Il Papa "venuto dalla fine del mondo" che ha stravolto il quadro geopolitico

Il generale Giovanni Marizza, esperto in strategie e relazioni internazionali, commenta gli effetti geopolitici di un anno di Pontificato di Francesco

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Papa Francesco inviò nel novembre scorso ai partecipanti a un convegno sulla Dottrina Sociale il seguente messaggio: “La sfera può rappresentare l’omologazione, come una specie di globalizzazione: è liscia, senza sfaccettature, uguale a se stessa in tutte le parti. Il poliedro ha una forma simile alla sfera, ma è composta da molte facce. Mi piace immaginare l’umanità come un poliedro…”. Sfera e poliedro. Due immagini, una metafora geometrica per sintetizzare l’impronta geopolitica di papa Francesco. Impronta che agisce in profondità, stravolgendo le certezze maturate sinora rispetto a un globalismo apparentemente inarrestabile e a un granitico quadro d’alleanze. Ne abbiamo parlato con il generale Giovanni Marizza, docente di Geopolitica e Gestioni delle crisi all’Università “La Sapienza”.

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Un anno di papa Francesco. Quale influenza il primo Pontefice proveniente dall’America Latina ha suscitato sul quadro geopolitico?

Marizza: “Fratelli e sorelle buonasera. Voi sapete che il dovere del Conclave è di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo…” Queste sono state le prime parole di papa Francesco la sera della Sua elezione, esattamente un anno fa, e in queste parole echeggia un forte richiamo alla Sua provenienza. L’estrazione geografica del leader, in tutte le organizzazioni internazionali, società e comunità multinazionali ha sempre un significato, implicito e profondo, di programma e di indirizzo, basti pensare all’importanza che ha per gli Stati Uniti il fatto che l’inquilino della Casa Bianca sia di origini afroamericane o all’importanza che ha per l’ONU il fatto che il segretario generale sia un africano o un asiatico. Il Vaticano non sfugge a questa logica geopolitica e l’elezione di un Pontefice sudamericano non può non porre l’accento sulla necessità di una maggiore attenzione al Sud del mondo in generale.

Con papa Francesco per la prima volta nella storia un Pontefice neo-eletto ha scelto di incontrare il presidente della Federazione Russa prima di quello degli Stati Uniti. Come interpreta questo segnale?

Marizza: Nella politica internazionale anche il primo telegramma, la prima visita o il primo viaggio sottintendono significati ben precisi. In quest’ottica i diversi (e talvolta opposti) trend in atto negli USA e in Russia su argomenti sensibili come “spiritualità”, “aborto” e “omosessualità” finiscono per influire su certe scelte apparentemente formali ma in realtà sostanziali come gli incontri fra capi di Stato. Sotto questo profilo, il fatto che papa Francesco abbia scelto di incontrare Putin prima di Obama racchiude un segnale piuttosto esplicito. Pur senza dimenticare l’imperativo “preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza” (sono parole tratte dal discorso di cui sopra), il segnale sembra suonare così: la Russia, in quanto grande Paese cristiano, ha la precedenza su una superpotenza militare e finanziaria.

Quanto e in che modo la crisi ucraina può influire sullo sviluppo delle relazioni tra Santa Sede e Russia?

Marizza: L’Ucraina ha una seria vulnerabilità, rappresentata da quella linea di frattura che separa il Sudest russofono, ortodosso e filo-moscovita dal Nordovest ucrainofono, cattolico e filo-europeo. Si tratta di una spaccatura che per analogia ne fa ricordare un’altra molto simile ed altrettanto pericolosa: quella che tagliava in due l’ex Iugoslavia tra la Serbia ortodossa e tendente a Est e il blocco sloveno-croato di fede cattolica e tendente a Ovest. Nel caso iugoslavo la separazione fra le varie entità è avvenuta in seguito ad atroci conflitti, mentre nel caso ucraino, pur essendo la scissione del Paese tutt’altro che da escludere, non dovrebbe avvenire in forma cruenta. E se un nuovo bagno di sangue verrà evitato, lo dovremo più alle buone relazioni fra Mosca e il Vaticano che a quelle che intercorrono fra il Cremlino e Washington.

Il 27 marzo Obama sarà in visita in Vaticano. In che modo secondo lei il Papa potrà fornire soluzioni ai problemi che il presidente americano solleverà? Ritiene che la riforma sanitaria introdotta dalla Casa Bianca, abbia provocato una frattura insanabile nei rapporti tra Washington e la Santa Sede?

Marizza: L’incontro sarà di fondamentale importanza perché metterà di fronte un Papa proveniente dal Sudamerica, dove la teologia della liberazione ha lasciato il posto alla dottrina sociale, e un presidente che arriva dal Nordamerica, dove sta passando di moda la teoria “teocon” secondo cui i politici devono agire in base ai dettami della religione. Curiosamente, questi due grandi americani (ma con le radici altrove) si incontreranno nel cuore di un Occidente con le radici cristiane ma dove il Cristianesimo non si identifica più con la società (è stato Benedetto XVI a cancellare dai Suoi titoli quello di “Patriarca d’Occidente”) e dove lo stato confessionale non esiste più. In quanto alla riforma sanitaria cara a Obama, non lo ritengo un argomento in grado di provocare fratture insanabili: è una riforma invisa, oltre che ai Vescovi, alla metà abbondante della popolazione, per cui il suo destino è di essere ulteriormente riformata.

