Il Papa sulla crisi in Caucaso: una interpretazione giuridica

Il prof. Dimitris Liakopoulos analizza l’appello all’Angelus di domenica

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di Mirko Testa

ROMA, martedì, 26 agosto, 2008 (ZENIT.org).- Nell’appello lanciato domenica scorsa al termine della tradizionale preghiera mariana, Benedetto XVI ha dimostrato, in merito alla crescente tensione in Caucaso, non solo di rimanere fedele alle regole di diritto internazionale ma anche di suggerire una soluzione ispirata al modello dell’autonomia.

A sostenerlo in una intervista a ZENIT è il prof. Dimitris Liakopoulos, docente a contratto di Diritto internazionale e dell’Unione europea presso l’Università della Tuscia, secondo cui per il Papa l’autonomia per un Paese è un “regime da godere all’interno dei confini statuali, garantendo una tutela essenziale dei diritti civili e politici, dei gruppi d’identità”.

Tutto questo, ha aggiunto, “nell’ipotesi che il processo di emersione dell’entità che cerca l’autodeterminazione sia progredito a tal punto da poter dare vita a strutture confederali, a unioni di Stati eguali e con pari diritti, senza subire pressioni da altri ‘poli’ statali”.

Innanzitutto, ci può descrivere brevemente lo scenario che fa da sfondo alla crisi in Caucaso?

Liakopoulos: L’angoscia e gli attriti che viviamo nella zona dell’Ossezia sono i risultati e le speranze create dalla perestrojka ed il nazionalismo intollerante del regime georgiano guidato da vari presidenti che hanno coltivato lo spirito separatista degli abitanti della regione dagli inizi degli anni ’90. Nell’estate del 1990 il Parlamento di Tiblisi approvò una legge che interdiceva la partecipazione alle elezioni dei partiti non rispettosi del principio di integrità territoriale dello Stato georgiano. L’Ossezia dichiarò la propria sovranità annullando le elezioni e ritirando lo statuto di autonomia di cui la regione godeva. Il Parlamento proclamò l’indipendenza scelta che venne confermata dal referendum svoltosi il 19 gennaio 1992.

Il cessate-il-fuoco non è stato fermato quasi mai durante gli anni. Due missioni di pace sono state inviate: una organizzata dalle Nazioni Unite e l’altra dall’OSCE. In realtà si trattava di missioni di peace-making, che offrivano servizi di buoni uffici e mediazione e avevano come obiettivo, inter alia, quello di elaborare termini di regolamento del conflitto accettabili da ambedue le parti sulla base del rispetto dell’integrità territoriale della Georgia.

Uno status di autonomia politica non è stato possibile neanche nell’epoca attuale, come abbiamo visto dopo l’intervento delle truppe russe in zona. Non dobbiamo dimenticare che la dirigenza georgiana ha più volte ribadito la propria disponibilità a concedere un regime di autonomia non solo culturale ma anche politica, mentre le autorità ossete hanno mantenuto una posizione rigida, chiedendo il riconoscimento della loro piena indipendenza e il diritto di unirsi all’Ossezia del nord.

All’angelus di domenica scorsa Benedetto XVI ha richiamato i diversi Paesi coinvolti nella crisi in Caucaso alla “forza morale del diritto”, accennando alle controversie legate al “rapporto tra integrità territoriale e autodeterminazione dei popoli”. Cosa ne pensa?

Liakopoulos: E’ la prima volta che il Papa fa riferimento al riconoscimento del diritto di autodeterminazione in questa zona, rendendo anche, secondo la nostra opinione, necessaria l’elaborazione di nuovi schemi teorici attraverso cui ricondurre alcuni elementi a una coerente sistemazione. E’ stato richiamato il diritto per disciplinare, qualificare o semplicemente prendere atto del verificarsi di un quid pluris, vale a dire per valutare le massicce violazioni dei diritti umani. La vexata questio relativa all’ampliamento del contenuto normativo dell’unico principio internazionale spontaneamente State-creating ha costituito solo un altro modo per emanare il principio di autodeterminazione e per svolgere la medesima funzione costitutiva in ambiti diversi da quello della decolonizzazione, in situazioni estreme che vedessero violati i diritti umani e politici essenziali di minoranze o di altri gruppi.

