Il motore dello sviluppo è la cultura

Piero Gheddo spiega perchè i missionari portano Cristo e lo sviluppo

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di padre Piero Gheddo

ROMA, martedì, 6 dicembre 2011 (ZENIT.org).- Il 28 giugno 1953, il beato Card. Ildefonso Schuster mi ordinava sacerdote nel Duomo di Milano. Eravamo 120 nuovi sacerdoti diocesani e del Pime. Avrei dovuto partire come missionario per l’ India, invece i superiori (nonostante le mie proteste) mi hanno tenuto nella stampa dell’Istituto, all’inizio provvisoriamente, poi in modo definitivo. Il mio giornalismo è stato segnato dal tema che negli cinquanta e sessanta appassionava e mobilitava i popoli occidentali: la scoperta della “fame nel mondo”. Con l’inizio della decolonizzazione, l’Occidente cristiano si rendeva conto che esistevano i “popoli della fame” e nel 1960 la Fao lanciava la prima “ Campagna contro la fame nel mondo”, che suscitò in Italia un’ondata  di commozione e di solidarietà per quei popoli. Per raccogliere aiuti, si mobilitavano le parrocchie, le scuole, le ditte, le banche, i negozi, i giornali e le radio. In quegli anni nascevano numerosi organismi di volontariato internazionale e per finanziare progetti di sviluppo tra i poveri del mondo. Nel marzo 1964 sono uno dei tre missionari del Pime che a Milano hanno  fondato, con alcuni amici laici, l’associazione Mani Tese, che ebbe subito una diffusione prodigiosa: nascevano spontaneamente in tutta Italia gruppi di “Mani Tese” e scrivevano a noi chiedendo materiale, mostre, progetti da finanziare, filmati, articoli, conferenze.

      Ero nella stampa del Pime e sapevo che i missionari avevano tante idee ed esperienze da comunicare e progetti da finanziare. Così il mensile “Le Missioni Cattoliche” (oggi “Mondo e Missione”) di cui ero direttore, pubblicava studi, interviste, articoli, fotografie sul tema della povertà e miseria dei popoli lontani. Ho avuto poi la fortuna di partecipare al Concilio Vaticano II (1862-1965) come giornalista de “L’Osservatore Romano” e “perito” delle missioni, nominato da Giovanni XXIII; quindi intervistavo vescovi da tutto il mondo missionario e partecipavo agli incontri della Commissione conciliare che preparava e riscriveva più volte il decreto conciliare “Ad Gentes”.

L’uomo è il motore dello sviluppo

    Fin dall’inizio della mia militanza giornalistico-missionaria ho studiato, viaggiato, visitato il Sud del mondo[1], interessandomi non solo dei problemi politico-economici di quei popoli, ma anche delle loro culture e religioni, dei loro modi di vita. A poco a poco, anche intervistando missionari sul posto da decine d’anni, mi sono formato la convinzione che l’abisso fra il Nord cristiano e il Sud di altre religioni e culture ha avuto origine non nella politica e nell’economia, ma nella cultura e religione dei singoli popoli. Perché è l’uomo che crea lo sviluppo economico-tecnico-politico, non viceversa.

     In quei primi anni mi rendevo conto della notevole differenza fra la concezione “spiritualista” e quella “materialista” dello sviluppo. La prima ritiene che “il motore dello sviluppo è l’uomo”, le idee dell’uomo, le credenze dell’uomo, la volontà dell’uomo.  Josué de Castro scriveva:  “La prima officina dello sviluppo è il cervello dell’uomo”. E l’uomo, ogni uomo, è profondamente condizionato dall’educazione, dalla cultura e religione, dai rapporti con la divinità, con gli altri uomini e con il cosmo.

     La concezione “materialista” (o “meccanicista”) ritiene invece che lo sviluppo è causato essenzialmente da cause tecniche, economiche, politiche, strutturali. Per il liberalismo economico classico lo sviluppo viene dall’accumulazione del capitale, cioè dal risparmio e dagli investimenti, dall’aumento delle macchine e dal miglioramento delle tecniche di produzione.  Per il marxismo, lo sviluppo viene dalla lotta di classe, dalla “liberazione” da una opposizione esterna, cioè dallo sfruttamento, sia da parte del “padrone” a livello aziendale, come dall’imperialismo a livello mondiale.