Tornerei su un tema cui Lei ha fatto accenno prima. Abbiamo assistito nell’ultimo anno a un miglioramento delle relazioni con la Russia e a un raffreddamento dei rapporti con gli Stati Uniti. Quanto le scelte dei governi in materia bioetica incidono sulla diplomazia vaticana?

Marizza: Si tratta di un mutamento di rapporti non definitivo bensì legato alle leadership del momento e alle loro scelte, anche quelle in fatto di bioetica, che non sono secondarie, nell’ottica vaticana, a quelle in materia di geopolitica. Ma i tre Stati di cui stiamo parlando, nonostante l’estrema diversità dell’estensione territoriale, hanno una caratteristica in comune: la vocazione internazionale e la visione globale del pianeta. Per questo motivo, quando le loro diplomazie si incontrano, non possono limitarsi a discutere di questioni bilaterali ma sono costrette a non perdere d’occhio due continenti di fondamentale importanza quali l’Africa e l’Asia. Nella prima, dove la crescita cattolica è esponenziale ma non mancano i problemi (destabilizzazione, debito estero, malattie, corruzione, povertà) si intrecciano le attenzioni del Vaticano e della Casa Bianca. Nella seconda, che ha visto nascere il Cristianesimo ma dove i Cattolici sono solo 100 milioni (la metà dei quali nelle Filippine) su 4 miliardi e i problemi sono diversi (sovrappopolazione, fondamentalismo, inquinamento, armamenti nucleari, disparità di risorse) si intrecciano le attenzioni del Vaticano e del Cremlino.

Venendo al Medio Oriente, a suo avviso la veglia del Papa per la pace in Siria è stato il deterrente fondamentale all’intervento militare esterno?

Marizza: I dubbi sull’intervento militare in Siria erano tanti e tali, anche da parte degli stessi Paesi che avrebbero potuto sferrarlo, da ridurre sensibilmente le probabilità di successo. Gli Stati Uniti, ad esempio, avevano individuato nell’uso di armi di distruzione di massa la linea rossa da non oltrepassare, pena l’intervento militare. Ma anche dopo l’accertato uso di quel tipo di armi, la titubanza non è scomparsa in quanto la sommatoria dei possibili “contro” superava di gran lunga quella dei “pro”. In definitiva, non so se la veglia indetta da papa Francesco sia stata determinante per evitare il peggio, ma mi piace pensarlo.

Lei è stato Vice Comandante della Forza Multinazionale in Iraq nonché autore di un saggio interamente dedicato al Paese mediorientale (L’Iraq dalla A alla Z, ed. Albatros – 2009). A undici anni dalla seconda guerra del Golfo, la spirale di violenza sembra inarrestabile. Quale strada va battuta per uscirne?

Marizza: La seconda
guerra del Golfo (che per gli iracheni è la terza, dato che loro chiamano “prima guerra del Golfo” quella contro l’Iran del 1980-1989) è stato un conflitto pretestuoso, basato su un casus belli inventato, quello delle armi di distruzione di massa che in realtà Saddam non possedeva più, come poi ammise anche Colin Powell, il segretario di Stato che all’ONU aveva esibito prove false. L’attuale situazione fallimentare, dunque, si basa su quei presupposti errati e rappresenta uno dei maggiori fallimenti recenti dell’Occidente, unitamente all’intervento in Afghanistan. Chi ne fa le spese non sono soltanto le popolazioni sciite e sunnite vittime di vendette incrociate, ma anche la minoranza cristiana, che ai tempi di Saddam, sorprendentemente, era tutelata. Quale è la via d’uscita? A questo punto probabilmente la soluzione meno pericolosa è quella federale, purché non dipendente dal sostegno finanziario estero, che finisce sempre o quasi nelle mani sbagliate.

Il Pontefice si recherà in Terra Santa alla fine di maggio. In che modo le buone relazioni che Francesco intrattiene con l’Ebraismo e con ampi settori dell’Islam possono aiutare il processo di pace israelo-palestinese? Più in generale, crede che il Papa possa distendere i rapporti tra le varie etnie e confessioni presenti in quel fazzoletto di terra?

Marizza: La conflittualità israelo-palestinese, per il modo in cui è stata impostata e gestita nell’ultimo secolo, è purtroppo irrisolvibile. Lo strumento che manca di più è il dialogo fra le parti. E papa Francesco, per il suo carisma innato e per le sue doti comunicative che riescono a fare breccia nel cuore della gente, può essere la persona giusta per ravvivare, rafforzare e alimentare il dialogo. E allora, lunga vita a Lui!

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Federico Cenci

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