Il Papa ha detto: “Occorre piuttosto impegnarsi attivamente affinchè venga respinta la tentazione di affrontare nuove situazioni con vecchi sistemi”. Ossia in un’ampia interpretazione dobbiamo evitare quello che in realtà i russi non vogliono accettare ma dimostrano profondamente nella storia della Comunità Internazionale (CI): ossia l’indebolito ruolo che hanno mostrato durante la crisi nel Kosovo e lo strapotere dell’America che giustifica, nel nome del diritto internazionale odierno, la nascita di nuovi soggetti statuali, soprattutto attraverso l’uso del riconoscimento prematuro, atto al quale peraltro non si è ricorsi nel caso del Kosovo.

Un riconoscimento della situazione da parte della CI è ovvio ma allo stesso tempo difficile. Infatti, pur non essendo di per sè dotata di soggettività internazionale, può esercitare, in via di fatto, un certo grado di influenza nelle ipotesi di effettività incerta, qualora una determinata entità che aspiri a porsi sul piano della statualità e della piena soggettività internazionale non sia ancora riuscita ad affermarsi in maniera completa o stabile, per cui tale propria aspirazione resta non sufficientemente sostenuta dal requisito dell’effettivo controllo. Ma nel nostro caso, controllo da quale parte? Da parte dei russi? Da un’organizzazione internazionale come le Nazioni Unite? Dalla Comunità europea che sicuramente si troverà davanti agli enormi afflussi del popolo locale che vive atrocità senza fine? In realtà, la vera effettività consisterebbe nella rinuncia operata dal diritto a dettare condizioni ante rem, cui il fatto dovrebbe obbedire per essere riconosciuto giuridicamente. Il diritto pur non ponendo proprie condizioni constaterebbe che il fatto esiste solo sul presupposto che siamo in presenza effettivamente di nuovo ordinamento statuale.

Il nostro Pontefice equipara la nozione di autodeterminazione dei popoli a “un bene comune”, spingendosi oltre e parlando non solo di un bene comune ma di un obiettivo comune che è la sovranità che non sarebbe più assoluta, ma sottoposta ad una condizione di sostenibilità umanitaria o democratica. L’autodeterminazione avrebbe nel nostro caso come propri beneficiari solo i popoli, mentre ogni gruppo infrastatuale potrebbe tentare a secedere e qualora vi riuscisse a dare così vita ad un nuovo ente statuale.

Si tratta di uno schema già noto in Europa, che ha visto il suo primo momento di applicazione negli anni ’90 e quando si è avviata la formazione di una sorta di un nuovo ordine pubblico, non più fondato sui tradizionali principi orizzontali dell’ordinamento internazionale, della sovranità, dell’integrità territoriale, della non ingerenza, bensì sulla prevalente tutela di valori trasversali rispetto ai singoli ordinamenti statuali, indifferentemente oggetto di una protezione che rimonta direttamente al diritto internazionale e che “taglia” verticalmente il tessuto di sovranità.

“(…) Ecco alcune delle principali strade da percorrere, con tenacia e creatività, per costruire relazioni feconde e sincere e per assicurare alle presenti e alle future generazioni tempi di concordia e di progresso morale e civile”. Parole sante del nostro Pontefice che ci rimandano ad un nuovo Wertordnung, nel senso che a contare, prima di tutto, nelle relazioni internazionali e “nella famiglia delle Nazioni” non devono essere gli interessi personali e statali, ma la tutela dei diritti umani e politici di ogni uomo, della dignità umana, dei valori della democrazia liberale, dell’autodeterminazione dei popoli.

“La violenza va ripudiata”. Parole che si trovano in qualsiasi documento di ispirazione internazionalistica, dal momento in cui il nostro continente è da sempre stato attraversato da eccidi, crimini contro l’umanità, instabilità e continue minacce alla pace. Questa semplice espressione in realtà induce a riflettere sulla portata e sul reale contenuto delle modificazioni che oggi investono la costituzione materiale della
CI, cioè quell’assetto di valori che è diretta espressione dei rapporti di sotto o sovraordinazione che vengono a prodursi nel quadro del corpo sociale. Da ciò discenderebbe la diffusione in tutta Europa, anche nell’ex spazio sovietico, di un modello istituzionale di tipo democratico liberale e con esso di un sistema economico di stampo liberista diminuendo il confronto tra blocchi, che in realtà esistono ancora nonostante le volontà dei popoli.

Come definirebbe a questo punto il principio di autodeterminazione?