     Per il cristiano, lo sviluppo viene dall’educazione e formazione dell’uomo, del popolo. L’elemento risolutivo è l’uomo e la sua formazione; sono poi gli uomini che producono i capitali necessari col loro lavoro, che si liberano da ogni oppressione, ecc. L’ostacolo principale allo sviluppo sta in una insufficiente preparazione dell’uomo e del popolo. Ricordo che nel 1963 al Concilio ho intervistato su questo tema il primo arcivescovo nero di Dakar, mons. Hyacinthe Thiandoum, che mi diede il testo di una sua conferenza[2] nel quale si legge: “Io credo di poter dire senza timore di sbagliarmi che i paesi sottosviluppati hanno più bisogno di uno sforzo di educazione più che di denaro o di vestiti. L’aiuto finanziario, per quanto prezioso possa essere, non potrà mai sostituire, in un popolo che voglia conquistare il suo posto sulla scena economica mondiale, la capacità e lo sforzo personale dei suoi figli. La missione fondamentale dell’assistenza tecnica mi pare essere prima di tutto e soprattutto un’opera di educazione”.

34 paesi “in via di sottosviluppo”

Sono passati ormai sessant’anni dalla prima “Campagna mondiale contro la fame” e la fame nel mondo non è ancora sconfitta. E’ vero che i grandi fenomeni storici vanno visti in una prospettiva storica, come diremo meglio più avanti. Ma oggi la realtà del mondo globalizzato è quella descritta da questo dato del Rapporto FAO (giugno 2009): “Per la prima volta nella storia, gli uomini che soffrono la fame sono un miliardo, un sesto della popolazione mondiale”. La Banca mondiale stima che il 40% delle donne incinte nei paesi poveri soffre di anemia per sotto-nutrizione. I loro neonati sono condannati, per debolezza congenita, ad una vita breve e infelice.

      L’Undp (United Nations Development Programm), l’organismo dell’ONU incaricato di monitorare lo stato dello sviluppo dei vari paesi, conferma nel rapporto del 2010 (con poche variazioni di nomi rispetto agli anni precedenti), che nel mondo oggi ci sono:

    a) 55 paesi sviluppati

    b) 85 paesi in via di sviluppo                          

    c) 34 paesi in via di sottosviluppo, quasi tutti nell’Africa nera.

     Si noti che lo “sviluppo” di un paese è visto in una prospettiva di “sviluppo umano” ed è calcolato non solo sulla ricchezza nazionale prodotta (il Pil) ma secondo dodici criteri che comprendono stato di diritto, pace, giustizia, libertà politica, libertà religiosa, libertà di stampa, libero mercato, alfabetizzazione, assistenza sanitaria, ecc. Addirittura ci sono popoli che non solo non vanno avanti, ma vanno indietro, cioè oggi la loro situazione umana è peggiore di quella che avevano nel recente passato. E basta visitare vari paesi africani, per sentire che questo giudizio è comune fra la gente del posto. Che oggi ci siano 34 paesi “in via di sottosviluppo” è il problema più drammatico che l’umanità deve affrontare, perchè è il maggior ostacolo alla pace mondiale e alla collaborazione e solidarietà fra i vari popoli.

     L’Occidente ha dato varie risposte al sottosviluppo, senza capire quali sono le cause profonde del fenomeno. Negli anni sessanta si pensava che il sottosviluppo fosse dovuto al “circolo vizioso” della povertà, espresso nello slogan: “La povertà produce povertà”. Questo l’esempio citato: un misero abitante dei paesi sottosviluppati è povero e quindi non può mangiare a sufficienza; la denutrizione lo rende facile preda di ogni malattia e gli impedisce di avere un buon rendimento nel lavoro; d’altra parte, l’uomo è analfabeta e quindi non può avere un lavoro ben retribuito; non guadagna abbastanza per sé e per la famiglia, la sua casa è malsana, un tugurio gelido d’inverno e bollente in estate. Anche volendolo, questo povero
essere umano non può sfuggire al suo destino, che è quello di vivere un’esistenza sottoumana e morire per una qualsiasi infezione o banale malattia.

     Se questa era la situazione dei popoli poveri, la soluzione era evidente. Mandare soldi e macchine, realizzare progetti di sviluppo e micro-realizzazioni, favorire commerci e trasferire tecnologie. Com’era successo col “Piano Marshall” nell’Europa occidentale dopo la II° guerra mondiale. Lo sviluppo sarebbe stato la naturale conseguenza degli aiuti economici e tecnici mandati ai paesi dell’Africa nera. La storia ha poi dimostrato che gli aiuti economici e tecnici producono sviluppo se ci sono popoli preparati ad usarli (come in Germania e Italia al tempo del Piano Marshall). Ma producono corruzione e cimiteri di macchine inutilizzate, se i popoli che ne beneficiano non sono preparati ad usarli.

