"Il mio petto come altare": ricordi di un sacerdote perseguitato nell'Unione Sovietica

Mons. Sigitas Tamkevičius, attuale vescovo di Kaunas, in Lituania, racconta gli anni di carcere e di sofferenza, a cui resistette grazie alla fede in Dio

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Lo scorso 9 novembre si è celebrato il 25° anniversario della caduta del Muro di Berlino, orribile bastione grigio che fendeva il cuore dell’Europa. In sua eredità restano oggi alcuni frammenti di cemento nella capitale tedesca e le testimonianze di chi fu personalmente coinvolto dall’esasperazione ideologica di quei decenni di odio. La battaglia organizzata dal comunismo internazionale contro il cristianesimo è uno degli aspetti più atroci del Novecento, che si rivela in tutto il suo realismo scorrendo la lunga lista di martiri, comprendente migliaia tra preti diocesani e religiosi, tra laici e seminaristi, oltre a un centinaio di vescovi e a quattro cardinali.

Il racconto che mons. Sigitas Tamkevičius, oggi vescovo di Kaunas (Lituania), ha rivolto a José Miguel Cejas nel libro El baile tras la tormenta (Il ballo dopo la tempesta), offre un prezioso spaccato sulla realtà di un prete nell’Unione Sovietica. Il sito Alfa y Omega ne ha proposto uno stralcio, relativo all’arresto, al conseguente interrogatorio e alla detenzione dell’allora padre Sigitas.

Il sacerdote gesuita fu fermato dalle autorità sovietiche insieme ad altri suoi confratelli nel 1983. “Salendo sulla camionetta del Kgb, mi invase un sudore freddo – confida mons. Tamkevičius -. I sotterranei del carcere, con i corridoi stretti, i soffitti alti, male illuminati da lampadine fioche, con macchie di umidità e crepe, non invitavano alla serenità”.

Dinanzi a un austero funzionario e con una luce accecante puntata sugli occhi, l’attuale arcivescovo fornì le sue generalità, le quali non lasciarono agli agenti alcun dubbio: “Caspita! È Sigitas, del Comitato per la Difesa dei Credenti, che fa propaganda antisovietica contro lo Stato!”, esclamarono. Ciò che in realtà interessava loro – rivela oggi l’arcivescovo – non era la sua partecipazione al Comitato, quanto la pubblicazione della rivista La Cronaca della Chiesa Cattolica in Lituania, un bollettino guidato da Tamkevičius con altri quattro sacerdoti e spedito all’estero.

Obiettivo di questa pubblicazione – concertato con il vescovo mons. Vicentas Sladkevičius – era informare il mondo sulle vessazioni cui erano sottoposti gli ecclesiastici e i praticanti cattolici in Unione Sovietica. Proibite catechesi e conferenze, veniva soffocato ogni anelito di evangelizzazione. Durante le Messe, poi, era sempre presente qualche spia del Governo che prendeva appunti sulle omelie e controllava che tra i presenti non vi fosse nessuno oltre agli anziani abituali.

Denunciare questa realtà oltre la Cortina di ferro evidentemente preoccupava i funzionari comunisti. Come racconta mons. Tamkevičius, “otto agenti iniziarono a interrogarmi un giorno sì e un giorno no. Non potevo immaginare che quell’interrogatorio si sarebbe protratto per sei mesi!”. Un lungo periodo durante il quale – aggiunge il presule – “Dio mi ha dato la forza di non tradire nessuno (…), neanche nei momenti di maggiore debolezza”.

L’arcivescovo spiega che in molti, ascoltando la sua testimonianza, gli chiedono come gli sia stato possibile resistere. Ad ognuno di loro, egli spiega che il merito non va attribuito alle sue forze. È nella sua perseveranza nella fede, piuttosto, che si trova il segreto della salvezza di mons. Tamkevičius.

Sebbene confinato nell’anfratto nascosto di una cella, privato di tutto, questo prete indefesso riuscì lo stesso ad assolvere il suo ministero di celebrare l’Eucaristia. “In carcere sono riuscito a comprare un po’ di pane e ho verificato che fosse di frumento – racconta -. Mi mancava solo il vino; in una lettera ho chiesto alla mia famiglia uva passa secca. Da allora in poi, dovevo solo trovare un buon momento, sapendo che il mio compagno di cella, come accadeva in genere, era un criminale comune al quale promettevano di ridurre la pena se avesse fornito qualche informazione compromettente su di me”.

Buon momento che si verificava quando il suo compagno di cella si addormentava. A quel punto il sacerdote, dando le spalle alla porta, disponeva l’astuccio degli occhiali sul tavolo e ci collocava un pezzo di pane e un piccolo recipiente con uva passa. Dopo di che, raccoglieva quest’uva e iniziava a spremerla tra le dita fino a ottenere qualche goccia di vino che, in casi eccezionali, è valida per celebrare l’Eucaristia.

Eccezionale era anche la gioia che pervadeva l’animo di mons. Tamkevičius in quei momenti. “Sperimentavo una gioia maggiore di quella che avevo provato la prima volta che avevo celebrato la Messa nella cattedrale di Kaunas”. L’arcivescovo è convinto che fosse dovuto al fatto che “Dio mi confortava e mi consolava”; presenza che era “al mio fianco, in modo ineffabile”.

Di qui la sua “forza speciale”, scudo vitale capace di respingere ogni tentazione di sconforto. L’arcivescovo ricorda che talvolta, per fuggire il pericolo che uno sguardo del suo compagno di cella potesse beffarlo, doveva celebrare steso sul letto, a notte fonda: “con le Sacre Specie sul mio letto, trasformato in altare”. Ricordi, quelli di mons. Tamkevičius, che rappresentano un ritaglio di quel periodo di persecuzione anticristiana, durante il quale tuttavia “le braccia di Gesù mi sostenevano”.

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Federico Cenci

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