con Dio, nessun male ci può abbattere. Pertanto aprirci a nuovi orizzonti è una virtù assai necessaria in quest’epoca in cui rischiamo di vivere sotto una nuvola di pessimismo, con l’angoscia continua che le cose debbano andare di male in peggio: questo non è vero! Potremo anche arrivare ad avere meno soldi ma non necessariamente essere meno felici.

La carità ci ricorda che, soprattutto in temi difficili, non possiamo illuderci di salvarci da soli. La nostra salvezza passa anche attraverso la salvezza del fratello: in questo modo diventiamo più solidali.

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ZENIT Staff

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