Il monumento alla spiritualità di Brahms

Con “Ein deutches Requiem” si conclude domani la rassegna musicale del progetto “Una porta verso l’infinito”

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di Francesco d’Alfonso *

ROMA, giovedì, 26 aprile 2012 (ZENIT.org) – Nata dalla collaborazione tra  l’Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato e il Teatro dell’Opera di Roma, si conclude venerdì 27 aprile la rassegna musicale del progetto “Una porta verso l’Infinito. L’uomo e l’Assoluto nell’arte”, che ha portato nelle chiese della Capitale, dal Centro storico alla periferia, alcuni gioielli del  repertorio musicale sacro.

L’ultimo concerto si terrà domani, alle 21, nella parrocchia di San Saturnino al quartiere Trieste, dove il Coro del Costanzi eseguirà Ein deutsches Requiem op. 45 di Johannes Brahms, nella versione per due pianoforti di Heinrich Poos. Dirigerà l’esecuzione il maestro Roberto Gabbiani, anche al pianoforte insieme a Gea Garatti Ansini; mentre i solisti saranno il soprano Alessandra Marianelli e il baritono Filippo Bettoschi.

Eseguito per la prima volta il 10 aprile 1868 – Venerdì Santo –  nella cattedrale di Brema, il “Requiem tedesco” per soli, coro e orchestra ebbe un successo tale che fu replicato il giorno successivo, e l’eco di quel trionfo contribuì in maniera decisiva ad affermare la popolarità di Brahms, realizzando la profezia di Schumann, che sin dagli esordi ne aveva intuito il genio, indicandolo, in un articolo redatto per la rivista Neue Zeitschrift für Musik, come il musicista del futuro.

Appartenente alla prima fase creativa di Brahms, l’opera 45 è frutto di una lunga gestazione, nata probabilmente dal dolore per la morte della madre, o forse per la morte dell’amico e maestro Robert Schumann, avvenuta nel 1865. Si tratta di un’opera singolare, lontana dalla tradizione cattolica della Missa pro defunctis, da considerare piuttosto come una cantata funebre che, meditando sulla vita, sulla morte e  sulla vita oltre la morte, rappresenta un “monumento” alla spiritualità e alla pace, che supera e trascende ogni confessionalismo.

Forte di una profonda conoscenza dei testi biblici, tipica della cultura tedesca protestante, Brahms tralascia lo schema della liturgia romana e costruisce da solo il testo di Ein deutsches Requiem, scegliendo brani dell’Antico e del Nuovo Testamento e ponendosi sulla scia di una illustre tradizione che aveva avuto uno dei suoi apici nel Musikalische Exequien di Heinrich Schüz.

In un periodo storico in cui, per dirla con Hegel, «Dio è morto» e «la sacralizzazione dell’arte è l’altra faccia del processo di secolarizzazione che investe l’intero Ottocento» (M. Giani), per molti compositori il rapporto con il trascendente era diventato incerto e «non si poteva più capire se scrivere una Messa da concerto volesse dire trasformare la sala da concerto in una chiesa, o la Messa in un pezzo da concerto» (C. Dahlhaus).

Eppure Brahms, attraverso i sette movimenti del suo Requiem, riesce ad aprirsi all’Assoluto con una straordinaria intensità espressiva; il suo lavoro, pur avendo l’organico tipico del grande oratorio romantico, riesce ad essere intimo, raccolto, soavemente lirico. E riesce a parlare della morte in modo nuovo, descrivendola musicalmente come un evento di sospensione mistica tra il doloroso peregrinare dell’uomo sulla terra e la pace del riposo eterno.

L’opera si conclude infatti con le parole dell’Apocalisse «Beati d’ora in poi, i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono» («Selig sind die Toten, die in dem Herrn sterben»).

Riprendendo il fa maggiore del movimento iniziale («Selig sind, die da Leid tragen – Beati coloro che soffrono»), Brahms porta a compimento, in maniera quasi ciclica, la sua personale riflessione e chiude un cerchio sapientemente disegnato, che oltrepassa la logica tutta umana dell’afflizione e si lascia avvolgere da una luce di beatitudine, di consolazione, di fiducia.

* Responsabile della sezione Arte e Cultura dell’Ufficio Comunicazioni Sociali del Vicariato di Roma

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ZENIT Staff

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