Cause esterne o interne al sottosviluppo?         

    Nel 1961 John Kennedy propose “l’Alleanza per il Progresso” ai paesi latino-americani (circa 20 miliardi di dollari di aiuti) con queste parole: “Non è possibile che il nostro paese viva nella prosperità e nella pace, quando il sud delle Americhe è tormentato da dittature, popoli che vivono in povertà disumana, fame, razzismi, analfabetismo, epidemie, guerriglie e colpi di stato….”. Cinquant’anni dopo, pur con molti alti e bassi e problemi irrisolti, l’America Latina ha fatto grandi passi in avanti verso lo “sviluppo umano”. Vere dittature sono solo le due vetero-comuniste: Cuba e Venezuela di Chavez. I popoli sono più liberi ed evoluti e guardano con speranza al futuro che essi stessi costruiscono (solo Haiti è ancora “in via di sottosviluppo”).

      Ma lo stesso risultato non si è ottenuto con gli aiuti all’Africa nera. Nel gennaio 2008 il Pew Research Centre, prestigioso centro di ricerche di Washington, calcolava che dal 1960 l’Africa aveva ricevuto circa 250 miliardi di dollari in aiuti e finanziamenti a piani di sviluppo. Ma i risultati non sono stati pari alle attese, se ancor oggi una trentina di paesi africani sono “in via di sottosviluppo”.

      Non c’è dubbio che l’Africa nera è vittima di una serie di situazioni che, per molti aspetti, ostacolano lo sviluppo. Eccole in estrema sintesi:

– Colonizzazione che, pur introducendo nel mondo moderno i vari popoli, non li ha preparati all’autogoverno, 

– neo-colonialismo che perpetua nei paesi indipendenti una dipendenza economico-politico-culturale dall’Occidente, confini fissati arbitrariamente alla fine dell’Ottocento dalle potenze coloniali, che favoriscono secessionismi e guerriglie, 

– sfruttamento delle materie prime da parte di multinazionali che non hanno alcun riguardo al bene dei vari popoli, 

– prezzi fluttuanti dei prodotti alimentari e protezionismo agricolo dell’Occidente, che penalizzano i coltivatori africani, 

– il debito estero degli stati africani verso l’Occidente che pesa sulle deboli economie nazionali, costrette ad adottare misure radicali di risparmio, che penalizzano educazione, sanità, assistenza ai poveri, 

– oggi poi si afferma in tutta l’Africa nera un nuovo tipo di colonialismo da parte di Cina e India (ma anche di paesi arabi e Corea del sud), che mira a comperare vaste aree agricole per creare coltivazioni e piantagioni a favore di paesi stranieri.

– Infine, il potere di pressione e di corruzione che hanno le potenze straniere nei riguardi dei deboli governi e governanti africani.

     Sono alcune delle “cause esterne” al continente africano, che opprimono popoli giovani e desiderosi di impegnarsi per lo sviluppo. Come fa l’Africa nera a svilupparsi con queste palle di piombo ai piedi?

      Le cause esterne del sottosviluppo africano sono note a tutti e spesso denunziate in Occidente. Anzi, questa è la lettura comune che si dà della situazione africana e più avanti ne parleremo.  Ma noto una differenza fra noi in Europa, che coltiviamo questa lettura, e i missionari e volontari laici che sono in Africa. Ne ho incontrati tanti e chiedendo spesso di spiegarmi le radici del sottosviluppo africano, quasi mai ho sentito parlare di cause esterne. In genere dicono che le radici fondamentali sono interne al popolo stesso. Ricordo il padre Pietro Bianchi della Consolata, in Tanzania da 45 anni, che alla domanda quali sono le radici della miseria del popolo mi diceva: “Sono quattro: l’analfabetismo, la mentalità magica e superstiziosa, i militari e la corruzione”.

Per saperne di più “Meno male che Cristo c’è” (Editrice Lindau, Torino, pagg. 330).

[1] Nel Sito Internet www.gheddopiero.it realizzato dagli “Amici di Lazzaro”, associazione diocesana di Torino, l’elenco dei miei viaggi extra-europei, i libri pubblicati, le conferenze, gli articoli, i Blog, i testi per Radio Maria, ecc.

[2] La rivista “Responsables”, sett.-ottobre 1963, pag. 20 segg, pubblica la conferenza tenuta a Parigi nel maggio 1963 intitolata “Vision chrétienne des désequilibres économiques et sociaux”.

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ZENIT Staff

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