Il mese dell'Assunta

A proposito della Madonna della Neve del 5 agosto

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di P. Mario Piatti icms,

Direttore del mensile “Maria di Fatima”

ROMA, domenica, 5 agosto 2012 (ZENIT.org) – La facciata della Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma, opera di Ferdinando Fuga (1741), custodisce al suo interno -quasi fosse un singolare e originalissimo sipario architettonico- i mosaici del sec. XIII, raffiguranti l’origine della primitiva chiesa, del IV secolo.

I fatti, trasmessi da una pia tradizione, sono noti a tutti. La Vergine, apparendo in sogno a Papa Liberio (pontefice negli anni 352-366) e al patrizio romano Giovanni, rivela dove desiderava che si erigesse una costruzione in suo onore. Il 5 agosto del 358 una imprevista nevicata ammantò l’ Esquilino e il Papa, confortato e confermato dall’inconsueto prodigio, poté delineare, sulla soffice coltre gelata, il perimetro della futura Basilica.

Il patrizio Giovanni si assunse gli oneri delle ingenti spese. Della chiesa originaria non è rimasto nulla, se non il solo accenno riportato nel Liber Pontificalis: “Fecit (Liberius) basilicam nomini suo iuxta Macellum Liviae”.

La successiva Basilica –quella che ancora oggi ammiriamo-  fu edificata poco meno di cento anni dopo, per volontà di Papa Sisto III (432-440), per magnificare Maria Santissima, riconosciuta e proclamata solennemente “Theotòkos”, Madre di Dio, dal Concilio di Efeso, nel 431.

L’attuale costruzione è stata poi arricchita, nelle varie successive epoche, da tesori di arte e di fede, ma ha conservata intatta la struttura del sec. V e gli stupendi mosaici, dello stesso periodo, lungo la navata centrale (episodi dell’Antico Testamento) e sull’arco trionfale (che riporta scene legate alla vita della Vergine, tratte dal Nuovo Testamento e dagli Apocrifi).

Al sec. XIII risalgono invece l’Abside e il pavimento “cosmatesco”; il soffitto a cassettoni è del ‘400. Come non ricordare, inoltre, il famoso Presepe di Arnolfo da Cambio (sec. XIII), la Reliquia della Sacra Culla e, tra le numerose cappelle, almeno quella cosiddetta Borghese e la “Sistina”?

Santa Maria Maggiore -come tante altre chiese, di Roma o di qualunque parte del mondo- è un invito incessante al raccoglimento, alla preghiera e alla viva ammirazione per ciò che di bello e di santo l’ingegno umano e l’estro artistico hanno saputo creare, a gloria di Dio e a edificazione dei fedeli.

Disabituati spesso, purtroppo, allo stupore, dovremmo imparare a rileggere e a gustare ancora, con amore e con venerazione, quanto le generazioni passate ci hanno consegnato, tracce incancellabili di una civiltà che ha segnato profondamente e positivamente la complessa storia della umanità.

A proposito di questa Basilica, in particolare, vorrei fermarmi, almeno per un momento, sulla “leggenda”, legata alla sua fondazione e a Papa Liberio. Sbrigativamente releghiamo in fretta al regno impalpabile della fantasia racconti di prodigi e di miracoli, giunti a noi dal passato.

Forse, con un generoso sorriso di compatimento, pensiamo alla innocente ingenuità di tanta povera gente, attratta più da favolette – che hanno ben poco da spartire con la realtà- che dal rigore scientifico delle date e dei dati oggettivi.

E probabilmente spesso è così: le narrazioni di Martiri e di Santi abbondano di episodi straordinari, di portenti e di interventi celesti, a volte sospetti o senza dubbio amplificati dalla tradizione.

Eppure, quella imprevedibile nevicata, nell’agosto di quel lontano anno –vera o immaginaria che sia, artificiosamente inventata a bella posta o frutto della fervida pietà popolare- conserva tutto il suo fascino “mariano”; sembra riprodurre, con la grazia propria di una infantile edificante narrazione, lo “stile” della Vergine Maria.

Come un frutto, maturato fuori del suo tempo, Gesù compie il primo miracolo quando ancora non è giunta la sua ora: muta l’acqua nel vino buono della Grazia e della Carità, a Cana, sollecitato proprio dalla Madre, a cui nulla Egli sa e può negare. “Che c’è tra me e te, o donna: non è ancora giunta la mia ora”: una espressione un po’ misteriosa, in quel brusco rivolgersi di Gesù a Maria.

Ancora di recente quei termini sono stati reinterpretati e ritradotti, anche se, forse, non ne coglieremo mai in pienezza il loro vero significato. Sta di fatto che il Signore è esplicito: non è ancora giunta la mia ora. La Fede di sua Madre anticipa i tempi, fa fiorire d’inverno le rose, ottiene ciò che umanamente non sarebbe possibile né sperabile.

Non è ancora giunta la mia ora: non è l’epoca della neve, siamo soffocati dalla calura estiva che allora, come ai nostri giorni, toglie il respiro e fa desiderare solo un po’ di refrigerio. E, inatteso, arriva dal Cielo il bianco manto, che rinfresca e reca sollievo.

Maria Vergine si trova sempre lì, sul confine angusto della realtà e dell’imponderabile. Intercede quello che neppure sembra lontanamente possibile, Lei che per prima ha sperimentato, nel suo purissimo Cuore e nel suo seno, che nulla è impossibile a Dio.

L’Eterno, l’Immenso, l’Infinito, Colui che i Cieli non possono contenere, ha trovato in Lei –umile e semplice creatura- la sua dimora; si è reso così piccolo da nascondersi, per nove mesi, nel suo grembo, vivendo di Lei, della sua carne immacolata, del suo sangue, dei suoi pensieri e desideri. Ecco perché la amiamo, la onoriamo, la predichiamo e la vogliamo far conoscere al mondo: “numquam satis”, dicevano di Maria Santissima i Santi.  

Grazie a Lei, nel cuore di una torrida estate di tanti secoli fa, comparve inatteso il refrigerio della neve, indicando il luogo dove la Vergine sarebbe stata particolarmente conosciuta, venerata e amata.

Forse anche per noi, poveri e miseri peccatori, ma fiduciosi nella sua materna intercessione, può accadere l’inattesa irruzione della Grazia nelle nostre pallide e sbiadite giornate; forse anche per noi può spalancarsi un giorno – seppure sempre come immeritata Grazia – la Porta del Cielo.

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ZENIT Staff

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