Liakopoulos: L’autodeterminazione è un sistema di garanzia che presiede all’imposizione delle nuove regole e finisce col divenire oggetto di un vero e proprio diritto. Si ritiene che tutelare determinati valori sia solo un modo attraverso cui l’ordinamento ha messo in moto la sua dinamica normativa per fronteggiare nuove minacce alla tenuta dei suoi obiettivi-base. Bisognerà giocoforza porre mano ad uno schema interpretativo che armonizzi i nuovi valori a quegli obiettivi che è esattamente quanto risulta avvenuto in tutti i più significativi momenti di evoluzione vissuti dall’ordinamento internazionale nel corso del secolo scorso.

Tra questi momenti rientra l’elaborazione di un nuovo sistema di tutela dei diritti delle minoranze, l’affermarsi dell’autodeterminazione come norma positiva e il fatto che qualsiasi soggetto agente in difesa dell’interesse pubblico tocca il problema del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Dall’approccio individualista alla tutela delle minoranze, all’applicazione dell’autodeterminazione nel rispetto dell’uti possidetis, la volontà della CI è stata sempre non la responsabilità per il bene comune ma quella di guidare il processo di formazione di queste categorie, influenzandone destinatari e contenuto, in modo che il loro affermarsi rimanesse omogeneo rispetto ai reali obiettivi che l’ordinamento si proponeva e non svolgesse invece una funzione eversiva nel suo contesto.

L’ispirazione dei nuovi valori rimane sempre quella di consentire la costruzione di sistemi di convivenza infrastatuali, soprattutto laddove vi siano Stati a base multietnica, fondati su garanzie così forti e diffuse dei diritti fondamentali di ogni uomo da prevenire l’insorgere di possibili minacce alla tenuta della sovranità. La domanda è: esiste un sistema cautelativo, di protezione internazionale cui possiamo fare ricorso riconoscendo garanzie che accompagnano l’esercizio sia di regole internazionalistiche che la volontà dei popoli?

Sembra che nella CI vi sia un certo favore, quantomeno politico, per il ricorso alla soluzione autonomistica nell’ambito dei conflitti di qualsiasi genere. Rimane, comunque, inalienabile il diritto di ogni Stato di difendere la propria sovranità adottando misure implicanti l’uso della forza, perchè in realtà autodeterminazione significa anche uso della forza, che rimane però sempre nei limiti di un uso selettivo della forza, diretto a colpire in modo proporzionale e come reazione al fine di tutelare i propri diritti.

“(…) La mancanza della fiducia (…)” sottolineata dal Papa richiama all’obbligo di diligenza nella ricerca di una soluzione politica o meglio pacifica di ogni conflitto. Tale obbligo si concretizza nella necessità di aprire momenti di negoziato politico con la parte avversa, di aderire alle proposte di mediazione avanzate dalla CI. L’obbligo di cooperazione al fine di giungere a una soluzione politica dei conflitti è da mettersi in collegamento col fatto che tali conflitti pur rimanendo in origine una questione interna o limitrofa, in realtà facilmente propongono minacce per la difesa dei valori che sono invece di interesse collettivo.

Si collega poi a questo anche un obbligo di risultato, nel senso che non solo ogni Stato deve prestarsi diligentemente alla ricerca del negoziato pacifico ma che la soluzione politica, che lo stesso propone, deve mostrarsi rispettosa delle prerogative cui i gruppi d’identità infrastatuali hanno internazionalmente diritto. Si tratta di una partecipazione ad un decision making process, a forme di auto-organizzazione e gestione diretta riconosciute e legislativamente sancite in cui vale una sorta di intangibilità dei diritti acquisiti o se vogliamo di divieto di reformatio in peius della condizione già goduta da gruppi e Stati, al punto che la violazione o la revoca di tale status potrebbero far scattare una reazione ex novo della CI.

Va senz’altro detto che ogni discorso ricostruttivo teso ad affermare la sottoponibilità dell’integrità territoriale di uno Stato a una condizione di sostenibilità umanitaria può essere condotto solo con riferimento al sistema regionale europeo basandosi sempre su un obiettivo solido e finale, ossia la tenuta di confini, il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati, l’ordine pubblico, il rispetto della vita e dignità umana. Tutti valori e sentimenti che la fede cattolica e il cristianesimo non hanno abbandonato mai.

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ZENIT Staff

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